giovedì 14 marzo 2024

A proposito di divertimento

Il web mi riserva sempre delle sorprese, e le mie frequenti scorribande su youtube ogni volta si rivelano ampiamente fruttuose.
Così, stante il fatto che nel pubblicare musica
non seguo un ordine cronologico, ma quello dell'umore, del tempo, della passione per tanti brani compresi quelli che cerco di suonicchiare, oggi mi ritrovo con vari pezzi di autori diversi - come dico spesso - in gioiosa lista d'attesa.
Da Bach a Rachmaninov, da Vivaldi a Mozart e
- perchè no? - ancora a Scarlatti, la provvista che mi attende è molto nutrita.

Bene. Complice il ritorno di un sole già primaverile dopo le piogge torrenziali dei giorni scorsi, oggi ho voglia di leggerezza. Così nella mia riserva di pezzi ho scelto un bel Divertimento di Mozart.
Sul significato di questo termine in ambito musicale credo di aver già fatto qualche cenno altrove
. Si tratta di un genere molto in voga nel Settecento, composto da una sequenza di movimenti diversi, spesso scritti per celebrare svariate ricorrenze, talora eseguiti all'aperto o durante un banchetto e improntati quindi a un clima di festosa leggerezza.

Una parola interessante divertimento, non solo nel suo significato di svago e distrazione, ma soprattutto per la sua etimologia che - dal latino divertere o devertere - indica un volgersi altrove, cambiando direzione o argomento o atmosfera o tono. E mi sembra proprio adatta a definire la successione di movimenti - tra loro, appunto, diversi - che compongono questo genere musicale come Allegro, Andante, Adagio, Minuetto, Trio, Rondò, Presto, solo per citarne alcuni.

Quando ancora andavo a scuola ma ero già - diciamo così - dall'altra parte della barricata, ogni tanto ai miei alunni che si lamentavano di una mattinata pesante dicevo che passare da una lezione di italiano a una di matematica, poi a scienze, a chimica o inglese, non era altro che...divertimento! Esattamente quel de-vertere, che distoglie l'attenzione da un argomento volgendo la mente ad altro oggetto, come recita nientemeno che la Treccani!
A dire il vero, qualcuno di loro mi guardava male...e per certi aspetti lo posso capire. Però sapevano che il mio era un
modo di alleggerire la lezione col sorriso, anche se quella che poteva sembrare una battuta in realtà non lo era.

Bene. Chiedo scusa per la diversione e torno subito al brano che è lo splendido "Allegro di molto" dal "Divertimento per archi n.2 in Si bemolle Maggiore K.137" di un Mozart appena sedicenne.
Il brano esordisce fondendo una vivacità spumeggiante a quella gioiosa e giocosa
freschezza trasfusa dal compositore nelle prime sinfonie che aveva iniziato a scrivere a otto anni!!!
Certo, questo è un pezzo d'intrattenimento dalla vena un po' salottiera e non vi
possiamo cercare lo spessore drammatico o l'intensità di altre successive creazioni. Tuttavia, quando si parla di un genio come Mozart, per quanto nel suo itinerario musicale si possano ravvisare le fasi di un cammino verso la maturità artistica, mi sembra sempre difficile classificare i brani giovanili come frutto di un'ispirazione ancora acerba. Ci sono pezzi scritti dal musicista appena diciannovenne che possono essere considerati veri e propri capolavori: basti pensare, solo per fare qualche esempio, ai Concerti per violino K.218 e K.219!
A volte la giovinezza, con le sue speranze e il suo sguardo rivolto al futuro, offre
ventate di leggerezza e cristalline trasparenze di straordinario splendore e, se pure nel trascorrere del tempo l'ispirazione si approfondisce, queste restano come una sorta di luminoso prodigio.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

venerdì 8 marzo 2024

Fantasticando un po'...

Come vedete, sono ancora in compagnia di Domenico Scarlatti ed è una settimana che giro intorno alle sue Sonate, anche se sarebbe più corretto dire che sono loro a girarmi in testa sovrapponendosi liberamente ai miei pensieri.
Il fatto è che questo complesso di ben 555
brani ha tale ricchezza e originalità sia sul piano dell'inventiva che su quello degli espedienti tecnici che, ogni volta che ne ascolto qualcuno, mi vengono in mente i riferimenti più disparati. 

Il primo naturalmente è Bach e non solo per la contemporaneità dei due compositori, ma perchè nei pezzi scarlattiani risuona spesso l'eco delle fughe, delle progressioni o di quelle strutture polifoniche di cui il musicista tedesco è stato indiscusso maestro.
Ma non è tutto. Se mi si consente un'affermazione azzardata, l'intero corpus delle Sonate mi ha
fatto pensare a due celeberrimi lavori bachiani fatti di pezzi diversi ordinati in meravigliosa unità: il Clavicembalo ben temperato e le Variazioni Goldberg.
Non oso andare oltre stabilendo paragoni più precisi perchè non ne ho le competenze e poi
perchè - come scrivevo sopra - forse l'idea è davvero un po' eccessiva: sia le Goldberg che il Clavicembalo ben temperato, infatti, presentano un impianto organico, una coesione e una simmetria pensate con programmazione matematica da un genio musicale unico al mondo.

Tuttavia, per quanto la fantasia scarlattiana si sia sbrigliata più liberamente rispetto a Bach esprimendo spesso tutta la bizzarria del tardo-barocco, ascoltando le Sonate mi viene comunque spontaneo pensare anche qui a un complesso non privo di una sua organicità. E se poco appropriato potrebbe essere il riferimento alle Goldberg, forse più adatto può rivelarsi quello al Clavicembalo ben temperato che Bach aveva composto in precedenza a scopo didattico, come sarà poi delle Sonate del compositore napoletano, pubblicate - almeno in parte - proprio come esercizi.

Ma il pensiero non va solo a Bach. Oltre a Zipoli che citavo la volta scorsa, l'ascolto mi suggerisce anche altri autori. Così oggi, sempre di Scarlatti vi regalo ancora due pezzi a mio avviso interessanti.
Avevo pensato in un primo tempo di tornare a un vecchio amore: la mitica Sonata
K.27 che ho già pubblicato tanti anni fa e che per me è tra le più affascinanti; ma proprio per questo merita un post a parte. Così, ho scelto due brani che, nonostante siano tecnicamente più facili, esigono però un'attenta interpretazione per fiorire in tutto il loro splendore.

Il primo è la "Sonata in La Maggiore K.208" che il compositore ha scritto, come le altre, durante il suo soggiorno in Spagna. I musicologi parlano di un'armonia dall'andamento talora inatteso che supera gli schemi della tradizione e qualcuno pensa proprio all'influsso della musica iberica.
Può anche darsi ma, ad essere sincera...io ci sento Vivaldi!

Appena ho iniziato ad ascoltarla, mi è parso infatti di immergermi nella magica atmosfera d
i certi pezzi lenti vivaldiani. L'indicazione è "Adagio e cantabile" e se provate a immaginare questa melodia trascritta per archi, sentite un brano dove il basso ritma e scandisce le note con splendida misura, mentre il violino ci regala un'aria ricca di dolcezza ed eleganza. Naturalmente sto fantasticando perchè non mi pare esista una versione per archi. Ce ne sono invece per chitarra o arpa dalle quali emerge soprattutto la nitidezza della composizione. Ma anche così, per pianoforte solo, la trovo di una meraviglia assoluta.

Diversa la "Sonata in Do Maggiore K.95" in apparenza lontana dallo stile scarlattiano e della quale esistono interpretazioni diametralmente opposte: alcune per clavicembalo a mio avviso troppo veloci, per quanto ritmate e ricche di abbellimenti; altre invece per pianoforte molto più lente, scorrevoli e oserei dire riposanti. Ho scelto così una di queste ultime le cui battute iniziali mi riportano nientemeno che a Mozart e ad Haydn: a Mozart per un'ombra di somiglianza con l'esordio della celebre Aria di Papageno dal "Flauto magico"; e ad Haydn per il ritmo ternario del tema che mi ricorda lo splendido Duetto di Adamo ed Eva dall'oratorio "La Creazione".

Sto fantasticando ancora certo, e non ho prove che tali riferimenti siano corretti se non il mio sgangherato orecchio musicale dove le melodie s'intrecciano a modo loro, seguendo percorsi un po' folli. Però mi piace pensare che sia così.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

giovedì 29 febbraio 2024

Misteriosi DJ

Siamo noi a scegliere una musica o è lei a scegliere noi? Siamo noi a orientarci consapevolmente verso un brano, un compositore, uno stile, uno strumento?
O si tratta di un impulso che, dal profondo, ci guida
a scoprire melodie e ritmi già presenti nel segreto del nostro cuore?

Come si originano i gusti musicali? Li portiamo in noi dalla nascita o ci arrivano invece dal contatto col mondo esterno, con la cultura, l'educazione all'ascolto insieme magari all'esperienza di suonare uno strumento?

Probabilmente, sono vere entrambe le cose perchè certi gusti sono spesso frutto di un incontro tra la nostra interiorità e la realtà fuori di noi che - talora - va a svegliare inclinazioni che abbiamo già dentro come fossero scritte nel DNA e nelle quali poi ci riconosciamo.
Certo, il mondo esterno è anche fonte di condizionamenti, ma ad essi spesso la musica sfugge. Ha infatti
una vita tutta sua per cui si sedimenta in noi, s'intreccia alle nostre vicende e ci lavora l'anima a nostra insaputa per affiorare un giorno - anche a distanza di anni - come una splendida perla da un fondale marino.  
Non fosse così, non mi spiegherei il motivo di ciò che accade a me - e certo chissà a
quanti altri! - quando ogni mattina, al mio risveglio, mi parte dentro una musica che non ho neppure pensato, quasi esistesse in noi un misterioso disc jockey che sceglie liberamente i suoni da regalarci per la giornata. Ovvio che, se stai imparando un brano, è più facile che affiori quello, ma non è detto: i nostri DJ sono spesso sorprendenti e imprevedibili.

Bene. Tutto questo per dire che il mio da qualche mattina mi dà la sveglia con Domenico Scarlatti (1685 - 1757), ed è proprio al compositore napoletano che oggi mi piace tornare perchè le sue Sonate sono una continua scoperta. Del resto, ne ha scritte la bellezza di 555 e c'è solo l'imbarazzo della scelta!

Le sto riascoltando da qualche tempo e ne osservo ancor più che in passato non solo la piacevolezza, ma insieme la varietà, la fantasia e la capacità di toccare registri molto diversi: un cristallo dalle tante sfaccettature, insomma. Si va dal piglio gioioso e giocoso di una danza dal sapore popolaresco alla lentezza di una meditazione nostalgica; da irrefrenabili rincorse di note ricche di trilli e abbellimenti a malinconiche pause di riflessione dal clima di straordinaria modernità.
Più lo vado frequentando, più mi accorgo che - senza nulla togliere ai suoi
grandissimi contemporanei quali Bach, Vivaldi e Haendel - Scarlatti si distingue per un'originalità che, dal punto di vista tecnico, lo pone quasi in anticipo sui tempi. Ma parte di questa originalità credo derivi proprio dalla sua indole napoletana che - come scrivevo in passato - si riflette magnificamente nella musica, sia dove ha caratteri languidi e appassionati, sia dove ha un ritmo decisamente movimentato.

Così oggi vi propongo la "Sonata in Mi maggiore K.531" in due differenti interpretazioni e con due diversi strumenti che - a mio avviso - mettono in luce i molteplici aspetti del suo incanto.
È un brano vivace che sprizza allegria e fa pensare a una danza. Il suo tempo ternario di 6/8 mi ha ricordato in un primo momento una giga, per esempio quella dalla "Suite in sol minore" di Domenico Zipoli - altro contemporaneo di Scarlatti - che potete sentire qui.
Ma proseguendo nell'ascolto, in largo anticipo su quella più celebre di Rossini vi si coglie
anche il ritmo di una tarantella, soprattutto nelle terzine ripetute in modo sempre più acceso dove dalla tonalità maggiore si passa in minore.
E mi ha fatto pensare a quanto tale ritmo abbia espresso in pieno la vivacità dell'indole napoletana, rimanendo poi come elemento portante della sua tradizione musicale.

La prima clip audio, corredata anche dallo spartito, presenta il brano eseguito al clavicembalo e devo confessare che, mentre di solito trovo il suo timbro troppo secco e metallico, qui mi piace molto per la sua brillantezza fatta di suoni netti, precisi ed eleganti.
Diversissima la versione al pianoforte, non solo per l'uso di uno
strumento più morbido e duttile, ma soprattutto per la straordinaria interpretazione che ho trovato. Sì, lo so, l'atmosfera non è quella che si addice ad un pezzo barocco, ma - lasciatemelo dire - che interpretazione fantastica! Non per niente è Zhu Xiao-Mei, pianista cinese dalla storia molto tormentata - ne ho parlato anni fa qui - e divenuta celebre per le sue registrazioni bachiane.

Forse i puristi grideranno allo scandalo davanti allo slancio impetuoso con cui esegue questo Scarlatti, accentuando i contrasti tra forte e piano così come tra passaggi lenti e più veloci e allungando le pause con indicibile dolcezza.
Ma che meraviglia questo andamento turbinoso come un torrente in piena e insieme precisissimo: una
padronanza di note e di ritmi che la pianista - prima ancora che nelle mani - certo possiede nel cuore, nella sua singolare fusione di vita e di musica!

 Buon ascolto!

(Nella foto, presa dal web, "Danza napoletana: la Tarantella" di Thomas Uwins, 1830)

 

 

giovedì 22 febbraio 2024

Specchi d'acqua - 2

Philippe de Thaon : "Bestiario"





 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Faccio seguito qui al post dello scorso gennaio nel quale parlavo del mare nella celebre "Nascita di Venere" del Botticelli, per tornare indietro nel tempo ad osservare il modo in cui l'arte ha raffigurato le onde e il loro moto nei vari specchi d'acqua. Così, mi piace proporre una breve carrellata di immagini.

Le fonti sono mosaici, icone, miniature, antiche mappe e carte nautiche all'interno di testi di carattere profano o - più spesso - religioso, dall'epoca romana al Medioevo. Sono storie di viaggi a cominciare da quello di Marco Polo in Cina, o dai pellegrinaggi in Terra Santa, cronache di battaglie navali, talora illustrazioni della Divina Commedia; ma spesso anche narrazioni bibliche come la storia del diluvio o quella di Giona inghiottito dalla balena, o episodi evangelici come la tempesta sedata e la pesca miracolosa. Tra questi, particolare attenzione va al Battesimo di Cristo - e quindi al fiume Giordano - tema che ha avuto molta fortuna nel tempo e al quale dedicherò magari in futuro un articolo a parte.

Materiale vastissimo quindi, dal quale ho scelto però poche immagini tra quelle che mi hanno colpito per la loro originalità. Sono raffigurazioni spesso diverse tra loro anche per le differenti tecniche con cui sono state realizzate, ma tutte affascinanti a volte per i tentativi di realismo, altrove per iconografie più fantasiose e un po' elementari che - tuttavia - in certi casi assumono caratteri vagamente avveneristici e di sorprendente modernità.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo dimostra il mosaico riportato qui sopra, dettaglio della "Chiamata di Pietro e Andrea" e parte della decorazione musiva della basilica di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna. Siamo nel VI secolo d.C., eppure quel delfino che solca le onde ricurve, insieme alle tessere che le rappresentano nelle loro varie sfumature di verde, è davvero di grande modernità. Non ne conoscessimo l'epoca, potremmo scambiarlo per un manufatto dei nostri giorni.

Un'immagine in parte differente troviamo invece qui a lato nel mare del "Viaggio dei Magi", mosaico della volta del Battistero di San Giovanni a Firenze, realizzato dal cosiddetto Maestro della Maddalena intorno alla fine del 1200.
Anche qui, lo specchio d'acqua è formato da una serie ripetuta di onde
ricurve ad indicarne il movimento, in mezzo alle quali possiamo scorgere diversi pesci. Tuttavia l'effetto è ben diverso.

Ma la rappresentazione del mare è legata anche ad altri aspetti.
Nel mondo antico e medioevale era infatti considerato uno spazio misterioso da
guardare con timore, mentre la sua graduale esplorazione ne darà poi immagini via via più concrete e meno legate alle paure, ai simboli o alla fantasia. Resta comunque per parecchio tempo il luogo del pericolo, popolato da pesci ma anche da mostri, come possiamo osservare nella prima foto grande in alto, tratta dal "Bestiario" di Philippe de Thaon (XII sec.), conservato alla Kongelige Bibliotek di Copenaghen.

Lì, vediamo un mare verde in cui le onde sono semplici righe ondulate inframmezzate da pesci; ma ai lati si ergono due enormi draghi alati, minacciosi e aggressivi, grandi quasi come l'imbarcazione.

Questa foto più piccola a lato, intitolata "Balena gigante", è invece parte della Miscellanea teologica di Peraldo (XIII sec.) conservata alla British Library di Londra. Ma ricorrono anche qui più o meno gli stessi caratteri, a cominciare dalla evidente sproporzione tra l'enorme pesce e la barca.

Un mare calmo dalle onde simili a righe orizzontali, ma sempre
popolato di pericoli è quello rappresentato dal mosaico pavimentale di Aquileia, capolavoro di arte paleocristiana del IV sec. d.C.
Qui, in un bellissimo e celebre dettaglio, è
raffigurato Giona mentre viene gettato nelle fauci non di una balena, ma di una sorta di serpente marino dalle spire sinuose. 

Un animale ben diverso, ma - almeno nella fantasia di chi lo ha dipinto - più simile a una balena se non altro per le sue dimensioni, è rappresentato invece nella miniatura sottostante della metà del sec.XV.
Di particolare interesse è qui il modo in cui sono state realizzate le onde: piccole montagnette aguzze e stilizzate, in cima a ciascuna delle quali è possibile scorgere una breve arricciatura a rappresentare la spuma. Tratti simili e veloci, per certi aspetti un po' elementari, ma per altri ancora una volta modernissimi.

Ma tale iconografia mi sembra ancora più chiara nella foto successiva: una miniatura del XV secolo, tratta dal "Factorum et dictorum memorabilium Libri IX" di Valerio Massimo, conservato presso la Bibliothèque de l'Arsenal a Parigi.
Il testo dello scrittore latino vissuto tra il I sec.
a.C. e il I sec.d.C., ha avuto infatti immensa fortuna e diffusione nel Medioevo, ad opera di numerosi amanuensi che lo hanno anche arricchito di splendide miniature proprio come quelle che vedete.

Qui il copista ha voluto rappresentare un mare agitato che risulta efficacissimo. Infatti, quelle onde alte e insieme larghe, disposte in successione alternata, a mio avviso rendono magnificamente l'idea del beccheggio della navicella, ancor più della miniatura precedente dove sono più fitte ma al tempo stesso molto schematiche.

Un mare agitato e fantasioso dunque, in un'iconografia che ricorre spesso, come nella miniatura sottostante che - all'interno di altri testi - raffigura onde e navi durante la battaglia della Meloria tra le antiche Repubbliche marinare di Pisa e Genova.

Infine, per passare alla musica, ho scelto di associare a queste immagini il celebre terzo movimento, "Allegretto", dalla "Sonata per pianoforte in re minore n.17 op.31" detta "La tempesta" di Ludwig van Beethoven ( 1770 - 1827).
Il brano,
nel tempo ternario di 3/8 in cui le terzine si susseguono con ritmo ora tranquillo, ora più affannoso quasi quella del compositore fosse una corsa, dà l'impressione di una sorta di moto perpetuo. Ma tale ritmo, creato dalla successione degli arpeggi, mi suggerisce anche il movimento ondeggiante di un'imbarcazione sul mare e, dove la musica va facendoci più tempestosa e cupa, l'appressarsi di un pericolo dal cielo o dal profondo.
Diciamo la verità: forse Beethoven nel concepire la Sonata non pensava affatto a questo, ma pare fosse stato
ispirato dalla visione di un cavallo al galoppo. Inoltre, il termine tempesta, nella sua ampiezza, potrebbe indicare anche un evento interiore, una particolare fase compositiva portatrice di novità, chissà mai!
A me però piace associare queste note ricche di una grande varietà di arpeggi,
all'altrettanto vario andar per mare: uno specchio d'acqua ora calmo, ora intensamente agitato, ora scuro come un abisso che nasconde dei pericoli, ora per qualche istante luminoso. Del resto, la tonalità del brano è un malinconico re minore con qualche breve apertura qua e là in maggiore, come quando da un cielo coperto di nuvole filtrano i riflessi del sole sulle onde e, per un attimo, tutto s'illumina.

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)





giovedì 15 febbraio 2024

Quando la vita si traduce in note...

So che tanti, sul web, hanno parlato a lungo - e spesso meglio di quanto sappia fare io - del monologo di Giovanni Allevi alla sua prima apparizione pubblica al festival di Sanremo, dopo la grave malattia che lo ha colpito. 

Anch'io ho apprezzato la lezione di vita fatta di coraggio, gratitudine e speranza che il compositore ha regalato a tutti, a cominciare dai pazienti con i quali ha condiviso la sofferenza di questi lunghi mesi. Il suo è stato un messaggio toccante per la ricchezza umana di una verità senza maschere.
Non intendo ora riportarne il contenuto già commentato più volte da altri, e
confesso che è un terreno su cui mi muovo con qualche tremore, perchè addentrarsi nel dolore altrui significa talora violare uno spazio sacro.
Tuttavia, non voglio passare sotto silenzio alcuni passaggi molto
significativi dell'intervento del compositore durante la conferenza stampa che ha preceduto la serata del festival e che potete ascoltare qui.

Con riferimento all'esperienza di profonda fragilità creata dalla malattia, Allevi ha parlato del cammino interiore percorso, perchè proprio nel cuore di tale fragilità ha potuto scoprire una più autentica visione del mondo. Un discorso fatto nella concreta consapevolezza di non poter progettare un futuro a lunga scadenza, ma solo - per usare parole sue - un presente allargato da vivere tuttavia giorno per giorno con intensità, gioia e speranza. 

Mi ha colpito la sua commozione a fior di sorriso, quel parlare con grinta e al tempo stesso disarmante semplicità di cose essenziali come la vita e la morte. Ho apprezzato molto la sottolineatura del ruolo della riflessone filosofica in un cammino così arduo. Ma essenziale per il compositore è stata naturalmente la musica che - come ha sottolineato - ha dato senso alla sua sofferenza trasformando in note dentro di lui i tratti più dirompenti di una simile prova: dalle paure all'ansia del domani, al timore che le terapie potessero non funzionare, fino alla morsa del dolore fisico.

E mi viene spontaneo chiedermi a quali suoni e a quali strumenti abbia affidato l'espressione di tale sofferenza: al timbro grave del violoncello o alle ottave più basse del pianoforte?... E quale tonalità avrà scelto? Lo struggente fa minore del suo Concerto per violino, o un luminoso do maggiore per aprirsi caparbiamente alla speranza?... Chissà! Ma torno alle sue parole:

"Che bello che la musica e l'arte siano l'occasione per trasformare la fragilità umana in una forza, una forza avvolgente!"

Che bello, sì! Certo, saper tradurre la vita in note è prerogativa - se non di tutti - di tanti compositori che hanno rispecchiato nei loro brani passioni ed esperienze vissute. Gli esempi non si contano. Ma tale riflessione, espressa da chi ha provato in maniera lacerante la precarietà esistenziale, mi pare un'ulteriore conferma di quanto la musica sappia accendere una luce proprio all'interno della fragilità stessa, consentendo il passaggio liberatorio dal buio dell'angoscia alla rinascita del cuore.

Così, alle parole del musicista mi piace associare il suo "Back to life", brano tra i più amati dal pubblico, tratto dall'album "Joy" del 2006.
Torno quindi molto indietro nel tempo, non per sminuire la speranza
delineata dal più recente "Tomorrow", ma perchè mi pare che "Back to life", dai passaggi più assorti a quelli più intensi, ci offra due percezioni. Da un lato permette di intuire la profondità di quell'iceberg di pensieri che talora ci portiamo dentro e di cui in questi giorni Allevi ha svelato la punta; dall'altro, ci regala lo stupore del ritorno alla vita che possiamo avvertire prima timido e un po' esitante in alcune pause, poi sempre più animato e sicuro.

Un brano pensoso, fatto di garbo e delicatezza come lo stile con cui il compositore ha sempre parlato della propria condizione esistenziale: note che proprio per lui possono suonare oggi di straordinaria attualità nel suo ritorno alla vita, consapevole dei sorprendenti doni della malattia.
E mi vengono in mente le parole di Fëdor Dostoevskij: "Nel dolore la verità si fa più
chiara", quasi che dal tunnel della sofferenza possa affiorare ancora più intensa e libera l'espressione della nostra autenticità.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

martedì 6 febbraio 2024

Vertigini

È stato durante la ricerca affannosa di foto per il mio calendario toscano - ormai fatto in casa - che in computer mi sono imbattuta in questa immagine scattata durante uno dei miei viaggi.
Siamo a Lucca, città in cui mi reco sempre
volentieri per lo splendore delle sue opere d'arte e la bellezza del centro storico circondato da mura.
Ma ad attirarmi è anche il fascino dello stile
romanico pisano con marmi e decorazioni simili a ricami che possiamo ammirare, oltre che nel Duomo, nella chiesa di San Michele in Foro della quale qui vedete alcuni miei scatti.
Se ingrandite l'immagine della facciata infatti,
potete cogliere la ricchezza e la varietà di ornamenti - opera di maestranze lucchesi e pisane - nelle colonnine tortili tutte diverse, nei capitelli e nelle tarsie marmoree che rappresentano figure immaginarie e animali in lotta fra loro.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tuttavia, il motivo per cui riporto queste foto è un altro: è la scoperta di quella scaletta aerea sul retro  della facciata, che conduce alla statua di San Michele troneggiante in cima e affiancata da due angeli. È una splendida immagine di leggerezza, come se la luminosa muratura stagliata nell'azzurro non avesse peso.
Ma ricordo la mia sorpresa la prima volta che l'ho vista, perchè - al di là di qualunque
considerazione architettonica - mi aveva fatto un effetto paralizzante. Mi ci ero subito vista sopra: incerta, tremante, pencolante, impacciata, soprattutto perchè da un lato non c'è corrimano ma il vuoto!...

Parliamoci chiaro: da sempre vado in montagna, prendo senza problemi funivie o seggiovie e mi piace affacciarmi da balconate anche molto alte sul panorama.
Però in passato, due o tre volte ho avuto le vertigini e so con quale sensazione
viscerale ci afferrino fino a bloccarci, rendendoci incapaci di muoverci, nè avanti, nè indietro.
Così, quella scaletta obliqua in bilico tra terra e cielo mi è rimasta impressa
con il fascino delle cose che ci fanno paura, ma insieme oscuramente ci attraggono.

In realtà, a ben guardare i gradini non sono tanto piccoli e neppure ripidi, ma è quel vuoto a destra senza riparo a farmi pensare che, invece di appoggiarmi al corrimano salendo ben diritta e godendo dell'ampio panorama, finirei per appiattirmi senza rimedio contro il muro in attesa di soccorsi!
Mio marito, nella sua concretezza, sullo sfondo brontola: "Ma che scrivi a fare?... Mica devi salire tu su quella
scaletta!" Però poi ride perchè sa che quanto sto dicendo sulle mie vertigini non è invenzione, ma pura verità!

Ma da una scala...alla musica - lo sappiamo tutti - il passo è breve, così a questa vertiginosa immagine di marmo bianco ho pensato di associare un brano di Domenico Scarlatti (1685 - 1757). A lui mi hanno condotto le minutissime decorazioni della facciata di San Michele simili a ricami, come lo sono tante delle sonate del compositore nella loro ornamentazione di scale, trilli e abbellimenti. Bene, una sonata dunque, ma quale?

Inizialmente, avevo pensato a quella in sol minore K.30 soprannominata "Fuga del gatto" per il suo andamento che sembra imitare proprio l'incedere di un felino. Del resto, chi meglio dei gatti che amano camminare sopra i tetti saltando con agilità da un cornicione all'altro, potrebbe avventurarsi senza timore su quell'aerea scaletta? Poi però il brano, benchè sia una fuga molto efficace dove le varie voci sembrano proprio dei passi, mi è parso un po' troppo tranquillo e uguale nella sua struttura tutta a terzine.

Così, di pezzo in pezzo, sono approdata alla "Sonata in mi minore K.98" che - per quanto non abbia alcun titolo nè riferimento ai gatti - in alcuni passaggi può rifletterne le movenze ora lente e guardinghe, ora più scattanti e veloci.
Ci sono punti in cui se ne coglie addirittura il passo felpato, lento ma scandito e ritmato
da una nota all'inizio delle varie sestine. La sentite?...e nello spartito la vedete?
Allo stesso modo, i numerosi trilli che poi costellano il brano possono far pensare a piccole fermate,
brividi che durano un attimo o brevi pause di tremore in un vertiginoso andirivieni di suoni.

Buon ascolto!

lunedì 29 gennaio 2024

Glenn!!!

Mi perdonerà Glenn Gould - dall'alto del paradiso dei musicisti dove certo si trova - per la confidenza che mi prendo di chiamarlo per nome.
Ma quando un talento, una dedizione,
uno stile sono così assoluti e travolgenti da parlare alla nostra vita, forse possiamo permetterci questa familiarità.
Se infatti una passione diventa contagiosa, se
un modo come il suo di entrare nella musica restituendocene l'essenza arriva a toccarci e riempirci di entusiasmo, allora l'interprete non è più un estraneo, ma una persona che col nostro cuore intrattiene una straordinaria vicinanza. E poco importa che non sia più con noi da oltre quarant'anni, perchè vive in ciò che ha suonato, come sono vivi tanti compositori del passato a cominciare da Bach del quale Gould ha lasciato celeberrime registrazioni.

Ma perchè dico questo? Perchè ho ritrovato su youtube un breve ma famosissimo filmato che ogni volta mi entusiasma. Così oggi lo condivido qui. 
Il video ci presenta il giovane Glenn mentre prova la "Sinfonia" che apre la "Partita n.2 in do
minore BWV 826" di Johann Sebastian Bach.
Siamo nel 1958, il pianista ha 26 anni ed è ripreso all'interno del proprio cottage in Canada. È in veste da camera, la tazza della colazione sul pianoforte, e sta studiando. Incuriosiscono sempre gli aspetti della vita privata e della quotidianità di un genio, ma ciò che il filmato ci offre va oltre la superficie per aprire squarci più profondi.

A colpirmi qui non è solo l'ambiente casalingo con i libri affastellati in uno scaffale, gli alberi mossi dal vento fuori dalla finestra e il cane. Stupisce certo l'incredibile velocità delle sue mani, frutto di una raffinatissima tecnica, ma ad affascinarmi è soprattutto la grinta di Gould, una grinta splendida e impressionante che ci parla del suo rapporto viscerale con le note.
Note che canta con voce piena e calda, come ha sempre fatto anche durante le
registrazioni quasi fosse sospinto da un insopprimibile moto dell'anima.
E cantando segna il tempo, sottolineando con forza e - oserei dire - con
spregiudicatezza il ritmo incalzante del pezzo bachiano.

La "Sinfonia" della Partita in do minore - termine che qui sta per brano introduttivo e non per composizione orchestrale come sarà poi - comprende due parti: un Grave adagio dalla costruzione polifonica simile a un corale e un Andante prima lento e scandito, poi vivacissimo nel suo andamento fugato.
Gould entra nel pezzo bachiano facendolo suo tanto da cantarlo sia mentre suona che quando si al
za dal pianoforte, senza che il filo della musica in lui s'interrompa ma continuando a ritmarlo per conto proprio. E si esercita - lo sentite - soffermandosi più volte sullo stesso passaggio, precisamente quello che apre la fuga, correggendosi con grinta quasi feroce e concentrazione assoluta come se tutto il suo essere vivesse in quelle note.

Suona risoluto e travolgente, ma al tempo stesso rigoroso e nitido negli staccati, lontano da interpretazioni pseudoromantiche, nella volontà di far emergere la struttura contrappuntistica dalla purezza esecutiva.
Un Bach, il suo, rarefatto e proprio per questo ancor più espressivo, come
dimostrerà il confronto tra le due letture delle Variazioni Goldberg, nel 1955 e poi nel 1981. Se infatti la prima è una vibrante prova di virtuosismo, la seconda, più lenta e ricca di pause, è una ricerca di essenzialità.

Ma mi piace anche l'ombra di sorriso che - nel filmato - per un attimo compare sul viso di Glenn mentre scandisce con delicatezza le prime note dell'Andante.
Un sorriso che vediamo più aperto nella bellissima foto qui a
lato che lo ritrae ancora tredicenne: un ragazzino gioioso, la destra sui tasti e accanto lo splendido cane che sembra avere per lui un gesto protettivo.

Tuttavia, tale gioia col passare del tempo cederà il passo alla malinconia. La foto in alto ci restituisce infatti lo sguardo già pensieroso di un giovane destinato a diventare un adulto ipocondriaco, che terrà lontano il pubblico sospendendo l'attività concertistica a soli 32 anni, e avrà abitudini un po' maniacali come quella di suonare su di una sedia così bassa che nessun musicista forse userebbe mai. 

Eppure, anche quelle che ai comuni mortali possono sembrare solo stravaganze avevano un loro senso finalizzato alla musica, a cominciare dalla gestualità talora enfatica con la quale Gould sottolineava il riverbero della singola nota o l'intensità di una pausa o di una ripresa. Lo si può osservare in questo video dove la mano sinistra sembra accompagnare e commentare con potente intensità espressiva lo splendore del pezzo che sta suonando: una Fuga dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato.
Quella di Glenn è insomma l'arte di un genio ineguagliabile, un interprete che della propria
storia con la musica - in particolare quella di Bach - ha fatto un cammino di progressiva interiorizzazione, una sorta di ascesi di un tale spessore che forse riusciamo appena ad intuire.

Buona visione e buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

lunedì 22 gennaio 2024

Specchi d'acqua - 1


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nasce da lontano la suggestione che mi porta oggi a inaugurare una serie di post sull'acqua: dal mare ai fiumi e ai ruscelli, dalle tempeste alla pioggia o alle immagini riprodotte dai pittori, cantate dai poeti e spesso celebrate in note. Da Petrarca a D'Annunzio, da Ungaretti a Neruda - solo per citarne alcuni - l'acqua è stata più volte descritta per la sua trasparenza, il suono, la forza rigenerante o distruttiva e insieme per la sua capacità di segnare momenti forti della nostra esistenza. Così pure, le note o i colori che ne hanno fissato l'incanto - da Vivaldi a Ravel o da Giotto a Monet - ci riempiono spesso di stupore.

Quello dell'acqua nell'arte figurativa o in musica è un tema già ampiamente trattato, ma qui mi piace portare qualche esempio che esuli almeno in parte da quelli citati altrove, cercando invece il suo fascino in un semplice dettaglio o il vibrare delle onde in un brano nato magari con altri intenti.
Così, oggi vi propongo un dipinto celeberrimo in uno dei
suoi particolari più leggiadri. Lo avrete già riconosciuto: è la "Nascita di Venere" di Sandro Botticelli (1445 - 1510) conservato a Firenze, presso la Galleria degli Uffizi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al di là della figura della dea che l'artista ha dipinto a modello dell'antica statuaria greca ma con linee morbide e di più raffinata leggerezza, il mito della sua nascita dalle acque, cantato in seguito anche dal Foscolo, mi conduce a quel mare che qui non fa semplicemente da sfondo all'opera, ma è elemento essenziale sul quale si apre e si dipana tutta la scena.

E come si presenta? Osserviamolo: è una distesa incantevole e calma, se non fosse per quelle ondine increspate dal vento in una vibrazione che si propaga intorno rendendo più chiara e trasparente la superficie.
È il soffio di Zefiro ad animare tutta la
composizione. Dalla chiome di Venere - che ricordano i capei d'oro a l'aura sparsi di petrarchesca memoria - fino ai panneggi delle figure laterali, il vento crea infatti un dolcissimo movimento di linee che tuttavia non altera la compostezza dell'insieme.
Guardiamo per esempio con quale assoluta grazia e levità scendono i
fiori, quasi stessero planando sull'acqua con una leggiadrìa che ci riporta ancora al Petrarca e alla pioggia di fior da "Chiare, fresche, dolci acque"!
Un'immagine che - se può ricordare alcuni testi poetici del passato - riflette però i canoni di bellezza ideale della fine del Quattrocento, periodo in cui il Botticelli realizza il quadro. E a tali canoni
non sfugge la rappresentazione del mare.

Ma in quali particolari elementi consiste la novità? E come venivano raffigurati i vari corsi d'acqua nelle opere dei secoli precedenti?

Sia che fossero di argomento sacro come i numerosi dipinti sul tema del "Battesimo di Cristo", o profano come per esempio la "Veduta di città sul mare" e il "Castello sul lago" di Ambrogio Lorenzetti, l'acqua veniva spesso rappresentata da una serie di linee ricurve sovrapposte ad imitare il moto delle onde.
E se torniamo indietro nel tempo ad anni in cui
l'impostazione prospettica era ancora incerta, troviamo raffigurazioni di un realismo a dire il vero un po' arcaico.

Ve ne riporto solo un esempio qui a lato come termine di confronto: si tratta del "Battesimo di Cristo" realizzato dal cosiddetto Maestro di San Bassiano all'inizio del Quattrocento e conservato a Lodi nella Chiesa di San Francesco.
Solo un'ottantina d'anni separa quest'opera da quella
del Botticelli, ma in realtà sia sul piano prospettico che per altri caratteri c'è un abisso. Basta osservare il modo con cui l'autore ha reso l'acqua del fiume Giordano e i pesci al suo interno.

La "Nascita di Venere" è tutt'altra cosa. Qui, se realistica è la proporzione del mare fino alla linea dell'orizzonte, e altrettanto è la presenza dei giunchi verso la riva, quasi stilizzata è invece la resa delle spume: brevi tocchi essenziali, veloci guizzi di luce, bagliori più o meno fitti o marcati a rendere la superficie ora cupa, ora scintillante. Così pure, i colori tenui e le calibratissime sfumature tra il verde chiaro e il rosa dei fiori, dell'acqua e del cielo, ci regalano un'immagine di ampio respiro e inarrivabile bellezza.

Una visione incantevole dove il lieve fremito delle onde mosse da un vento leggero può ricordare il dantesco tremolar della marina, anche se questa del Botticelli non sembra un'alba nè siamo in Purgatorio.
Ma l'acqua rimanda anche a un significato di
purificazione perchè - come alcuni studiosi hanno affermato - lo schema dell'opera può far pensare a una sorta di trasposizione profana del tema del Battesimo di Cristo. E sembra quasi stabilire una corrispondenza fra l'idea cristiana della purificazione nell'acqua battesimale e il mito classico della nascita dal mare di una Venere non più simbolo di amore sensuale, ma ideale di bellezza spirituale secondo il pensiero neoplatonico dell'epoca.

E con quale musica celebrare allora il mirabile specchio d'acqua botticelliano?
Ci ho pensato a lungo.
A tutta prima, la mia scelta era caduta su Monteverdi: che cosa meglio di un madrigale come "Ecco mormorar l'onde" o "Zefiro torna" ? Poi non so, qualcosa non mi convinceva non nella bellezza dei brani in sè, ma per ciò che stavo cercando. Così, muovendomi nel grande mare della musica, sono approdata a Mozart con un pezzo che sto ascoltando da giorni e che mi è rimasto dentro.

Si tratta dell' "Andantino con espressione" dalla "Sonata n.9 in Re maggiore K.311" che qui trovate interpretato da Mitsuko Uchida, per la quale in questo periodo ho tradito alcuni miei miti come Andráss Schiff e Maria João Pires.
È un pezzo di grande delicatezza che, pur essendo nato con
intenti diversi rispetto alla descrizione di un corso d'acqua, a mio avviso può rispecchiarne comunque alcuni caratteri. Vi sono infatti trilli, acciaccature e passaggi sempre più ricchi di abbellimenti attraverso i quali è possibile ritrovare ora la vibrazione delle onde sulla superficie dell'acqua, ora l'atmosfera di intatta bellezza del dipinto.
Il brano si apre subito con una melodia dolcissima e pacata composta da due temi
e ripresa altre volte in modo progressivamente più ornato e impreziosito. Splendido il secondo tema che si dipana sostenuto dalle quartine della mano sinistra con un fugace passaggio in minore, com'è tipico della serenità mozartiana che non ignora qualche sprazzo di lieve malinconia.
Facile sul piano tecnico, il pezzo richiede tuttavia un'interpretazione molto attenta
alle dinamiche per dare alle note quell'espressione che l'indicazione agogica richiede.
Ultima notazione: l' Andantino mi ha preso non solo per la sua bellezza, non solo perch
è l'ho pure suonicchiato, ma anche per un preciso riferimento. Nella conclusione di alcune frasi musicali, riprende infatti l'analoga conclusione del piano assai dei violini nel Rondò del "Concerto per violino in Re maggiore n.4 K.218" che Mozart aveva composto due anni prima della Sonata.
Un concerto che è sempre stato uno dei miei preferiti fin dai tempi del liceo.
E come non riconoscerlo subito?...

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

sabato 13 gennaio 2024

Dirompente...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Immagino che in tanti abbiate riconosciuto subito, in questa immagine, un particolare della splendida "Adorazione dei Magi" di Giotto (1267 - 1337), nel ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova.
È la cometa che sovrasta la capanna dove i Re venuti dall'Oriente
portano doni al piccolo Gesù. Probabilmente, l'artista vi ha voluto raffigurare la celebre cometa di Halley della quale aveva visto il passaggio, anche se gli studiosi non ne sono totalmente certi. Tuttavia non è su questo argomento che intendo soffermarmi, ma proprio sul dettaglio pittorico.

Osserviamolo: è un'immagine che fonde in modo straordinario semplicità ed efficacia e in pochi tratti - ora indefiniti, ora progressivamente più marcati - non solo rende splendidamente un'idea, ma ci riempie di emozione. E se non ne conoscessimo l'autore nè il periodo in cui è stata realizzata, potremmo forse scambiarla per un'opera moderna o contemporanea.
Certo, la grandezza di Giotto sta anche nella sua modernità fatta di pennellate
essenziali, capaci in pochi tocchi di dar vita, espressione, sentimenti alle figure umane e a tutta la compagine naturalistica che rappresenta. Ma c'è di più.

Qui non vediamo un astro dalla luminosità contenuta e tranquilla come in altre raffigurazioni pittoriche, ma una meteora dirompente a somiglianza di un oggetto che sta esplodendo. Il modo in cui è dipinta la coda della stella non sembra forse imprimerle velocità? E il cuore della cometa, animato da un fuoco interno e da quei raggi di luce che si irradiano intorno, non rappresenta una sorta di deflagrazione?
Osservare oggi questo particolare colpisce perchè, se è splendido sul piano pittorico,
può diventare inquietante per la terribile attualità di altre deflagrazioni che stanno devastando proprio la stessa parte di mondo in cui il dipinto è ambientato. Tuttavia, al di là di tale riferimento, la bellezza del dettaglio giottesco sta nel fatto che la forza esplosiva della stella è in realtà un ardente palpito di vita quasi che, attraverso di essa, l'artista abbia voluto rappresentare la sorpresa del creato e la sua corsa gioiosa a celebrare l'evento dirompente della nascita di Gesù. 

Nell'insieme dell'affresco, la qualità del particolare può forse sfuggire, ma il suo ingrandimento ci rivela quanto Giotto abbia fatto della cometa non un ornamento puramente accessorio, ma un segno forte a indicare Colui che è sceso nel mondo a salvarlo dal male.

Così, ho scelto di associare a questa immagine un brano del musicista estone Arvo Pärt intitolato proprio "Da pacem, Domine".
Si tratta di un antico testo liturgico le cui parole
- "Da pacem, Domine, in diebus nostris, quia non est alius qui pugnet pro nobis nisi tu Deus noster" - fanno riferimento a vari passi biblici.
Il pezzo è stato scritto dal compositore nel 2004 su iniziativa di Jordi Savall,
per ricordare le vittime degli attentati terroristici a Madrid dello stesso anno; ma è una preghiera che sottintende la sofferenza dell'intera umanità, nella convinzione che l'unica vera protezione è quella di Dio.
Il brano corale a quattro voci è costruito sulle note di un'antica antifona gregoriana, e se ciò da un lato è cosa insolita nello stile di Pärt, dall'altro dona al mottetto cadenze tipiche della musica rinascimentale.

Tuttavia, a mio modesto avviso, anche altre reminiscenze fanno la bellezza di questo canto. Il suo procedere lento, segnato da note ripetute e ritmate - quasi un grido che sembra racchiudere tutto il dolore del mondo - nel suo andamento in minore con qualche cenno di apertura in maggiore, mi suggerisce due riferimenti: l'intensità dell'esordio del "Requiem" di Mozart e l'atmosfera sublime di certi inni ortodossi.
Il pezzo è stato rielaborato in differenti versioni: per coro a cappella, coro e
orchestra d'archi così come per violoncelli, sassofoni e flauti dolci. Qui ho scelto l'interpretazione del Bundesjugendchor - Coro Federale della Gioventù che raccoglie cantori da tutti gli stati federali tedeschi - che mi è parsa particolarmente toccante.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

sabato 6 gennaio 2024

Los Reyes siguen la estrella...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono grata all'amico lettore Arrigo Lupo per la scoperta del brano di oggi. Come si vede infatti dai commenti della volta scorsa, è stato lui a segnalarmi il pezzo: un bellissimo corale per l'Epifania di Francisco Guerrero (1528 - 1599), autore di polifonia sacra tra i più rappresentativi nella Spagna rinascimentale. A dire il vero, pensavo di sentirlo e tenermelo ormai in serbo per il futuro, ma mi è piaciuto tanto che sono già qui a farvelo ascoltare!

Si tratta del brano a quattro voci intitolato "Los Reyes siguen la estrella" dalle "Canciones y villanescas espirituales" del 1589: un corale raffinato e suggestivo, ma di non facile esecuzione. Le varie voci infatti non sempre aprono insieme la stessa frase musicale, ma - come sentirete - si muovono talora in modo indipendente. Tuttavia, se ciò da un lato può costituire una difficoltà, dall'altro arricchisce la bellezza di questo canto con un andamento - tra l'altro - in linea col significato della strofa iniziale:

"I Re seguono la stella; / la stella segue il Signore; / e il Signore di loro e di lei / segue e cerca il peccatore."

Anche il testo, infatti, ci parla di una serie di movimenti in cui ognuno cerca qualcosa, in un cammino di salita e di discesa. I Magi seguono la stella che a sua volta segue il Signore; tuttavia il re del cielo non se ne sta assiso su di un trono, ma scende nel mondo in cerca del peccatore: un moto bellissimo espresso nel corale con un tempo quasi di danza (3/4) insieme alla complessità di alcuni intrecci vocali. 

Si parla dunque dei Magi venuti dall'Oriente a cercare il Bambino per rendergli omaggio secondo una tradizione che - dal Medioevo al Rinascimento ma anche più avanti - è stata oggetto di tante celebri raffigurazioni pittoriche.
Da Giotto a Michelino da Besozzo, da Gentile da Fabriano a Benozzo Gozzoli, dal Mantegna a Leonardo e in seguito ad altri artisti del Seicento, l' Adorazione dei Magi è stato un tema di grande fascino nel rappresentare i tre saggi che portano doni, ma spesso anche il corteo che li accompagna.

Così oggi, cedendo proprio a tale fascino, mi piace pubblicare una tavola di Zanobi Strozzi (1412 - 1468) intitolata "Il corteo dei Re Magi", ma conosciuta anche come "Il viaggio di Re Mago Baldassarre verso la Terra Santa" e conservata al Museo delle Belle Arti di Strasburgo.

Per quanto operi in pieno Quattrocento, insieme a qualche elemento iconografico nuovo troviamo nell'artista molti aspetti ancora tipici del Gotico internazionale.
Se infatti da un lato la descrizione
presenta già in parte caratteri realistici nel creare una profondità prospettica tra i vari piani, dall'altro ciò che Zanobi Strozzi dipinge è un mondo fantasioso e fiabesco, a somiglianza di certe immagini del Beato Angelico col quale peraltro aveva lavorato. Lo vediamo per esempio nella raffigurazione delle montagne, bizzarre e sproporzionate rispetto agli edifici o alle figure umane, o degli alberi talora troppo alti in rapporto al resto.

Ma è stato proprio questo aspetto di fiaba a prendermi subito, sia per l'abbigliamento del fastoso corteo nella vivacità dei suoi contrasti coloristici, che per quel cielo limpido e smaltato come un blu di lapislazzuli che va pian piano schiarendosi vicino al profilo delle colline.
O per l'architettura dei castelli sullo
sfondo, ricchi di torri e pinnacoli che sembrano presi dalle miniature fiamminghe o da qualche opera dell' Angelico. 

Un mondo bellissimo e luminoso nel quale talune disarmonie prospettiche sono compensate dallo splendore di certi dettagli che indicano il gusto descrittivo del pittore. Guardiamo per esempio il piccolo ponte semicircolare che s'inarca sopra un rio, o i vari animali disseminati qua e là nel paesaggio, così come l'attenta riproduzione di copricapi, mantelli e finiture in cui si nota la cura del particolare tipica di un miniatore quale in effetti Zanobi Strozzi è stato.

Un mondo cortese quello raffigurato dall' artista in un viaggio della fantasia che contrasta un po' con l'esperienza fatta, circa un secolo dopo, dal compositore Francisco Guerrero. Questi davvero si è recato a Gerusalemme in un pellegrinaggio che è stato però piuttosto avventuroso e che ha poi raccontato in un libro.

E la stella?...vi chiederete.
A ben guardare nella tavola di Zanobi
Strozzi non c'è, ma compare in un altro suo dipinto che vi riporto qui a lato, intitolato "Adorazione dei Magi" e conservato presso la Pinacoteca Vaticana.
La vedete?...Risplende in alto a sinistra
proprio sopra la Sacra Famiglia, piccola ma luminosa come un sole! 

 Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)