Ma contemplare un'opera d'arte dal vivo resta sempre un'esperienza impagabile, soprattutto se non ci aspettavamo di vederla.
Così quando - poco più di un mese fa - ho avuto la possibilità di visitare la National Gallery di Londra, è stata una gioiosa sorpresa scoprire in una delle prime sale "Il battesimo di Cristo" di Piero della Francesca (1416 ca. - 1492).
Non ricordavo fosse conservato lì e ritrovarlo all'improvviso mi ha comunicato quel senso di familiarità che si prova quando, a distanza di tempo, s'incontra una vecchia conoscenza. Conoscenza fatta in questo caso negli anni di liceo, quando la nostra bravissima insegnante di Storia dell'Arte ce ne aveva illustrato i caratteri: la costruzione matematica dello spazio, la centralità della figura di Cristo, la colomba dello Spirito Santo in posizione prospettica e il paesaggio di fondo che traspare simile a un intarsio dove s'intravvedono alberi, campi, strade e castelli.
Lo splendore insomma di una rappresentazione a misura d'uomo, verso la quale si era ormai avviata la pittura del Quattrocento, dove l'equilibrio e il rigore della geometria si fondono con una realtà multiforme e l'episodio evangelico è inserito nel contesto coevo al pittore.
Ma trovarsi a tu per tu con un'opera d'arte è anche avere la possibilità di leggerne altri aspetti, soprattutto se - come in questo caso - la grandezza della tavola permette, per così dire, di entrare in essa cogliendo dettagli che altrove possono sfuggire.
Sono tanti gli elementi che mi hanno colpito: dalle dolci anse del fiume che riflettono le nuvole e le figure in secondo piano, all'atmosfera dove tutto sembra risplendere di luce propria, fino alla leggiadrìa dei tre angeli a lato e all'atteggiamento dei due protagonisti al centro.
Proprio su quest'ultimo aspetto vorrei soffermarmi perchè vi ho letto una sorta di piccolo contrasto.
Quanto infatti appare solida e robusta, composta e sicura la figura del Cristo, altrettanto mi sembra invece più leggera e quasi esitante quella di Giovanni. Sfumature certo, indubbiamente dovute al fatto che l'uno è fermo mentre l'altro è in movimento.
Tuttavia l'atteggiamento del Battista, nel suo versare l'acqua sul capo di Gesù, sembra esprimere una riverenza che lo induce quasi a trattenere il gesto, nella consapevolezza di trovarsi di fronte a chi è più grande di lui. Lo colgo dalla sua figura meno plastica rispetto a un Cristo più maestoso e d'impronta masaccesca.
Ma soprattutto me lo dice la sua mano sinistra, una bellissima mano dalle giunture nodose della quale vediamo lo spessore e intuiamo la forza, aperta ma quasi contratta in un gesto che può esprimere rispetto, meraviglia, pudore o forse una lieve esitazione.
Una mano che non esce neppure dal margine della veste, come se nell'atto in cui battezza il Cristo, Giovanni volesse farsi da parte di fronte a chi gli è superiore.
Sembra quasi che l'autorevolezza che ha sempre caratterizzato la sua figura e che altri artisti - per esempio Giotto, Bellini, El Greco o Tintoretto - trattando lo stesso tema hanno espresso dipingendolo più in alto rispetto a Gesù, qui venga meno limitandosi a un gesto pacato.
"Bisogna che egli cresca e io diminuisca": ecco le parole evangeliche (Gv.3,30) che l'immagine mi ha riportato alla mente e che potrebbero aver ispirato nel pittore tale rappresentazione.
Ma ad affascinarmi è stata anche un'altra scena di questo dipinto.
Se la soavità ha un volto o un luogo prediletto, Piero della Francesca l'ha ricreato nel particolare delle tre figure angeliche: nella grazia delle acconciature e dei panneggi, nelle fronde dell'albero che quasi scendono ad accarezzarle e nel paesaggio di fondo che traspare tra loro.
Caratteri che l'artista sembra aver preso anche dall'antichità classica - come l'abito dell'angelo al centro simile a un peplo greco - e che ha fuso con la propria ispirazione.
Un'immagine appartata e silenziosa come silenzioso è lo stupore dipinto sui volti, accresciuto dalla luce piena e dalla chiarità dei colori pastello. Una dolce conversazione, un dialogo di sguardi rivolti anche a noi che osserviamo, quasi un invito a entrare nella scena; un angolo di paradiso inquadrato tra le colline toscane dove il pittore è nato.
E per lasciarci condurre all'interno di questa rappresentazione, ho scelto un luminoso brano di Mozart: il secondo movimento,"Adagio", del "Concerto per violino e orchestra in Sol Maggiore n.3 K.216".
È un'aria di grande intimità e purezza melodica quella che si dispiega lenta e serena sull'onda del violino sostenuto dal ritmo degli archi, un'aria tanto suggestiva che - ripercorrendo i numerosissimi brani del compositore salisburghese condivisi qui in passato - mi è parso strano non averla ancora pubblicata.
Lo faccio quindi oggi anche perchè mi pare in armonia con la soavità delle immagini, insieme a quella fusione di umano e divino che il tema del dipinto ci propone e che la musica di Mozart, per sua prerogativa, sottolinea ed esalta.
Buon ascolto!