lunedì 30 novembre 2020

Nel segno del sorriso

Mi bacchetterà, Santa Cecilia, per il ritardo imperdonabile - ben otto giorni - con cui quest'anno la celebro!
Ma ero tanto presa dal romanzo di
Cesare Picco su Bach - a proposito, se non lo avete ancora fatto, leggetelo! - che non sono stata capace di staccarmi dal libro per rispettare la ricorrenza.
Forse però, trattandosi di Bach che nel
Paradiso dei musicisti risplende certo di luce più fulgida, la Santa con me chiuderà un occhio.
Anzi, me li immagino - lei e il compositore - sedut
i proprio su scranni vicini a conversare piacevolmente, con un sorriso di intesa, di allemande, invenzioni e contrappunti o a suonare insieme un pezzo.

Dite di nooo??... Nel senso che in Paradiso non esistono scranni e non sappiamo bene come si svolgano le conversazioni? Che forse non occorre neppure parlare, ma nonostante ciò si comunica meglio di quaggiù?... E che ancora meglio sarebbe se non mi impelagassi in questo genere di discorsi?...
Vabbè, forse avete ragione, lassù avranno altri stili di arredamento e di linguaggio.
Però Bach e Santa Cecilia di certo non hanno smesso di suonare anche perchè, per me, in Paradiso si deve far musica...o non è il Paradiso!

Bene. Sostenuta da questa inoppugnabile certezza, sono andata a cercare un dipinto da dedicare alla Santa e ho scelto il quadro che vedete e che non conoscevo. Rappresenta una fanciulla mentre suona il violino seguendo lo spartito che le porge un angioletto: un'immagine di grande soavità e raffinatezza, evidenti soprattutto nel viso. Basti osservare l'elegante acconciatura dei capelli fermata da un monile, con una perla che pende sulla fronte quasi a simboleggiarne il candore. L' opera è di Marcantonio Franceschini (1648 - 1729), artista bolognese del periodo barocco che in essa ha inteso sì raffigurare "Santa Cecilia", ma anche "La Musica". E questa duplice identificazione mi pare molto bella.

Per il brano sono tornata invece a un compositore che adoro: Franz Joseph Haydn (1732 - 1809). È il "Quoniam Tu solus Sanctus" che vi propongo, dal "Gloria" della "Missa cellensis n.3 in Do maggiore Hob XXII 5" conosciuta anche come "Missa Sanctae Caeciliae", e interpretato da "Les Musiciens du Louvre" diretti da Marc Minkowsky.
Si tratta di una composizione della quale - tempo fa - avevo già pubblicato l' "Et resurrexit" dal
"Credo", e di un ensemble che mi ha sempre affascinato per la sua passione nel vivere la musica, come avevo scritto in questo vecchio post che - se volete - potete andare a vedere.

Ma torniamo al presente. È qui la splendida Lucy Crowe a interpretare il
"Quoniam...", dando prova di grande abilità vocale in un vivacissimo brano che è un vero e proprio pezzo di bravura, ma soprattutto illuminandoci dall'inizio alla fine con la sua fresca gioia e il suo sorriso. Un sorriso dove musica e preghiera di lode si fondono meravigliosamente nell'atto in cui è la voce umana a realizzare tale splendido connubio.
E come per il passato, anche qui possiamo osservare quanto - superato un certo livello
tecnico - l'esecuzione si traduca in gioia pura per chi ascolta, ma prima di tutto per chi canta o suona, realizzando così quella circolarità della bellezza che parte dalle note, arriva agli interpreti e si riverbera poi su di noi. Una circolarità continua e dinamica che avvolge tutti in un'onda di intensa empatia.
E ancora una volta, la musica ci riconcilia con la vita.

Buona visione e buon ascolto!

 

lunedì 23 novembre 2020

"Sebastian"

È sempre interessante rileggere un libro a distanza di tempo, perchè la diversità del momento - e spesso di stato d'animo - ce ne fa cogliere aspetti nuovi, consentendoci di apprezzate sfumature che magari la prima volta ci erano sfuggite e facendoci inquadrare la vicenda in un'altra luce. 

È stato per me il caso del testo che vedete qui in foto, intitolato "Sebastian": esordio letterario di Cesare Picco, classe 1969, pianista e compositore di fama internazionale.
Il lavoro - uscito poco più di un anno fa e dedicato a Johann Sebastian Bach - è
insieme documento e romanzo, biografia ma anche un po' favola che l'autore ha costruito senza seguire una rigorosa cronologia, ma alternando capitoli centrati sull'adolescenza del musicista, ad altri relativi agli anni della maturità e agli ultimi mesi segnati dalla perdita della vista.
Ma mentre, la prima volta che l'ho avuto in mano
, del libro mi aveva colpito soprattutto il lato per così dire favolistico, la mia recente rilettura mi ha fatto cogliere con maggior forza altri aspetti di grande spessore che Picco fa emergere da una scrittura avvincente e profondissima.

Protagonista del romanzo è appunto Bach, del quale l'autore delinea le fasi della formazione, insieme all'amicizia che lo lega al compagno di liceo Georg Erdmann e che li vedrà protagonisti di un viaggio dai contorni fantastici da Ohrdruf a Lüneburg. Ma lo scrittore segue poi Sebastian nel corso della sua esistenza fino all'affermazione come kapellmeister a Cöthen, al matrimonio con la seconda moglie Anna Magdalena, al successivo trasferimento a Lipsia in qualità di kantor e infine agli ultimi mesi di vita.

Nasce così un racconto in cui, oltre allo scrittore, voci narranti sono anche l'amico Georg e poi proprio Anna Magdalena.
La storia si dipana intorno agli anni dell'adolescenza in cui il giovane Bach mostra
precoci doti musicali intuite dalla delicatissima attenzione di Elias Herda, splendida figura di maestro che ordisce segrete trame per consentire al suo migliore allievo di proseguire gli studi nella Michaelisschule di Lüneburg.
E accanto a Sebastian quindicenne, Herda mette Georg di qualche anno più
grande: in apparenza per proteggerlo, ma in realtà per non spezzare la loro amicizia e consentire a entrambi di continuare gli studi musicali, superando le difficoltà economiche e i divieti posti dalla famiglia Bach. Inizia così per i due amici un viaggio avventuroso: trecento chilometri da percorrere a piedi tra varie insidie, ma anche indomabili speranze e sogni che talora andranno a sovrapporsi alla realtà.
Ma altri capitoli vedono Bach nel rapporto con la propria numerosa famiglia, poi segnato dalla malattia e oggetto di cruente
operazioni agli occhi, assistito con devozione dalla seconda moglie Anna Magdalena. Emerge qui un ritratto delicato e intenso di questa donna, del suo amore per Sebastian, così come della sua passione per la musica e della collaborazione col marito del quale trascrive attentamente le partiture.

Al di sopra di tutto, però, di Bach ragazzo e poi uomo maturo Picco
mette in luce la costante e appassionata ricerca del suono dell'universo, di quel codice segreto che attraversa cose e persone quasi il mondo, come un immenso spartito, fosse fatto di musica e percorso da vibrazioni che solo l'orecchio assoluto e il genio sanno cogliere.
Una ricerca che inizia dalle prime pagine del libro con la "Mappa dei suoni di Ohrdruf"
dove viene segnata la tonalità in cui risuona ogni angolo del paese, ogni albero, ogni strada, ogni muro...per arrivare alle ultime pagine in cui, ormai in punto di morte, Bach inizia ad avvertire - come afferma egli stesso - "il suono più puro e sconvolgente che abbia mai udito" e confessa ad Anna Magdalena: "È in quel suono che desidero perdermi".

Un romanzo profondo e toccante da far leggere - a mio avviso - anche a scuola. Nel racconto, infatti, Cesare Picco pone più volte l'accento su quel sentirsi "in divenire" tipico degli anni dell'adolescenza: anni di purezza e stupore, passione e impeto che talora regalano il coraggio di compiere un salto nel buio, quasi una sorta di rinascita per realizzare la propria vocazione. E man mano che si procede nella lettura, si coglie l'intensa poesia di tale ricerca.

Bello inoltre il fatto che ogni capitolo abbia per titolo una composizione bachiana, come fosse la colonna sonora più appropriata per comprendere il senso delle vicende narrate.
Così, ho scelto il brano di oggi proprio tra queste, un pezzo dolce e sorridente
che riconoscerete subito perchè è tra i più famosi ed eseguiti: il Corale "Jesu bleibet meine Freude" - Gesù rimane la mia gioia - che chiude la celebre "Cantata BWV 147".
È un'aria
che mi ha sempre colpito per la sua singolarità, costituita da una sorta di scambio tra parte corale e melodia. Mentre infatti, di solito, un coro canta su di un andamento musicale più movimentato rispetto agli accordi, qui invece il motivo ornato e fiorito - quello che più facilmente resta nella memoria - fa solo da introduzione e accompagnamento, mentre il coro canta su di un impianto armonico più fermo.
Un pezzo intriso di gioia contemplativa nel quale - ancora una volta - per Bach lo splendore
delle note si traduce nel sorriso dell'intero universo.

Buon ascolto!

 

lunedì 16 novembre 2020

Donne col libro - 11


È stata l'originalità il tratto distintivo che mi ha colpito nel dipinto di oggi: un'immagine che avevo da parte e covavo da tempo senza risolvermi a pubblicarla, incerta se dare spazio a pittori più celebri. Ma alla fine mi sono decisa perchè, nella nutrita serie di quadri famosi che raffigurano donne e libri, questo mi è parso decisamente diverso. Così, eccolo.

S'intitola "Domestica che legge in una biblioteca", si trova in una collezione privata e il suo autore è Edouard John Mentha, artista svizzero nato nel 1858 e morto probabilmente nel 1915 anche se la data va forse spostata più avanti.
Le sue opere comprendono raffigurazioni di paesaggi, interni e ritratti delineati con uno stile che s'ispira, in genere, alla pittura realista di fine Ottocento.

Qui, ci troviamo in una stanza: in realtà, non soltanto biblioteca, ma insieme laboratorio di scienze naturali o di zoologia.
Lo ricaviamo dalla presenza dei vari
uccelli impagliati che campeggiano in alto sopra uno scaffale, più giù dei pipistrelli, un teschio e alcune provette. Ma non manca - guarda un po' - anche un vaso coi pesci rossi.
Una vecchia stanza dall'aria polverosa data
dall'aspetto di volumi altrettanto vecchi e di album piuttosto consunti, atmosfera sottolineata peraltro dai colori spenti: una gamma di grigi e marroni, illuminata solo dal bianco del lungo grembiule della donna proprio al centro del quadro.

È lei la protagonista, ma - a dire il vero - sembra essere lì per caso e, se ci trovassimo ad aprire all'improvviso la porta del laboratorio, forse resterebbe sorpresa e spiazzata quasi fosse stata scoperta nel momento sbagliato.
È una domestica - dice il titolo del quadro - e possiamo immaginarla mentre
riordina e spolvera la stanza. Il dipinto la coglie invece in un atteggiamento insolito per le sue mansioni: ferma e tutta presa dalla lettura di un libro.

Curiosità, interesse o desiderio di una pausa?
Il fatto che resti in piedi sulla scala ci fa
percepire un senso di provvisorietà come se la donna volesse soddisfare un impulso momentaneo senza farsi scoprire, approfittando del fatto che nella stanza non c'è nessuno.
E m
i piace moltissimo questa sua curiosità che la induce a esplorare più da vicino, attraverso un libro, un mondo come quello del laboratorio di cui forse, col piumino che porta sotto il braccio, ha sempre toccato solo l'esterno.
Ma cosa conterranno invece - avrà
pensato qualche volta - quelle cartelle d'archivio e quei vecchi volumi allineati negli scaffali? Solo testi o anche illustrazioni? O forse segreti di sconosciute, oscure alchimie?

Pare assorta nella lettura la donna, quasi dimentica di ciò che ha intorno e che, per una volta, sta conoscendo da un altro punto di vista col piacere di addentrarsi nei misteri che ogni oggetto custodisce. Un ambiente come questo, infatti, non può non suscitare stupore, interrogativi o - magari - qualche lontano e vago raccapriccio di fronte ai resti delle varie creature.
Ma ci appare tranquilla la nostra amica lettrice, forse
solo desiderosa di prendersi una pausa di libertà nel bel mezzo del suo lavoro.

Così, per passare alla musica, ho pensato di dedicarle un brano che vuol dare un po' di colore ai toni spenti del quadro, sottolineando insieme quel simpatico guizzo di curiosità e trasgressione che possiamo intuire in questa donna col libro.
Si tratta
di un pezzo tra i più conosciuti di Domenico Scarlatti (1685 - 1757), autore ricordato prima di tutto per le sue celebri e numerosissime (555!) sonate.
Qui, vi propongo appunto la "Sonata in re minore K.9 L 413" nella quale sembra che il compositor
e - vissuto tra Napoli e la Spagna - abbia voluto giocare a nascondino con le note, trasfondendo in esse la vivacità scherzosa respirata in questi luoghi. E mi pare che l'interpretazione di Ivo Pogorelich sottolinei con estrema grazia tale aspetto, accentuando il contrasto tra parti più lente, scandite e ricche di abbellimenti, e altre più veloci e animate.
A dirmelo sono anche i toni sommessi delle terzine simili a passi cauti e furtivi, seguiti da rapidi passaggi in
sedicesimi, andamento che possiamo associare alla protagonista del dipinto: prima circospetta e guardinga - così almeno la immagina la nostra fantasia! - poi più svelta nell'aprire un libro.
Ma infine tranquilla e sicura nel soddisfare la propria curiosità di lettrice. 

Buon ascolto!


domenica 8 novembre 2020

Il fermacarte

Sta sulla scrivania del mio studiolo da non so quanto tempo - anni forse - con qualche interruzione relativa al periodo in cui ho risistemato la stanza. Allora lo avevo quasi dimenticato in un cassetto e l'ho riportato alla luce da non molto.
Parlo dell'oggetto che vedete: un fermacarte
comprato in un periodo così lontano che - al contrario di altri soprammobili di cui ho in mente benissimo la provenienza - non ricordo dove posso averlo acquistato. Forse in un negozio qui vicino, ma potrebbe darsi anche all'estero.
In ogni caso, la piccola etichetta incollata alla sua base non mi aiuta.
Però mi piace ancora come mi era piaciuto subito: una sfera trasparente che ricorda un
po' quelle con la neve che incantavano la mia infanzia.

Ma qui ad affascinarmi è stato quel preludio di primavera sotto vetro fatto di
piccoli nontiscordardimé - almeno così mi pare - che mi regalano un senso di freschezza, nonostante siano fiori secchi. Una sorta di natura morta casalinga, eppure per me vivissima perchè racchiude e rappresenta sogni e speranze.
Se infatti non ricordo il luogo dove l'ho comprato, ho ben presente invece
l'impulso che mi ha spinto a scegliere quel fermacarte e portarmelo a casa: paradossalmente - come scrivevo - un desiderio di freschezza al quale questo piccolo oggetto mi pareva rispondere nella sua semplicità.
E rivederlo sulla mia scrivania ha un significato di particolare speranza proprio og
gi che siamo un po' tutti fiori sotto vetro, in attesa di una primavera che ridia aria, fiato e respiro alle mille relazioni e attività che questo tempo - almeno sotto certi aspetti - ha di nuovo interrotto.

Allora, al mio piccolo fermacarte desidero associare una musica fatta di splendore e intimità: il "Notturno op.27 n.2 in Re bemolle maggiore" di Chopin. Sì, proprio quello di cui vedete le prime tre battute nel frontespizio di questo blog!
Si tratta di una pagina di rara limpidezza e cantabilità, un lento sostenuto ricco di arpeggi e di modulazioni insieme a una serie di delicatissimi trilli e abbellimenti: ariose fioriture di note che somigliano al soffio di un vento leggero o a un fremito d'ali. Un brano che ci introduce in un'atmosfera lieve come i colori dei fiorellini che vedete nella foto: dal viola al glicine, dal celeste al rosa, leggiadre sfumature al pari
del più dolce fraseggio di una melodia.
Eppure, dopo l'intimità iniziale, il pezzo si fa impetuoso ed energico, martellante come un grido
d'anima fermo e risoluto, come i sogni a lungo tempo trattenuti e
finalmente liberati, simili ad aquiloni che volano alti a garrire nell'azzurro.
Se infatti prima il compositore esprime la propria interiorità con toni di pacata
dolcezza, poi sprigiona invece una toccante potenza sonora, come se le svariate fioriture che coviamo nel cuore esplodessero improvvise in tutta la loro pienezza e autenticità.
Infine, il brano torna a farsi più lento - gli ultimi accordi appena sussurrati -
quasi Chopin, dopo aver colto il nucleo caldo della Bellezza ed essersene lasciato rapire, si ritraesse a custodirne nel segreto, con inquieta nostalgia, tutto l'incanto.

Buon ascolto!