sabato 30 settembre 2023

Un soavissimo Mendelssohn

Nel cercare su youtube alcuni brani di atmosfera autunnale, nei giorni scorsi mi sono imbattuta in un pezzo di Felix Mendelssohn Bartholdy (1809 - 1847) che ricordavo vagamente di aver ascoltato in un concerto di Rai 5, ma sul quale non mi ero mai soffermata. Invece, stavolta ha subito catturato il mio interesse.

Alla musica del compositore mi sono accostata per la prima volta a diciassette anni, ascoltando il "Concerto per violino in mi minore op.64", uno dei capolavori della letteratura violinistica dell'Ottocento, del quale mi sono subito innamorata. La composizione mi aveva parlato soprattutto col suo Andante, pezzo di mirabile dolcezza, oggetto di svariati arrangiamenti il più celebre dei quali, che potete ritrovare qui, è addirittura all'interno di un'opera rock.
Poi di Mendelssohn ho sempre ascoltato volentieri alcune "Romanze senza parole" tra le più ricche di efficacia pittorica, e qualche pezzo corale. Delle Sinfonie mi piace molto l'Italiana, con la sua luminosità mediterranea e il piglio vivace che riecheggia qua e là certi ritmi della nostra tradizione popolare.
Ma raramente sono andata oltre.

Giorni fa invece, a incantarmi è stato il terzo movimento - Adagio - della "Sinfonia n.3 in la minore op.56" detta "Scozzese" perchè nata dopo un viaggio in Scozia dal quale il compositore ha preso ispirazione anche per l'ouverture "Le Ebridi".
La Scozzese, frutto di lunga elaborazione, segue l'Italiana di nove anni e ci introduce in un clima molto diverso,
originato dalla suggestione del paesaggio nordico, da una luce differente così come da differenti colori.
Quelle di Mendelssohn sono impressioni simili a diari di viaggio che il
compositore oltre che sulla tela - si dilettava infatti anche di pittura - fermava in note. Qui, tali impressioni si dipanano quasi senza soluzione di continuità nei quattro tempi della sinfonia: lo dimostra l'apertura di questo Adagio che somiglia al prosieguo di un discorso già iniziato e ci introduce piano al delicatissimo tema. 

Prendetevi del tempo e ascoltatelo senza fretta, in un momento tranquillo.
C'è un' impagabile soavità in questa melodia, accompagnata al suo esordio
dal pizzicato degli archi, mentre nelle riprese successive è sostenuta da una più ricca e articolata orchestrazione.
È un'aria di grande morbidezza e intensità, che ora declina verso sonorità dissonant
i e crepuscolari, ora si apre alla luce a somiglianza di certe immagini della campagna scozzese con tinte sfumate e atmosfere nordiche, spazi immensi e solitudini sconfinate. Un'aria che si dipana dolcemente andando a culminare in alcuni splendidi intervalli di settima maggiore (la - sol#) - il primo dei quali a 1,48 dall'inizio - ripresi poi nel corso del brano a ricreare riposanti aperture di paesaggio con un respiro musicale più ampio.

Alternate alla dolcezza di questo primo tema, vi sono tuttavia alcune parti di atmosfera decisamente diversa, caratterizzata da toni cupi e funebri, insieme a ritmi molto più energici e cadenzati. Un contrasto di fronte al quale suona ancor più significativa, nella sua delicatezza, la melodia iniziale coniugata in mille sfumature espressive, come se Mendelssohn avesse inteso trasporre in note la morbidezza della sua abilità di acquerellista.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web.)

sabato 23 settembre 2023

Ricordi autunnali

L'autunno si sta aprendo con la sua ricchezza di sfumature: colori caldi e brume mattutine, cieli variegati di nuvole e paesaggi più dolcemente assolati che mi affascinano anche perchè, talora, mi riportano all'infanzia.
Mi rivedo nei miei pomeriggi di bambina a raccogliere castagne
lungo il viale che costeggia i giardini pubblici nella città in cui abitavo: una fila di ippocastani da un lato e il rustico muretto di cinta delle serre di un fiorista dall'altro. Nel giro di alcuni anni, al posto delle serre sarebbero sorti dei condomini dove si è poi trasferita la mia famiglia: uno spazio aperto sul verde dei giardini, adornato proprio sotto casa da una fila di ciliegi giapponesi che a primavera mettevano grappoli di fiori rosa. Lì ho abitato per parecchio tempo con grande gioia.

Eppure, i pomeriggi di questo inizio d'autunno in cui il sole non ferisce più lo sguardo e il verde inizia a sfumare nel ruggine, mi ricordano il periodo della mia infanzia in cui su quel viale le case non c'erano ancora.
Vi sono talora sensazioni che appartengono solo ai bambini: momenti di felicità
intatta, a volte invece oscure ansie, o percezioni in cui il mondo esterno per qualche istante parla con rara intensità della vita a cui si affacciano. Percezioni che magari con l'età crediamo di aver dimenticato, ma che restano sedimentate in noi e talora riaffiorano portando alla luce il nucleo vivo della nostra identità.

Avrò avuto cinque o sei anni, forse ai giardinetti mi accompagnava mia mamma o qualche persona di famiglia. Ma a me è rimasto impresso quel viale fiancheggiato dal rustico muretto di cinta lungo il quale mi incamminavo nella luce dorata del pomeriggio con in mano un cestino, cercando le castagne che occhieggiavano a terra dai ricci pungenti.
Avevo in cuore la gioia di scoprire la natura della quale coglievo - sia pure in modo
ancora elementare - la bellezza, intuendo al tempo stesso qualcosa di me e del mio aprirmi alla vita. Erano momenti di semplice quotidianità, eppure nella mia percezione di bambina mi sembrava di avvertire per un istante il palpito della vita nel suo farsi, ora con gioiosa pienezza, ora con una punta d'inesprimibile ansia. 

Oggi da anni non abito più lì, ma gli ippocastani ci sono ancora e quel ricordo mi raggiunge con incomparabile dolcezza.
Da sempre, ogni volta che torno su quel viale in questa stagione, ho l'abitudine di
prendere da terra una castagna e conservarla. Camminando, studio prima con lo sguardo quale posso raccogliere: non una qualsiasi, ma una tra le più belle, magari appena uscita dal riccio, con la superficie di un bel marrone caldo, lucido, al tatto lievemente oleosa. Poi mi chino a prenderla con gesto un po' furtivo quasi la mia fosse una trasgressione, la metto in tasca e me ne vado in giro felice come se custodissi un talismano o un tesoro prezioso: non un semplice ricordo, ma una parte di me, un nucleo segreto, un'impronta indistruttibile nella quale ancora mi riconosco.

Così, per associare a questo ricordo una musica che ne rispecchi almeno in parte l'atmosfera, ho scelto un brano di Robert Schumann (1810 - 1856) intitolato "Eintritt": primo dei nove pezzi per pianoforte raccolti sotto il titolo di "Waldszenen op.82" (Scene dalla foresta).
Si tratta di una composizione che - a dire il vero - ho già pubblicato parecchi anni fa
e sapete che non amo ripetermi. Ma questa volta il mio ricordo legato all'infanzia mi ha condotto ancora a Schumann che ha scritto parecchio per i più piccoli a cominciare dal suo Album per la gioventù e le sue Kinderszenen.
Vero è che "Eintritt" si riferisce all'universo della natura, tuttavia lo
sguardo con cui il compositore ci restituisce in note il mondo della foresta è tutto interiore e delinea quella visione incantata e talora un po' magica che hanno proprio i bambini.
Non è infatti la riproduzione puramente descrittiva o imitativa dei vari aspetti della
natura come nel tempo hanno fatto altri musicisti, ma una sorta di viaggio visionario che Schumann fa in se stesso, non privo di suggestioni romantiche e ricco dello stupore di quel fanciullino che - dirà poi Pascoli - è in ciascuno di noi. Una musica fatta ora di ritmi più scanditi, ora invece di toni più sommessi e che - come ricordavo in passato - alterna luci ed ombre in una splendida varietà di colori e sfumature.
Particolarmente apprezzabile - a tale riguardo - l'interpretazione di
Mitsuko Uchida che del brano sottolinea le dinamiche, mettendo così in luce la delicatezza e la splendida eleganza del tema. Una musica non priva, qua e là, di tratti lievi e giocosi che a mio avviso possono adattarsi anche alla semplicità del piccolo ricordo della mia infanzia, rifiorito nella morbidezza di questi primi giorni autunnali.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

venerdì 15 settembre 2023

Le mie città - 9


Dopo le singolari immagini della mia città-astronave pubblicate il mese scorso, oggi proseguo con i dipinti di un artista che trovo molto originale. Anche qui la fantasia dell'autore si è sbrigliata, ma con intenti ed effetti diversi, e anche se le sue opere raffigurano panorami che richiamano alla mente paesaggi reali e talora monumenti famosi, il modo in cui li assembla va decisamente oltre la realtà, verso una sorta di accattivante e fiabesco surrealismo.
Si tratta di Michiel Schrijver, classe 1957, olandese formatosi in Inghilterra e poi
tornato ad Amsterdam dove, dopo essersi occupato di grafica a scopo commerciale, si è dedicato alla pittura come artista autonomo.

Le sue opere rappresentano in gran parte panorami: piccoli borghi arroccati su di un colle o in riva al mare, affascinanti paesetti che possono ricordare qualche antico villaggio toscano o le città della Costiera amalfitana o la Liguria delle Cinque Terre, ma anche scorci delle isole greche.
Schrijver ci conduce infatti in una sorta di
viaggio pittorico attraverso lo splendore di tanti luoghi che, se da un lato raffigura in un contesto reale, dall'altro però trasfigura con la propria fantasia.

Linee curve intrecciate a linee rette, geometrie solide e colori prevalentemente chiari, stesi con uniformità, derivano certo dal suo passato di grafico e illustratore. Tuttavia, lo stile così particolare dei suoi panorami, se si eccettua qualche aspetto un po' naïf, mi sembra tutt'altro che ingenuo, ma un tantativo di andare oltre la realtà, sottintentendo valenze e significati al di là della semplice apparenza.

Lo colgo da certi motivi ricorrenti, dalla scelta del punto di vista, dalla citazione di vari monumenti storici, da qualche incongruenza e insieme da alcuni titoli non puramente descrittivi che aprono a interpretazioni di più ampio spessore.

È il mare il denominatore comune a molti dipinti e così pure sono le colline su cui si arroccano paesi dall'aspetto fiabesco che sembrano usciti da un libro illustrato per bambini o da un gioco di costruzioni.
Proprio questo è uno degli aspetti che mi ha
più affascinato la prima volta che mi sono imbattuta nelle opere di Schrijver, e che ha risvegliato ricordi della mia infanzia rendendo subito mie queste piccole città.

E insieme alla presenza dell'acqua, a ricorrere nei vari quadri sono barche, porticcioli, fari e a volte anche grandi navi. Elemento comune a tanti panorami è poi una piccola linea ferroviaria, proprio da gioco di costruzioni, che attraversa i paesetti passando sotto e dentro le case o arrestandosi di botto quasi il viaggio fosse terminato.

Ma troviamo spesso anche altissimi ponti e viadotti dalle linee ricurve che vanno che collegare i vari borghi in un contesto ora luminoso, ora notturno e un po' inquietante.
In ogni caso, tutti dati di realtà. Eppure...

Eppure ad essa si intrecciano a volte aspetti fantasiosi ed enigmatici: nel dipinto qui a lato, un viadotto s'interrompe misteriosamente sul vuoto; le navi sono talora più grandi degli edifici e altrove le barche fuoriescono dalla finestra o dal portone di casa.
In alcune immagini compaiono le figure di un saltimbanco o di un acrobata, collegabili alla presenza colorata di una giostra o di una ruota panoramica visibili qua e là.
Così pure, ogni tanto si scorgono animali -
elefanti in particolare, ma non solo - e a volte piccoli fogli bianchi che volano nell'aria portati dal vento.
Una compagine strana e straniante insomma, fatta di minimi ma ripetuti dettagli - una tempesta in arrivo, una costruzione lasciata a metà, un'evidente sproporzione di forme - che, a ben guardare,
contrastano con l'atmosfera di fiabesca intimità delle immagini più solari e luminose.

E come sono raffigurate le persone? Che parte hanno in tali rappresentazioni?
Qui entra in gioco il punto di vista dal quale si pone il pittore e che è spesso uno sguardo sulle cose dall'alto o dal basso, ma raramente al loro livello. In ogni caso, gli esseri umani che popolano queste piccole città sono estremamente minuscoli in rapporto agli edifici e al mondo circostante, sia che vengano rappresentati a gruppetti e in gesti di reciproca accoglienza, sia che vengano colti in solitudine, magari affacciati a una finestra o in attesa davanti a una porta come in certi quadri di Hopper.

Al contrario, grandiose sono spesso le architetture che - quando non si limitano alle semplici, deliziose casette tutte simili e addossate le une alle altre - diventano sproporzionate e talora incombenti.
Ciò accade in particolare nei casi in cui Schrijver raffigura le altissime arcate di certi viadotti o imita monumenti conosciuti, come in alcune opere che però non ho riportato, dove troviamo costruzioni che ricordano il Colosseo e il Ponte di Brooklin.
Ma accade anche quando, ai colli sui quali
colloca i suoi paesetti, dà una struttura di spirale conica che può far pensare alla Moschea di Samarra e insieme ad alcune raffigurazioni della torre di Babele, come vedete nell'immagine qui a lato.

Ricordi di viaggio? Forse.
Ma al di là di ciò che è conosciuto, i paesaggi d
i Schrijver non sembrano inscriversi fino in fondo nella realtà del passato, e neppure nelle fantasie che guardano al futuro. Ne deriva così la sensazione di trovarsi in una sorta di terra di mezzo, tra un mondo in qualche modo perduto e l'attesa di un universo nuovo.

Ce lo testimoniamo anche i titoli di alcune opere quali per esempio: "Waiting for a new era" o "Story of lost time" o ancora "An unknown memory", a significare il ricordo di un mondo non più presente e l'attesa di una nuova dimensione ancora sconosciuta nel viaggio dell'esistenza.
Forse è questa la funzione di certi elementi raffigurati
talora privi di logica apparente, volti probabilmente a sottintendere un senso recondito o - come Montale avrebbe detto - a "scoprire uno sbaglio di Natura / il punto morto del mondo, l'anello che non tiene".
In ogni caso, dettagli sempre ricchi del fascino accattivante del mistero e della dimensione
onirica, che fa emergere e associa ricordi come l'onda del subconscio suggerisce.

Proprio per esprimere sul piano musicale tale duplice aspetto delle opere di Schrijver, dopo lunga ricerca ho scelto un brano di Jean Sibelius (1865 - 1957).
Dopo lunga ricerca, sì, perchè mi occorreva un pezzo che non fosse soltanto
luminoso per riflettere la semplicità quasi infantile e fiabesca di certe rappresentazioni, ma che insieme rispecchiasse la sensazione di sgomento e la percezione di ignoto che comunicano alcune immagini piuttosto enigmatiche.

Così, sono approdata al compositore finlandese del quale ho scelto il suggestivo "Improvviso per archi op.5 n.5" che anni fa avevo già pubblicato in una versione più breve e molto arpeggiata per pianoforte solo.
D'impatto molto differente è la presente interpretazione.
Il pezzo è costituito infatti da tre sezioni che associano i due aspetti di cui parlavo sopra: la prima e la terza decisamente malinconiche sull'onda della tonalità di mi minore, mentre quella centrale caratterizzata dai timbri solari del mi maggiore insieme a un ritmo talora di danza.
È proprio l'orchestra d'archi a creare, fin dalle prime battute, quel
clima straniante che - a mio avviso - può legarsi all'atmosfera di certi dipinti, ai loro affascinanti interrogativi e al senso di mistero da cui talora sono pervasi. Poi la melodia s'illumina e si rasserena in passaggi più gioiosi per tornare, nella parte finale, a farsi di nuovo meditativa e aperta a sonorità indefinite.

I titoli dei 12 dipinti riportati in foto - titoli che però non sempre ho potuto trovare - sono i seguenti nell'ordine con cui compaiono nel post : 

"End of a beatiful day" 

"A welcome at broad daylight" 

"Waiting for a new era" 

 Titolo non trovato  

"A day of harvesting" 

 "Greetings from ashore"

"An unknown memory"  

"Story of lost time" 

"Close to sea"  

 Titolo non trovato 

"And the wind takes everything" 

"Home before the storm".


Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

giovedì 7 settembre 2023

Danzando con Vivaldi




 

 

 

 

 

Riprendo oggi - dopo una piccola pausa - la pubblicazione del blog, con un brano che mi sta affascinando ogni giorno di più e la cui scoperta è stata per me un vero regalo per aprire settembre con gioia.

Mi è sempre piaciuto sottolineare certi momenti dell'anno, come l'inizio o la fine di un periodo di lavoro, con un piccolo segno: una musica, un libro o anche solo una tovaglia nuova per il tavolo della cucina. E per quanto ora sia già in pensione da un po' di tempo, alcune abitudini mi sono rimaste. Così, mi sono domandata su quali note sarebbe stato bello riprendere il nuovo anno - si fa per dire - di lavoro.
Vero è che la presenza di questo blog e la cadenza più o
meno settimanale che mi sono data per pubblicare, mi aiutano a tener desta l'attenzione alla musica non solo in determinate occasioni, ma sempre. Ciò non toglie tuttavia che, nei giorni scorsi, mi sia chiesta ugualmente: "E come ricominciamo a settembre? Su quali ritmi chiudiamo le ferie e riprendiamo le attività?".
Perdonerete il plurale che non è maiestatis, perchè è come se parlassi
ai tanti compositori che mi passano, di tempo in tempo, nella mente e nel cuore, per dire: "Insomma, che facciamo?... Apriamo con Bach, Mozart, Haydn...o col tema della Pantera Rosa che fa capolino da un angolo della mia testa sinuoso e ammiccante, in attesa che, un giorno o l'altro, mi decida a pubblicarlo?".

La risposta non si è fatta attendere e pochi giorni fa ho ritrovato un brano che avevo ascoltato tempo addietro ma avevo accantonato, sa il cielo perchè.
Si tratta di un pezzo di Antonio Vivaldi: l'
Adagio cantabile dal "Concerto in Sol maggiore RV 314a", che fa parte della serie di musiche che il compositore veneziano ha dedicato a Johann Georg Pisendel (1687-1755), illustre violinista tedesco, suo allievo e amico. Un pezzo breve ma incantevole, del quale ho riportato in foto la parte iniziale dell'aria affidata al violino, per consentirvi di apprezzarne la struttura e permettere a chi sa leggere uno spartito di seguirne almeno in parte l'andamento.

Che cosa mi ha colpito in questo brano?
Prima di tutto lo splendore ritmico del pizzicato, lieve ma ben scandito sia in apertura che in chiusura del pezzo, e capace di immergerci subito in un clima di profonda intensità.
Un ritmo simile a un respiro calmo ma insieme sostenuto che introduce poi la bellissima melodia: un'aria cantabile nella malinconia del sol minore, ma non per questo priva di mordente. Il tema è orecchiabile tanto che - a tutta prima - potremmo avere la sensazione di averlo già sentito, soprattutto nell'esordio; invece si fa poi sorprendente, inaspettato e non privo di momenti di vero incanto, come a 1.09 dall'inizio, nel passaggio dal do diesis al do naturale.

Tuttavia, ciò che mi attira maggiormente in questo Adagio è - se mi si passa l'espressione - l'andamento grintoso del violino che inanella un'aria sempre nuova, sottolineata anche dai numerosi abbellimenti non scritti sul testo e introdotti dal solista. Una grinta che fa di questo brano un pezzo a mio modesto avviso attualissimo, simile a un canto d'anima che si accende vivido, tra il pizzicato iniziale e quello finale che va mirabilmente a svanire nel segno di una sola, singola nota.
Ma simile anche a una danza: del resto, non sarebbe la prima volta che la musica del compositore veneziano diventa colonna sonora di una moderna coreografia. Qui me la immagino come un incantevole passo a due dalle movenze morbide e flessuose,
sinuose ed eleganti: ora lento, ora più movimentato e acceso, splendido. E me lo vedo davanti seguendo, nota per nota, il fascino del genio vivaldiano.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)