martedì 28 maggio 2019

Provviste per l'estate

G.De Chirico: "Piazza d'Italia" (Foto presa dal web)
No, non ho sbagliato stagione scrivendo il titolo di questo post, anche se di solito - quando si parla di provviste - siamo abituati a pensare alle necessità imposte dall'inverno con i suoi giorni dal tempo più inclemente, almeno qui da noi.
Ma non mi sto neppure riferendo al clima che - forse - ci farà indossare il golfino di lana anche durante i prossimi mesi, a giudicare dalle stranezze meteorologiche di questo maggio così inconsueto.

Parlo invece dell'estate come periodo di ferie - per chi ne può usufruire - o comunque di quella pausa, lunga o breve che sia, che tutti aspettiamo per trovare spazi di riposo e di svago o magari anche di solitudine.
Personalmente, amo la solitudine e oserei dire che talora la cerco, soprattutto quando ci mette a contatto con lo splendore della natura e con un ritmo di vita meno affannoso, capace di restituirci a noi stessi.
E tuttavia mi rendo conto che essa ha spesso due facce: può essere silenzio incantato o annoiato grigiore, pausa di serena meditazione o abisso di vuoto come quella piazza di De Chirico nella foto in alto, dove il contrasto netto tra sole e ombra sembra accentuarne l'effetto.

Indubbiamente, è una condizione che favorisce l'emergere di energie più fresche o di nuove risorse interiori - pensiamo solo a quante opere d'arte ha prodotto! - ma talora può anche immergerci in una palude di tristezza o di rammarico. E se spesso è occasione per rivedere il nostro vissuto sollecitando in noi desideri e sogni, a volte sottolinea assenze e rischia di disorientare. 
Non è sempre facile scandagliare il magma che ci portiamo dentro, ma se in certi momenti ciò fa emergere in noi spaccature e sofferenze feconde perchè andranno poi a tradursi in vita, in altri capita che si resti lì, ripiegati in se stessi o apparentemente isteriliti in un senso di frustrazione che la solitudine spesso amplifica in un'onda sempre più larga.

Allora occorrono provviste anche per l'estate: legna per il fuoco e cibo per l'anima perchè chi prevede giorni di un cammino impervio come un sentiero di montagna abbia almeno scarponi, piccozza e borraccia, insomma un buon equipaggiamento. 
E che cosa meglio di libri e musica? Compagni di strada che si affiancano a noi,  pronti a sostenerci, a corroborarci come una buona grappa alpina, dissipando nebbie e restituendoci sogni, prospettive e sorriso. 
Del resto, senza andare troppo in là, penso che tutti noi, in previsione di un periodo di vacanza, facciamo provvista di letture e musiche scelte con cura cui affidare i nostri giorni di ferie, o talora anche per contrastare ombre e pensieri che certe pause possono favorire.

Bene. Allora, nello zaino di chi si appresta ad affrontare un periodo un po' così...oggi mi permetto di suggerire un brano che amo molto.
Torno a Bach naturalmente, un Bach che ci sa regalare fondamenta e contrafforti a prova di terremoti interiori e che nel pezzo che segue costruisce un'architettura articolata, grandiosa e complessa. 
Si tratta dell' "Ouverture" della "Suite per orchestra n.1 BWV 1066", che ci regala uno spazio sonoro solenne e disteso, sottolineato dalla luminosa e assertiva tonalità di Do maggiore. Un brano tripartito, costruito da due parti lente e maestose, intervallate da una fuga di straordinaria leggerezza che anticipa con la sua vivacità i successivi movimenti di danza.
Una pezzo brillante che, se può ricordare il lusso e la spensieratezza delle feste di corte come è stato rilevato da alcuni musicologi, non per questo è privo di quella profondità e dello splendore creativo tipicamente bachiano.
Una musica che lascia una percezione di gioiosa apertura e vibrante energia, capace di regalarci il necessario equipaggiamento interiore per trasformare ogni eventuale solitudine in una dimensione incantata.

Buon ascolto!

lunedì 20 maggio 2019

Altre stagioni

(Foto presa dal web)
Attraversavo martedì scorso la mia pianura della quale conosco palmo a palmo angoli e vedute, e a un tratto sono stata colpita da un panorama inconsueto.
Procedendo verso nord, in fondo alla  campagna aperta, percorsa dal vento freddo di questi giorni, vedevo all'orizzonte lo spettacolo delle Prealpi bianche per le recenti nevicate.
Ma al tempo stesso, in primo piano avevo ciuffi rossi di papaveri che, disseminati tra il verde dei campi e sul ciglio della strada, da certe angolature andavano a stagliarsi proprio contro le lontane cime innevate. 
Papaveri e neve: è stato questo l'anacronistico panorama che, pur nella sua bellezza, mi ha lasciato una sensazione straniante.

C'è spesso un modo in cui ci appaiono le cose - i fiori, il cielo, la campagna, il paesaggio intorno a noi - che ce le rende familiari, una sorta di abitudine che le fa diventare cornice rassicurante del nostro cammino, perchè in essa ci ritroviamo ravvisando i consueti tratti della nostra vita.
Ma quei papaveri stagliati contro le montagne innevate, giorni fa, per un attimo mi hanno dato un senso di straniamento come se l'immagine, accrescendo la sfasatura cronologica di questo clima invernale a maggio, non appartenesse più a una sequenza di fenomeni conosciuti a cui riandare, ma fosse segno o presagio di un tempo nuovo. 
Un tempo in cui inoltrarsi con vaga inquietudine, quasi nel succedersi dei vari mutamenti climatici avessimo la percezione di un ignoto che sgomenta, di una dimensione esistenziale che si dilata oltre i confini entro i quali siamo soliti riconoscerci e sulla quale - più che mai - non abbiamo il controllo.
Certo, è un fatto di cui abbiamo già consapevolezza: siamo piccoli e abitiamo uno spazio infinito dai contorni sfrangiati. Ma talora basta un'immagine, una particolare inquadratura di paesaggio a darcene - come in un flash improvviso - una percezione più viva e insieme ambigua che, se da un lato va ad acuire un senso di incertezza esistenziale, dall'altro apre forse squarci verso il nuovo.

È proprio sull'onda di tali sensazioni che oggi desidero tornare a Max Richter con un brano dalla sua ricomposizione delle "Quattro stagioni" di Vivaldi: lavoro senza dubbio interessante anche se azzardato, dove l'artista, nel suo approccio ai celebri concerti, tenta di fondere ambient music ed elettronica con lo stile vivaldiano.
"Riscriverli - ha affermato Richter - è stato come guidare attraverso un meraviglioso paesaggio conosciuto usando una strada alternativa per apprezzarlo di nuovo come la prima volta".
Il risultato a cui approda - almeno nel brano che vi propongo qui - delinea un paesaggio sonoro e ci immerge in un clima musicale ben lontani dall'atmosfera e dal gusto barocco. Tuttavia, la sua lettura dei testi vivaldiani, fatta con sensibilità e strumenti nuovi, ha il pregio di sviscerarne ogni risorsa espressiva creando affascinanti suggestioni.

Dell'opera ho scelto un pezzo molto breve: il secondo movimento, "Adagio", dell'"Estate" - "Concerto n.2 in sol minore RV315" - del quale ho riportato anche la versione originale.
Qui, se Vivaldi ci fa sentire la cupa calma che precede il temporale alternata all'eco lontana del tuono che si avvicina, Richter, dando al brano una ritmica cadenzata e dilatando ulteriormente la voce degli archi, ne fa scaturire un canto ancor più angoscioso. Certo, anche Vivaldi esprime un senso d'intensa malinconia, ma è come se la sua musica sapesse dare un nome alle cose, mentre Richter le coglie in quella dimensione originaria e straniante in cui non hanno ancora identità, o almeno così a me pare. 
Se infatti il compositore veneziano articola il pezzo secondo una squisita armonia descrittiva riferendosi ai versi del sonetto corrispondente, Richter tratteggia invece un paesaggio in cui ogni definizione resta incerta, portandoci ai margini di uno spazio sconfinato che è altra cosa rispetto alla creazione vivaldiana. 
E sembra aprire squarci di un mondo sconosciuto, delineando nuove stagioni dentro e fuori di noi.

Buon ascolto!

domenica 12 maggio 2019

Piccole cose intorno a noi

(Foto presa dal web)
Devo dire grazie, ancora una volta, a un mio compagno di liceo - lo stesso che, tempo fa, mi ha dato l'idea di un post su Prokofiev - per la simpatica vignetta qui a lato che ho trovato la scorsa settimana sulla sua pagina Facebook.
Come vedete, rappresenta un compositore che prende ispirazione da ciò che osserva dalla finestra, traducendo in note la posizione delle rondini - o almeno faccio finta che lo siano - appollaiate sui fili della luce come su di un pentagramma.
Un' immagine che mi lascia una sensazione leggera e ariosa, svagata e fresca: la colgo nell' espressione incantata, naso all'insù, del musicista; ma anche in quei fogli sparsi a terra, quasi che la sua attenzione sia tutta presa da ciò che il disegno degli uccelli sui fili gli detta dentro e null'altro al mondo conti di più.

Già, potenza dell' ispirazione! Se essa ti anima, tutta la realtà diventa un pentagramma dal quale attingere linfa, e sul quale trasferire le sconfinate passioni che abitano il cuore dell'uomo. 
Così l'amore, il dolore, il sogno, il desiderio, il cielo, le stagioni e mille altre dimensioni dell'esistenza, sono diventate nel tempo la fonte da cui i musicisti hanno preso spunto per creare in note straordinari universi di poesia.
Ma oltre a questi, molteplici sono stati gli aspetti della quotidianità - talora minimi dettagli della vita che ci scorre accanto - che essi si sono soffermati a descrivere o che hanno trasfigurato nelle loro creazioni.

E proprio perchè l'ispirazione può nascere anche da piccole cose intorno a noi, oggi vi propongo un brano di Giovanni Allevi, forse non tra i più conosciuti dal grande pubblico ma, nel suo genere, una vera chicca che - a mio modesto avviso - merita di non restare in secondo piano.
Si tratta de "L' ape e il fiore", dal cd "13 dita", primo album del compositore uscito nel 1997: è infatti un delizioso pezzo per piano solo che ha tutta la freschezza di un'invenzione giovanile e che, se nel titolo può ricordare il celebre "Volo del calabrone" di Rimsky-Korsakov, nella ritmica di certi passaggi mi pare invece più vicino a Scott Joplin.
Il brano si snoda in un andirivieni di velocissime scale, trilli e dissonanze in cui sembra che Allevi si sia divertito a giocare con la tastiera o che abbia voluto dare sfogo alla parte ribelle e funambolica della sua personalità musicale.  
Non per niente, ascoltandolo, mi sono venuti in mente i versi di Aldo Palazzeschi in un testo altrettanto funambolico e trasgressivo:
"Il poeta si diverte pazzamente / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire..."

Divertimento, sì! "L'ape e il fiore" alterna passaggi netti e fortemente scanditi, spesso giocosi e ammiccanti, ad altri più morbidi e leggeri, per poi arrivare al finale con una serie di accordi dissonanti che sembrano proprio il divertimento scatenato di un pianista in vena di follìa. Un pezzo di bravura dove le note garriscono come aquiloni al vento e che immagino difficilissimo da eseguire.

Una musica certo lontana dalla vena intima e meditativa di altri brani del compositore - da "Carta e penna" sempre in "13 dita", fino all' "Adagio" del più recente "Piano Concerto N.1" dal doppio cd "Equilibrium" - eppure straordinaria per leggerezza e capacità descrittiva. 
La sua costruzione, infatti, non è casuale nè improvvisata, perchè Allevi vi riproduce il volo dell'ape attorno al fiore con un moto prima lento e quasi a scatti, poi più fluido e infine vorticoso, simile a un corteggiamento che va facendosi gradatamente più serrato. 
Una capacità descrittiva attenta, ma a dire il vero anche frutto di fantasia perchè, nella ripresa finale, dove le note fioriscono in una rincorsa sempre più spensierata e veloce, lo sguardo del compositore - e qui sta il bello! - sembra quello di un creatore di cartoni animati o di un bambino.
Ed è una fantasia che ci rapisce sull'onda di un indomabile desiderio di libertà!

Buon ascolto!

domenica 5 maggio 2019

Nel segno di Virginia

(Foto presa dal web)
È andato in onda sere fa su Rai 5 "Woolf Works", balletto con coreografie di Wayne McGregor e musiche di Max Richter, ispirato alla vicenda umana e letteraria di Virginia Woolf, colta attraverso riferimenti ad alcuni suoi romanzi insieme a stralci di lettere e saggi.
Nella rappresentazione - che, nei tre atti in cui si snoda, prende spunto rispettivamente da "La signora Dalloway", "Orlando" e "Le onde" - rivivono infatti i personaggi creati dalla scrittrice che va identificandosi di volta in volta con essi, in un affascinante intreccio reso con rara intensità dalla protagonista Alessandra Ferri.
Il balletto - che tra l'altro ha debuttato alla Scala proprio lo scorso aprile - era stato messo in scena per la prima volta nel 2015 dalla compagnia della Royal Opera House di Londra, ma Rai 5 ne ha trasmesso la versione per grande schermo data nel 2017 al Covent Garden.

Affascinante è dir poco per definire la grazia interpretativa di Alessandra Ferri nel far rivivere Virginia nei tratti intimi e drammatici, fragili e al tempo stesso forti della sua personalità. Il suo è un corpo che si fa emozione, attraverso movenze misurate ma ricche d'intensa espressività, dove il gesto diventa mirabilmente specchio di un mondo interiore.
Accanto alla protagonista, a costruire lo spettacolo, le splendide coreografie di Wayne McGregor che fondono danza classica e contemporanea in una suggestiva sperimentazione, così come sperimentale - a suo tempo - era stato il lavoro della scrittrice. 
Della Woolf il coreografo ha affermato infatti:
"Amava la danza e la musica. Voleva scrivere come se stesse scrivendo musica e coreografando danza. Ho pensato che sarebbe stato meraviglioso provarlo e reinterpretarlo, e tradurre in qualche modo i suoi romanzi per la scena".
Una sorta di sinestesia quindi, tra suono, immagine, scrittura e gesto: non un semplice racconto, ma un dialogo tra diverse forme artistiche che si traduce in un flusso di coscienza emozionale ed evocativo, in un vissuto che arriva immediato al cuore del pubblico.

Ma è poi la musica di Max Richter a dare a tale vissuto una sostanza con la quale la danza si fonde in perfetta simbiosi.
Nato nel 1966 in Germania ma naturalizzato inglese, figura emergente nel panorama odierno dei compositori, Richter muove da una formazione classica indirizzandosi prima verso il minimalismo e successivamente verso forme di sperimentazione tese talora a rivedere il passato in chiave contemporanea.
Lo dimostra la sua rilettura de "Le quattro stagioni" di Vivaldi alla luce di ritmi della nostra epoca. 
Un amore per la musica barocca che riaffiora anche nel secondo atto del balletto "Woolf Works", dove quello che viene ripreso in vari pezzi e rielaborato nei modi più disparati è l'antico e celebre tema della Follia.
Ne riporto un esempio nella prima clip audio - tratta dall'album "Tree Worlds: Music from Woolf Works" - col brano "Genesis of Poetry" dove il tema, al di là degli effetti speciali, è chiaramente riconoscibile nell'essenza dell' impianto armonico e dall'aria scandita dallo xilofono.

Sempre parte dello stesso cd è il pezzo della seconda clip, intitolato "In the Garden" e ispirato al romanzo "La signora Dalloway"
Anche qui la musica, se pure ci immerge in un clima molto diverso dal precedente, ci riconduce ugualmente a un passato che - all'esordire del tema a 1.00 dall'inizio, ma non solo - può richiamare qualche battuta del "Canone" di Pachebel. Un barocco che si coniuga col gusto minimalista della ripetizione soprattutto nell'accompagnamento di fondo sempre uguale a se stesso, e con lontani echi della musica di Philip Glass che - proprio in riferimento alla scrittrice - ha realizzato nel 2002 la colonna sonora del film "The Hours".
Ma nel suo addentrarsi nella figura di Virginia Woolf - e insieme nel personaggio di Clarissa Dalloway - Richter a mio avviso va oltre il minimalismo, costruendo atmosfere evanescenti, talora quasi oniriche, e piegando la ritmica alle esigenze di una danza di grande fluidità e struggente lirismo.  
E il canto del violino, progressivamente più intenso e sofferto, va poi sciogliendosi in una lieve e sorridente armonia intrisa di una dolcezza che non si finirebbe mai di gustare.

Buon ascolto!