sabato 30 gennaio 2021

Dare alla luce

"Sentinella, a che punto è la notte?"
Non è la prima volta che, nell'impaziente
limbo di attese in cui ci troviamo a causa del Covid, mi vengono in mente queste parole del profeta Isaia.
Al di là di quella astronomica infatti, la notte
può essere rappresentata anche dalla stretta del lungo periodo di incertezze che stiamo vivendo: le paure, gli impedimenti, gli innumerevoli progetti frustrati o la solitudine, non sempre e non per tutti amica.

Osservo la stagione invernale intorno a me che - in questi giorni di gennaio - si avvicina al suo cuore di nebbie e di gelo, e penso a quanto la natura spoglia somigli in fondo alla notte delle tante persone che, nei lunghi mesi scorsi, sono state private di familiari, amici, relazioni, opportunità, futuro.
Tuttavia, è proprio l'inverno con le sue stesse sembianze a comunicarmi il fascino di un'attesa
che non abita soltanto in certi tratti esteriori, ma anche nel segreto che esso custodisce e - oserei dire - cova. C'è infatti una bellezza delicata e quasi trepida in tali sembianze, nel disegno dei rami spogli o nei casolari addormentati nella neve perchè - a somiglianza dello sguardo caldo e luminoso di chi porta in sè una vita - vi traspare lo splendore di una gestazione che si compie nel buio. 

È un po' lo stesso fascino - così almeno a me pare - del dipinto di Camille Pissarro (1830 - 1903) che vedete in alto, intitolato "Casa di Piette a Montfoucault: effetto neve" e conservato al Fitzwilliam Museum di Cambridge.
Si tratta di un'immagine a prima vista spenta, eppure se entriamo nel quadro
lasciandoci prendere dalla sua atmosfera, restiamo soggiogati dalla delicatezza dei toni. Sono tratti di bianco, azzurro, grigio e una lievissima sfumatura rosata, mai stesi in modo netto e uniforme, bensì impastati l'uno nell'altro con larghi e veloci tocchi di pennello, com' è tipico della pittura impressionista di cui Pissarro è esponente di primo piano.
E il colore del cielo, con la sfumatura particolare di certe giornate di neve, mi
suggerisce che anche questo tempo ha una sua bellezza nascosta, un suo presagio di primavera talora difficile da cogliere, ma che a volte traspare a somiglianza di un tessuto che svela la sua trama più profonda.

Così, alle delicate tonalità del dipinto desidero associare un brano di polifonìa a mio avviso pervaso da altrettanto fascino. È un pezzo di Giovanni Allevi tratto dal cd "Hope" e intitolato "Vocalise": un canto senza parole, un'elegia per sole voci interpretata qui dal Coro dell'Opera di Parma.
Da quanto leggo sul web, il brano è nato come omaggio del compositore a un
gruppo di coriste giapponesi che - in una delle tante tournées del musicista in Estremo Oriente - gli avevano chiesto di potersi misurare con un testo diverso dalle armonie tipiche della loro tradizione.
In effetti l'atmosfera di "Vocalise" non ci riporta in Giappone, ma si avvicina più
all'intensità sublime - ora pacata, ora sostenuta - di certi canti del mondo ortodosso: melodie sacre che evocano lo splendore delle antiche icone russe, da sempre considerate finestre sull'invisibile.

Anche questa musica, a mio avviso, è in fondo una finestra sull'invisibile.
Sono note che nascono dal buio, eppure hanno un fuoco dentro: intime e
sommesse nella loro atmosfera drammatica simile a una preghiera senza parole fatta di gemiti inenarrabili, eppure attraversate da improvvisi squarci che irrompono vigorosi come un grido.
Ne deriva una composizione delicata e intensa, dove la malinconia del tono minore
si alterna ad una vena di luminosa speranza che si apre qua e là nel brano, ma anche nell'accordo finale - lieve e insieme profondo - in Mi maggiore.
Una musica pervasa da uno struggente senso di attesa che - attraverso un
travaglio di armonie ora ombrose e dissonanti, ora più sorridenti - ci comunica, come ogni tempo nuovo, la sensazione di dover dare alla luce noi stessi.

Buon ascolto!

 

sabato 23 gennaio 2021

A ritmo di Haendel

Prendo spunto per il post di oggi da un commento dell'amica blogger Rossana del sito "Persona e comunità", angolo di web di grande ricchezza culturale per i tanti temi trattati, a cominciare da quelli filosofici.
Facendo riferimento al brano di Schubert
che ho appena pubblicato, Rossana afferma infatti che iniziare la giornata con questa musica "conferisce profondità, intensità e spessore al tempo". Non solo, ma è anche  "sentire di essere accompagnati da grandi spiriti".

Non posso che essere d'accordo con lei e non solo per ciò che riguarda il compositore austriaco, ma anche per tanti altri artisti le cui note hanno il potere di raggiungerci nel profondo, restituendoci in qualche modo una percezione più viva di noi stessi e della realtà che abbiamo intorno.

Penso che molti di noi - se non tutti - sappiano bene che significa essere accompagnati dalla musica nell'esordio della propria giornata. Più volte ne ho già parlato tra queste righe, ricordando come certi brani sappiano esercitare un vero e proprio effetto terapeutico, regalando al nostro vivere una dimensione ora più profonda, ora più energica, ora più compiuta e luminosa.
E se le note non hanno il potere di modificare il contesto in cui ci muoviamo, esse entrano tuttavia in
gioco - come ricorda Rossana - conferendo "spessore al tempo", mentre il "sentire di essere accompagnati da grandi spiriti" ha l'effetto di cambiare noi stessi dandoci occhi per attraversare il buio, e uscirne.

Allora, sull'onda di queste considerazioni, oggi vi propongo un brano di Georg Friederich Haendel (1685 - 1759), pezzo brillante come un fuoco acceso a riscaldare e ravvivare la giornata. Si tratta del secondo movimento, "Allegro", del "Concerto in Si bemolle maggiore per organo e archi op.4 n.2 HWV 290". Per organo, sì: una composizione briosa per il particolare registro con cui lo strumento fa da solista e dialoga con gli archi.
Non è la prima volta che pubblico qui composizioni organistiche di Haendel: sono brani che amo intensamente per
il tono di gioiosa, esuberante vivacità che li contraddistingue. Ricordo sopra gli altri il  "Concerto op.4 n.4 HWV 292"  e l'ancor più famoso  "The cockoo and the Nightingale" HWV 295 : due tra gli esempi più festosi e scintillanti della produzione del compositore.

Ma ciò che vorrei sottolineare in essi, così come nel pezzo di oggi, è il ritmo: un elemento che mi pare significativo in molta musica barocca.
Consideriamo, a questo proposito, che tanti tra i pezzi che compongono le Suites
di questo periodo sono in realtà delle danze e - prima ancora delle note - ce lo suggeriscono i loro nomi: allemanda, corrente, sarabanda, minuetto, gavotta, giga, badinerie e via dicendo.
Sia Haendel che il suo grande contemporaneo Bach hanno composto celebri Suites
padroneggiando proprio i ritmi di tali danze, ritmi presenti tuttavia anche nell'anima di altre loro composizioni. E saranno poi i vari interpreti - nel tempo - a cogliere quest'anima, facendo affiorare in modo più o meno esplicito i tratti della sua straordinaria modernità.

Così accade che, anche in un Concerto come quello di oggi, ci siano passaggi nettamente scanditi e ritmati in cui l'organo ci regala accenti di grande leggerezza che vanno al di là dell'atmosfera solenne e maestosa che spesso ci si può aspettare da questo strumento.
Sembra davvero che Haendel si sia abbandonato a un'onda di musica più che mai
scorrevole e briosa, energica e lieve ad un tempo. Ce lo dicono anche le note ribattute, i frequenti trilli e abbellimenti che danno al brano quell'impronta di fresca vivacità tipica dello stile del compositore e ricca di sorridente eleganza.

Buon ascolto!                             

 

venerdì 15 gennaio 2021

In compagnia di Schubert

Oggi, nella mia ormai quotidiana navigazione su youtube in cerca di musica, mi sono soffermata su Franz Schubert (1797 - 1828).
Stavo tentando di identificare un brano sentito per caso, sere fa, nella colonna
sonora di un programma televisivo: poche battute di sottofondo e poi basta come spesso capita. Ma è stato sufficiente perchè rimanessi incantata a inseguire quelle note nella memoria come un vero e proprio tormentone, finchè non avessi dato loro autore e titolo.
Così - dopo non molto devo dire - ho
ritrovato un celebre pezzo di Schubert: la "Fantasia in fa minore D 940 per pianoforte a quattro mani", una melodia che esordisce malinconica e poi vivace e più variata, come appunto il carattere di una fantasia richiede. Ma spesso succede che la musica ci prenda per mano e ci conduca ancora più in là delle nostre intenzioni e dunque l'ho seguita.
Da Schubert a Schubert sono arrivata così al brano che oggi vi propongo: la
"Sonata in la minore per pianoforte e arpeggione D821". 

Arpeggione??? Sì: si tratta di uno strumento musicale ad arco e con sei corde, inventato da un liutaio viennese nei 1823 con caratteristiche simili in parte alla chitarra classica e in parte al violoncello.
Per diffonderne l'uso, al compositore austriaco fu subito commissionata la Sonata
che citavo e che rimane forse l'unico pezzo scritto a tale scopo.
In realtà, fu pubblicata parecchi anni dopo la morte di Schubert, quando ormai
l'uso dell' arpeggione era tramontato, anche se è rimasto vivo presso alcuni gruppi che suonano con strumenti d'epoca.
Al di là di questo, però, ci resta una composizione decisamente pregevole.

Il pezzo, in tre movimenti, è divenuto celebre soprattutto nella trascrizione per violoncello e pianoforte che ascolterete, ma ne esistono altre versioni dove ora è l'arpa a fare da solista, ora la viola, ora la chitarra o il contrabbasso.
Qui, della Sonata ho scelto il secondo movimento, un "Adagio" pacato e riposante
che vi invito a gustare nell'interpretazione di due straordinari solisti: Mstislav Rostropovitch e Benjamin Britten.

C'è una profonda serenità e un luminoso senso di pace nella tonalità di Mi maggiore sulla quale si apre il brano. Dopo una brevissima introduzione, il tema esordisce nitido con quattro note che ricordano molto da vicino l'inizio del "Larghetto" della "Seconda Sinfonia" di Beethoven e, anche se i due brani poi si dispiegano diversamente, l'apertura sembra regalarci lo stesso atteggiamento contemplativo. Non sono rari del resto in Schubert tali riferimenti, a cominciare dall' "Andante con moto" del suo "Quartetto per archi D810" conosciuto come "La morte e la fanciulla", la cui scansione ritmica ci riconduce ancora a Beethoven e in particolare al celebre "Allegretto" della "Settima Sinfonia".

Ma, tornando al nostro "Adagio", se anche la melodia si snoda poi in un'alternanza di tonalità maggiore e minore declinando verso passaggi più malinconici, a prenderci resta soprattutto il particolare timbro del violoncello fatto di una profondità e una delicatezza che creano affascinanti chiaroscuri.
Così pure, ci accompagna la lentezza del ritmo in cui durata e intensità di ogni
nota sono attentamente calibrate: uno Schubert dallo sguardo luminoso, ma insieme intimo e assorto.
E se alla fine della clip audio la musica s'interrompe di colpo, è perchè il
brano non ha una vera e propria conclusione, ma la cadenza del violoncello va poi a risolversi direttamente nell'Allegretto finale.

Buon ascolto!

 

giovedì 7 gennaio 2021

In cerca di leggerezza - 1


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  


Nell'affacciarmi al nuovo anno, dopo quello così drammatico che ci siamo appena lasciati alle spalle, mi sono chiesta che cosa mi auguro per i giorni futuri e tante sono state le risposte che subito si sono affollate nella mia mente.
Salute per tutti, forza, speranza, libertà di dare spazio ai tanti progetti che la
pandemia ha interrotto o a quelli nuovi che può aver fatto nascere...e potrei continuare.
Tuttavia, scavando ancora più a fondo, mi sono resa conto di aver bisogno di uno
stato d'animo che non si lasci condizionare troppo dagli eventi esterni finendo per subordinare ad essi ogni cosa, ma resti saldo in una sorridente attitudine verso la vita. E mi riferisco a quello sguardo di leggerezza che è in noi come una sorta di impronta originaria da non offuscare e che ci consente di cogliere, di tempo in tempo, l'incanto dell'esistenza.

Nel libro "Lezioni americane" di Italo Calvino si legge: "Leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore" e mi pare che quest' affermazione renda bene l'idea.
Ma dove abita la leggerezza? E dove possiamo coglierne il respiro per farlo nostro
nei momenti più difficili?
Senza dubbio nelle varie forme d'arte, nella natura, nei sogni e
in certi ricordi, ma anche altrove come - per esempio - nel gioco e nello sguardo dei bambini.
Per questo, mi piace iniziare il nuovo anno andando alla ricerca di quelle immagini - e
quelle musiche - che per me sono espressione di leggerezza, capaci di riempirci l'anima del suo stupore o di risvegliarlo in noi.

Conoscete Chardin? Sì, parlo di Jean-Baptiste-Siméon Chardin (1699 - 1779), pittore francese di nature morte, ritratti e raffigurazioni d'ambiente.
È un artista che amo per la sua capacità di rappresentare dettagli di vita
quotidiana con originale realismo. Più che guardare alla tradizione pittorica del passato, infatti, preferisce cogliere in se stesso o nello stile di alcuni suoi contemporanei lo sguardo con cui dipingere persone e oggetti, mestieri e giochi. Ci restituisce così figurette immerse in un'aura di silenzio, ricche di semplicità e di garbo soprattutto quando appartengono al mondo dei più giovani.

Per questo, oggi ho scelto uno dei suoi dipinti più famosi intitolato "Bolle di sapone" e realizzato in tre versioni delle quali quella che vedete è conservata presso la National Gallery of Art di Washington.

Affacciato a una finestra, su di uno sfondo vuoto dal quale occhieggia curiosa una personcina in secondo piano, un ragazzo soffia in una cannuccia dalla quale esce una bolla di sapone. Accanto a lui, il bicchiere col liquido e intorno un tralcio di verde un po' spento: un ambiente spoglio e - tranne alcuni tocchi di luce al centro - caratterizzato da toni piuttosto scuri. Ma è qui che Chardin - con un occhio di attenzione al mondo popolare raffigurato dalla pittura olandese dell'epoca - ha inquadrato il momento di svago del protagonista, un ragazzo presumibilmente povero come ci suggeriscono le mani poco curate e lo strappo nella giacca.
Al di là di questi dati, però, l'opera mi ha affascinato anche per altri motivi.


Prima di tutto per il tema che mi riporta dritto alla mia infanzia.
Chi da piccolo non ha giocato a far bolle di sapone incantandosi davanti a quelle
sfere iridescenti dalla viva superficie cangiante e multicolore, animate da un semplice soffio? Prima il rosa e il verde, poi il giallo e il blu, poi il viola...era tutto uno scorrere vibrante di colori, mentre la bolla pian piano si dilatava fino a staccarsi e fluttuare nell'aria qualche secondo prima di dissolversi.
Era una sorta di arcobaleno e, anche se lo sfondo scuro del dipinto non ci permette di vederlo, Chardin ci regala però la leggerezza impalpabile della bolla coi suoi riflessi di luce, la sua forma un po' oblunga e i contorni vagamente sfumati dal movimento: una meraviglia di splendore e insieme di fragilità.

Un altro motivo di interesse per il dipinto è costituito proprio dai suoi contrasti. In primo luogo, quello tra la leggerezza del gioco e la serietà del ragazzo, concentratissimo nel dosare il soffio perché la bolla cresca senza esplodere. Ogni gioco infatti ha in sè una duplicità di aspetti: divertimento ma anche serietà delle sue regole o comunque del modo in cui esso va condotto perché possa riuscire bene.
Il secondo contrasto è quello cui facevo cenno sopra: il senso della bellezza e al
tempo stesso della caducità delle cose, quella "vanitas" tanto cara agli artisti dell'epoca barocca e oltre. La bolla di sapone è infatti un magico ma fugace miracolo di aria e di luci, in fondo un po' una metafora della nostra vita.
Ma a mio avviso c'è un terzo aspetto: quello di un gioco fatto di colori e trasparenze, in un
ambiente - invece - cupo e spento. Contrasto significativo quasi a suggerirci che la leggerezza può abitare anche nella quotidiana oscurità della nostra vita dove serenità e malinconia spesso convivono.

E per passare alla musica, chiedo scusa a Bizet che ha composto un pezzo proprio dedicato alle bolle di sapone, ma non posso che tornare al genio di Mozart, capace di quello sguardo dall'alto in cui gioia e tristezza, luminosità e grigiore si compongono in una mirabile visione d'insieme.
Così, contrariamente alle mie abitudini ho deciso di ripubblicare un brano postato
ben dieci anni fa! Ma è quello che, osservando il dipinto di Chardin, mi è rifiorito dentro senza alcuna esitazione: il "Rondò" della "Posthorne Serenade n.9 in Re maggiore K.320".
Si tratta di una melodia luminosa e trasparente, animata e scorrevole, un Mozart
piacevolissimo e orecchiabile che ci resta nel cuore a riempirlo di incanto.
E anche se i sacri testi della critica musicale affermano che siamo ancora lontani
dall'afflato creativo della successiva produzione del compositore, vi confesso che a me questo Rondò è sempre parso magico.
Il suo ritmo è infatti un "Allegro ma non troppo" dove il flauto e l'oboe ci sollevano in volo verso un'aura di
leggerezza e di gioco che somiglia a uno zefiro primaverile e mi riporta alla mente le parole di Saint-Exupéry nell'introdurre "Il piccolo principe":
“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”.
E se è davvero così, tra questi pochi ci sono indubbiamente Chardin e Mozart!

Buon ascolto!