"Sentinella, a che punto è la notte?"
Non è la prima volta che, nell'impaziente limbo di attese in cui ci troviamo a causa del Covid, mi vengono in mente queste parole del profeta Isaia.
Al di là di quella astronomica infatti, la notte può essere rappresentata anche dalla
stretta del lungo periodo di incertezze che stiamo vivendo: le paure, gli impedimenti, gli innumerevoli progetti frustrati o la
solitudine, non sempre e non per tutti amica.
Osservo la stagione invernale intorno a me che - in questi giorni di gennaio - si
avvicina al suo cuore di nebbie e di gelo, e penso a quanto la natura
spoglia somigli in fondo alla notte delle tante persone che, nei lunghi
mesi scorsi, sono state private di familiari, amici, relazioni, opportunità, futuro.
Tuttavia, è proprio l'inverno con le sue stesse sembianze a comunicarmi il fascino di un'attesa che non abita soltanto in certi tratti esteriori, ma anche nel segreto che esso custodisce e - oserei dire - cova. C'è
infatti una bellezza delicata e quasi trepida in tali sembianze, nel disegno dei rami spogli o nei casolari addormentati nella neve perchè - a somiglianza dello sguardo caldo e luminoso di chi porta in sè una vita - vi traspare lo splendore di una gestazione che si compie
nel buio.
È un po' lo stesso fascino - così almeno a me pare -
del dipinto di Camille Pissarro (1830 - 1903) che vedete in alto, intitolato "Casa di Piette a Montfoucault: effetto neve" e conservato al Fitzwilliam Museum di Cambridge.
Si tratta di un'immagine a prima vista spenta, eppure se entriamo nel quadro lasciandoci prendere dalla sua atmosfera, restiamo soggiogati dalla delicatezza dei toni. Sono tratti di bianco, azzurro, grigio e una lievissima sfumatura rosata, mai stesi in modo netto e uniforme, bensì impastati l'uno nell'altro con larghi e veloci tocchi di pennello, com' è tipico della pittura impressionista di cui Pissarro è esponente di primo piano.
E il colore del cielo, con la sfumatura particolare di certe giornate di neve, mi suggerisce che anche questo tempo ha una sua bellezza nascosta, un suo presagio di primavera talora difficile da cogliere, ma che a volte traspare a somiglianza di un tessuto che svela la sua trama più profonda.
Così, alle delicate tonalità del dipinto desidero associare un brano di polifonìa a mio avviso pervaso da altrettanto fascino. È un pezzo di Giovanni Allevi tratto dal cd "Hope" e intitolato "Vocalise": un canto senza parole, un'elegia per sole voci interpretata qui dal Coro dell'Opera di Parma.
Da quanto leggo sul web, il brano è nato come omaggio del compositore a un gruppo di coriste
giapponesi che - in una delle tante tournées del musicista in Estremo Oriente - gli avevano chiesto di potersi misurare con un testo diverso dalle armonie tipiche della loro tradizione.
In effetti l'atmosfera di "Vocalise" non ci riporta in Giappone, ma si avvicina più all'intensità sublime - ora pacata, ora sostenuta - di certi canti del mondo ortodosso: melodie sacre che evocano lo splendore delle antiche icone russe, da sempre considerate finestre sull'invisibile.
Anche questa musica, a mio avviso, è in fondo una finestra sull'invisibile.
Sono note che nascono dal buio, eppure hanno un fuoco dentro: intime e sommesse nella loro atmosfera drammatica simile a una preghiera senza parole fatta di gemiti inenarrabili, eppure attraversate da improvvisi squarci che irrompono vigorosi come un grido.
Ne deriva una composizione delicata e intensa, dove la malinconia del tono minore si alterna ad una vena di luminosa speranza che si apre qua e là nel brano, ma anche nell'accordo finale - lieve e insieme profondo - in Mi maggiore.
Una musica pervasa da uno struggente senso di attesa che - attraverso un travaglio di armonie ora ombrose e dissonanti, ora più sorridenti - ci comunica, come ogni tempo nuovo, la sensazione di dover dare alla luce noi stessi.
Buon ascolto!