domenica 26 giugno 2022

"Prog me": un percorso di funambolica follìa.

Non sono sportiva, e non ho mai praticato seriamente alcuna attività di questo tipo.
Mi piace camminare, certo, soprattutto se
la strada è pianeggiante e con un passo che ho sempre avuto - quello sì! - piuttosto gagliardo e veloce. Se vado svelta infatti non mi stanco, mentre fatico se sono costretta a muovermi a ritmo di processione oppure a corserelle e fermatine...insomma avete capito. Ma a parte il piacere di camminare, atleticamente parlando non vado oltre.

Tuttavia, sarà forse per una strana legge degli opposti o per il desiderio inconscio di oltrepassare certi limiti, che amo moltissimo gli sport estremi, beninteso dalla comodità del mio divano.
Penso al parapendio con l'impagabile fascino del volo, ma ho in mente anche il
motocross freestyle: non quello che si pratica sui nostri campetti di periferia, ma quello che talvolta si vede in tv, su certe piste americane letteralmente da brivido. Mi appassiona tanto che, a volte, me lo sogno di notte con desiderio inquieto. (Ma va? Dite la verità che non pensavate...eh?! Ma guarda un po' la vecchia prof. in pensione!...)

E non c'è solo questo. Un altro sport più recente - e vi giuro che certe acrobazie me le sogno davvero - è il parkour: disciplina che consente di andare da un punto A a un punto B superando al volo tutti gli ostacoli architettonici che si possono incontrare sul percorso. Proprio da quest'ultimo termine deriva la parola parkour che prende ispirazione dall'addestramento militare ad affrontare appunto percorsi di guerra e che è passata poi a indicare la disciplina sportiva.
Il contesto può essere quello dell'ambiente naturale, ma spesso è lo spazio urbano nel
quale le barriere architettoniche sono più numerose rendendo di conseguenza la corsa più varia e avvincente.
Vi immaginate la gioia di fare salti, capriole e arrampicate da un tetto all'altro,
volteggiando tra cornicioni e terrazze, oltrepassando muretti e rampe di scale con un balzo? Insomma, prodigi di agilità ed equilibrismo che ovviamente posso permettermi solo di sognare in un accesso di funambolica follìa.

Allora oggi sono andata in cerca di una musica che si ispirasse proprio a questa funambolica follìa e l'ho trovata! S'intitola "Prog me", ed è un brano per pianoforte di Giovanni Allevi tratto dal recente album "Estasi".
Qui, l'indole classico-ribelle del compositore ascolano si manifesta nel fondere con la sua inventiva
riferimenti alla musica del passato con ritmi del presente, in particolare del rock progressive. Il termine prog indica infatti quel rock che si distingue dalle sue origini per una maggiore varietà stilistica e per quella libertà che consente di mixare classica e jazz insieme ad altri spunti musicali.

Ne deriva una composizione di esuberante vivacità dove sembra che le note riproducano una corsa dal ritmo irregolare senza soste nè pause e che, a mio avviso, può ricordare le acrobazie degli atleti del parkour.
Con piglio decisamente grintoso, il brano si apre con un tema in do diesis (...o re bemolle? No -
il compositore mi perdonerà - ma preferisco l'energia del do diesis) e prosegue facendolo risuonare in svariate altre tonalità con le quali Allevi ci porta lontano, quasi divagando. Ma quando la corsa sembra rallentare, il tema torna a riproporsi martellante, come magma ancora nascosto ma pronto a esplodere. Un pezzo da spirito ribelle insomma.

E il classico dov'è?... C'è, c'è, non temete: va e viene, si nasconde e riaffiora come
un fiume sotterraneo, scompare e riappare qua e là mimetizzato in un turbinoso vortice musicale. Lo troviamo nelle progressioni bachiane, ma fa capolino anche in un passaggio conclusivo a 0.54 dall'inizio nel quale sento riecheggiare Chopin.
Insomma, una cascata di note che, pur non essendo un' improvvisazione, ne ha
però tutta la freschezza: un Allevi ora scatenato, ora giocoso, ora garbato, ora irriverente che ci regala l'ebbrezza di una totale libertà.

E mi piace dedicare il brano proprio al musicista che - come giorni fa ha annunciato - dovrà iniziare un periodo di cure per combattere una pesante malattia. Anche il suo sarà dunque un percorso di guerra che tutti ci auguriamo lo veda pienamente vincitore, e che Allevi sta già affrontando con cuore di atleta. Ha scritto infatti sui social:  

"Indietreggerò solo per prendere la rincorsa. Mai per arrendermi":

 Allora buona guarigione, Maestro, e buon ascolto a tutti!

(La foto è presa dal web)

 

domenica 19 giugno 2022

Stanze - 6


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono stati i tanti particolari ricchi di leggiadrìa, insieme alla grande nitidezza del tratto e dei colori a suggerirmi la "stanza" di questo mese: un interno di casa fiamminga della prima metà del Quattrocento dove è ambientata la scena dell'Annunciazione.
Mi hanno sempre affascinato gli interni dipinti dagli artisti olandesi, da Vermeer a
De Hooch nel Seicento, ma anche più avanti nel tempo fino ai danesi Hammershøi e Holsøe. Sono rappresentazioni sempre piene di silenzio che ci consentono di entrare negli spazi raffigurati respirandone l'atmosfera pacata.
Col dipinto di oggi, però, torniamo indietro di qualche secolo.

Si tratta della "Annunciazione" del celebre "Trittico di Mérode" del belga Robert Campin (1378/79 - 1444) conservato al Metropolitan Museum of Art di New York.
Identificato anche come Maestro di Flémalle e
considerato caposcuola dell'arte fiamminga, l'artista ha - per così dire - traghettato la pittura del Nord Europa dal clima fantasioso e fiabesco del Gotico internazionale al realismo delle novità del primo Quattrocento.
Ha inserito infatti le varie rappresentazioni -
comprese quelle di carattere sacro come questa che vedete - nel contesto della vita quotidiana della sua epoca, ricco di dettagli che fondono semplicità ad eleganza, secondo uno stile che appartiene anche ad altri esponenti dell'arte fiamminga.
Del Trittico ho riportato solo la parte centrale
mentre le ante laterali, che consentivano all'opera di essere chiusa perchè era probabilmente destinata alla devozione privata, rappresentano da un lato i due committenti e dall'altro San Giuseppe mentre lavora.

Come scrivevo in apertura, mi ha colpito la nitidezza della stanza in cui si svolge la scena, insieme alla fusione di elementi architettonici della tradizione gotica con altri di impostazione più nuova.
Dall'elegante nicchia archiacuta dov'è appeso il
paiolo di rame, retaggio del gotico fiorito, andiamo infatti a osservare la costruzione del soffitto e in qualche modo dell'intero ambiente, come fosse un piccolo tentativo di scatola prospettica ante litteram.
Tuttavia, se per certi aspetti tale tentativo è
riuscito - come nella profondità segnata dai cassettoni del soffitto, dalle splendide mensole che lo sorreggono e così pure dalle due finestre circolari - più approssimativo è il rapporto tra le dimensioni delle figure umane e quelle degli arredi, segno di una prospettiva dettata da semplice intuito e non ancora da un preciso calcolo matematico.

A somiglianza di tante Annunciazioni coeve ma anche successive, la scena ci presenta Maria assorta in meditazione davanti a un libro e non ancora consapevole della presenza dell'Arcangelo il cui arrivo ha prodotto un soffio di vento che ha spento la candela - ne vediamo il fumo attorto - e mosso le pagine del libro sul tavolo.
Così pure, il dipinto è ricco di dettagli
simbolici che alludono alla purezza della Vergine, come i gigli nel vaso, e all'Incarnazione e morte di Gesù, rappresentata da quelle figuretta con la croce, che dalla finestra vola verso Maria all'interno di un fiotto di luce.

Ma anche al di là di questa simbologia, l'ambiente è ricco di particolari di vita quotidiana che fondono realismo, raffinatezza e semplicità e proprio per questo rendono la rappresentazione piuttosto varia.
Ogni angolo infatti ha un suo fascino che può far sognare, ma anche caratteri tutti suoi: le bellissime finestre laterali simili a due oblò dalle quali arriva una luce più pacata; il grande camino forse eccessivamente troneggiante per le dimensioni della stanza; poi il paiolo che riflette la luce, proietta la propria ombra sul muro e sembra sospeso sopra un pozzo... (A proposito, vi piacerebbe avere una casetta con un pozzo tutto vostro dove attingere acqua? A me sì!)
Poi ancora il vaso di ceramica bianca e blu sul tavolo.
(Lo sapete che ne ho uno un po' più rustico ma quasi uguale?...)

Insomma tanti piccoli quadri nel quadro, fatti ora da
un angolo di natura morta - guardate il libro sul tavolo e il cartiglio! - ora da un dettaglio architettonico, ora da una finestra che si apre sul cielo in uno spazio ordinato e sereno.

Bellissima appunto, nella sua semplicità, la finestra in fondo le cui imposte scure si aprono su di un cielo chiaro e sognante che - chissà! - mi piace pensare abbia saputo suggestionare altri artisti successivi, dai pittori di nuvole come Constable a quelli di cieli come Magritte.
Ad affascinarmi è proprio
quella finestra dalla quale entra una luce pacata che contrasta con le ante scure, e ci regala un senso di ordine che dà respiro all'intera stanza.
Forse, l'unico elemento che poco si accorda con
l'aura nitida e sobria dell'ambiente è la ridondanza quasi scultorea dei panneggi che, peraltro, ritroviamo anche in altri celebri contemporanei di Campin come Van Eyck e Van der Weiden.
Il candore del bianco e la particolare tonalità
di rosso è tipica infatti di tante composizioni fiamminghe.

E per commentare in musica l'atmosfera di questa particolare stanza, ho pensato subito a Bach e a un brano di solenne e pacata luminosità come il "Larghetto" del "Concerto n.4 in La maggiore per clavicembalo e orchestra BWV 1055", qui nella trascrizione per oboe d'amore.
Può sembrare malinconico l'esordio del pezzo e in effetti la sua tonalità di fa#
minore lo giustifica, ma la melodia si apre in maggiore a 1,51 dall'inizio con un movimento di grande serenità. Bella inoltre la sovrapposizione delle fioriture dello strumento solista sul ritmo sempre uguale ma dolce di 12/8, quasi simile a quello di una danza.
E mi sembra che l'insieme possa accordarsi con l'attitudine meditativa di Maria,
l'atteggiamento quasi timido dell'Arcangelo e l'atmosfera di luminosa pace del dipinto.

Buon ascolto!

sabato 11 giugno 2022

Ortensie

Avete mai rubato qualcosa per qualcuno?
O siete mai stati tentati di farlo?
Un fiore...un dolcetto...le ciliegie dalla
pianta...l'erba voglio nel giardino del re?...Insomma, avete mai violato una regola per amore?

Tranquilli, la mia non è istigazione a delinquere, ma solo una domanda che mi sorge spontanea pensando che, a volte, una piccola trasgressione può rendere un regalo ancora più prezioso. Del resto, da bambini - e non solo - non abbiamo forse avuto tutti il classico desiderio del frutto proibito?

Allora ve lo dico piano, pianissimo perchè nessuno ci senta...
Vedete quelle ortensie nella foto?
Sì, lo so che avete letto l'ultimo post e avete capito che sto attraversando un periodo floreale, coi gelsomini, l'azalea, ecc. ecc. Quello che non sapete però è che proprio quelle ortensie, ieri sera, le ha rubate mio marito per me!
Sì, ru-ba-te nel giardinetto condominiale, dopo che avevo espresso grande
apprezzamento per il folto cespo che cresce in un'aiuola sul retro della casa, lamentando il fatto che, trattandosi di uno spazio comune, non è possibile cogliere i fiori liberamente...o perlomeno non lo sarebbe.
Così, facendo finta di niente, al primo calar delle tenebre e con la solita scusa, "Vado in
garage" - non va a prendere le sigarette solo perchè non fuma - il consorte è uscito, ma invece di sparire, pochi minuti dopo è rientrato e mi sono trovata davanti alla sorpresa delle ortensie in tutto il loro splendore.

Chiariamo le cose. Mio marito è un uomo di poche parole che però potrebbe fare tranquillamente il testimonial del "Ditelo con i fiori". Confesso che a volte preferirei qualche discorsetto in più...ma pazienza, col tempo ho imparato a leggere tra le foglie. In tanti anni di matrimonio - e il mese venturo saranno quarantuno (!) che solo a scriverlo mi viene un colpo - il ragazzo, si fa per dire, mi ha omaggiato di un infinito numero di piante e pianticelle. Francamente, all'inizio alcune erano un po' cimiteriali, poi però ha capito i miei gusti e siamo arrivati alle rose o alle meravigliose azalee dei tempi più recenti.

Eppure, nonostante io li abbia sempre graditi, i fiori più belli non sono stati quelli regalati di rito per le feste comandate, i compleanni, ecc., ma quelli fatti a sorpresa e senza un motivo perlomeno apparente. Come le primuline di bosco di qualche anno fa, che durante un giro in bici aveva colto per me sulla sponda di un fosso, rischiando di cascarci dentro...e ora queste ortensie che ho subito sistemato in vaso e che valgono più di mille parole.
E ora che mi sono confidata con voi, vi prego di mantenere il silenzio.
Si venisse a sapere in giro del suo gesto e il brav'uomo mi dovesse finire nei guai,
non potrei neanche portargli le arance in galera perchè non è stagione. Quindi, acqua in bocca!

Così, per passare alla musica dedicando alle ortensie - e a lui - un pezzo adatto, vi propongo un brano che tanti forse non approveranno perchè non sembra accordarsi al tono un po' leggero di questo post. Ma l'ho scelto lo stesso perchè le sue note vanno a scandagliare quella profondità che talora si cela anche sotto le apparenze dei gesti più furtivi o dei toni più giocosi.
Si tratta dello splendido "Adagio assai", secondo movimento del "Concerto in Sol maggiore per
pianoforte e orchestra" di Maurice Ravel (1875 - 1937), qui interpretato da Martha Argerich.

È una musica che alterna levità a intensa passione, malinconia a squarci d'inusitata serenità, accenni di scala pentatonica ad accordi più vigorosi: una melodia nostalgica e vibrante da ascoltare senza fretta, lasciando che le sue note entrino nell'anima e la pervadano col loro fascino. Protagonista è il pianoforte mentre l'orchestra resta in secondo piano fino all'incantevole intervento del flauto che - a 2.53 dall'inizio - va ad accompagnare la voce dello strumento solista.
Un Ravel di assoluta bellezza che, al di là del suo brano più popolare - il celebre
"Bolero" - in questo concerto altrettanto famoso svela tutto il suo genio fatto ormai di superamente dello stile impressionistico nel segno di una grande modernità, ma anche di solide radici nella musica del passato. È lui stesso infatti a rivelare di essersi ispirato per questo "Adagio" a un delicatissimo brano di Mozart, il "Larghetto" dal "Quintetto K.581".

Il compositore però mi dovrà perdonare perchè io ci trovo anche altri riferimenti. Se ascoltate il pezzo più volte, altre musiche vi riecheggeranno in cuore: da un richiamo a Bach a 5.26 - quando il pianoforte si produce in un'incantevole serie di arabeschi accompagnando la melodia ripresa stavolta dal corno inglese - fino al ricordo lontano di un passaggio del terzo movimento della Nona sinfonia di Beethoven che affiora qua e là, soavissimo.
Note in taluni passaggi anche intensamente drammatiche, ma nell'esposizione del
tema sempre ricche della delicatezza del non detto, come un fiore rubato nottetempo, o quasi.

Buon ascolto!

venerdì 3 giugno 2022

L' azalea

Capita a volte che non ci accorgiamo subito di quello che ci accade, dei vari mutamenti talora anche minimi che avvengono nella nostra vita soprattutto nel quotidiano.
Pensiamo che cambiare sia
rivoluzionare totalmente la nostra esistenza, e invece tante cose si verificano pian piano, a piccoli passi, come in un orologio dove le lancette delle ore sembrano ferme, mentre in realtà si muovono. 

Un esempio. Ho sempre detto e ribadito che non ho il pollice verde, e invece mi sono resa conto che sto cambiando. Dev'essere iniziato per me un periodo - diciamo così - floreale, perchè la mia attenzione non è attirata solo dai fiori che vedo fuori casa, ma si è soffermata anche su di una bellissima azalea della quale, udite, udite!, mi sto occupando da qualche tempo.

L'ho ricevuta circa tre mesi fa, giorno più giorno meno, inclito dono di mio marito per il mio compleanno. Aveva una ricchissima chioma di fiori rosa e, fin dal primo momento, ho fatto del mio meglio perchè il suo splendore durasse a lungo. Per un mesetto e mezzo tutto bene, il che per me è già un traguardo.
Ma, giunta al culmine della fioritura, la pianta ha cominciato ad avvizzire, e
nonostante io abbia provveduto subito a togliere foglie e petali appassiti per farla respirare meglio, non è sbocciato più nulla di nuovo.

Dall'appartamento l'ho spostata allora in mansarda, da sempre sala di rianimazione del nostro verde. Ma le mie quotidiane attenzioni si sono rivelate inutili. Ai primi di maggio, nonostante lo scetticismo di mio marito che l'avrebbe abbandonata al suo destino, ho deciso che era meglio che stesse sul balcone all'aria aperta - la pianta, non mio marito! - e così l'ho rispostata, seguendo le indicazioni dei sacri testi di giardinaggio dove si dice che le azalee prediligono l'ombra, vogliono temperatura costante, ecc. ecc.

Qui ho ripreso la mia cura quotidiana, saggiando spesso l'umidità del terriccio e dosando opportunamente l'acqua col risultato che, da un rametto, sono nate timide foglie nuove che ho additato con orgoglio al consorte. ...Visto?
Ma quale non è stata la mia sorpresa quando, arrivata la prima vera ondata di caldo, la
vitalità dell'azalea è letteralmente esplosa con tenere foglie nuove un po' ovunque! ...Rivisto? La terapia stava funzionando!
Ma siccome i miei balconi sono esposti a est e a ovest, per garantirle la giusta
dose di ombra, bisogna metterla al mattino da un lato e al pomeriggio dall'altro, spostandola ogni mezza giornata.

Poi, la scorsa settimana in cui il termometro è sceso di parecchio e una sera è venuta anche la grandine, l'ho dovuta riportare in casa perchè non mi prendesse freddo; e si sa che gli sbalzi di temperatura sono micidiali per tutti, piante comprese!
Così le mie giornate sono regolate da un andirivieni a orario, da
balcone ovest a balcone est, o di stanza in stanza alla ricerca della posizione ideale: ora in soggiorno, ora in cucina ma lontano dai fornelli, e nelle giornate grigie anche nel bagno in mansarda che è più luminoso. Senza contare che, se piove, devo stare attenta che non si bagni troppo. Insomma, ho il mio da fare.

Per un trasporto più agevole, ho messo vaso e sottovaso in un largo cesto di vimini coi manici, col risultato che più volte al giorno sono in giro per la casa con questo ambaradan - scusate, ma non mi viene una parola più adatta! - sotto lo sguardo ineffabile di mio marito. Si vede bene che vorrebbe parlare e non osa, ma quando osa e fa dell'ironia, lo rimbecco prontamente dicendo che invece dovrebbe apprezzare l' attenzione che dimostro per il suo inclito dono.
Non vi pare?

Insomma, la pianta si è ripresa bene e da oggi, col ritorno del caldo, è di nuovo
sui balconi, ora ovest, ora est. Non la fotografo perchè è timida, un po' come una bella donna che non vuol farsi vedere senza trucco... però penso che il minimo che si possa fare sia dedicarle un bel brano di musica.

E dopo lunga e affannosa ricerca, sono approdata a Gioacchino Rossini (1792 - 1868) che ha sempre una serenità di fondo che risolleva l'animo e ben si adatta alla felicità della mia azalea in fase di rinascita.
Del compositore ho scelto il "Passo a sei" dal primo atto del "Guglielmo Tell", una celebre
danza dal ritmo leggero e dall'atmosfera all'inizio sommessa e talora quasi ammiccante. Dopo tre fragorosi accordi, si apre infatti un tema che disegna un andamento a piccoli passi e una sorta di andirivieni di note quasi furtivo. Segue poi una parte in cui s'intrecciano altri sviluppi e ritorna ancora il tema iniziale, ma con un crescendo di sonorità sempre più aperte, scintillanti e concitate fino all'esuberante finale, che ha la tipica felicità delle più famose creazioni rossiniane.

Dimenticavo. I sacri testi dicono anche che alle piante piace la musica classica e in genere prediligono Mozart, Haendel e Bach per una questione di vibrazioni e di frequenze. Di Rossini non si parla...ma farò giusto un esperimento con la mia azalea. Vi saprò dire.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)