martedì 30 marzo 2021

Prima o poi...

Non so più in quale angolo di web ho letto l'affermazione secondo la quale non dobbiamo vivere di ricordi, ma - al contrario - ricordarci di vivere.
Un piccolo gioco di parole - forse di Mafalda o
del nostro amico Snoopy o di chissà quanti altri - per sottolineare l'importanza di restare ancorati alla concretezza del presente, in un periodo in cui le limitazioni della pandemia possono indurci a un ripiegamento sul passato.

Sta di fatto che la frase mi è tornata in mente ieri, guardando per l'ennesima volta con desiderio inquieto la foto che il calendario della cucina mi propone in questo mese. L' immagine, nel suo splendore, mi porta infatti a rivivere la gioia di una gita a Pisa, un paio di anni fa.
Eppure, se da un lato il ritorno al passato è talora una
via di fuga dal presente in questi tempi difficili, dall'altro l'andare a scovare ricordi più o meno lontani lasciando che la loro intensità emotiva dilaghi in noi, può diventare un esercizio non puramente nostalgico, ma anche produttivo.

Mi viene in mente un consiglio della mia insegnante di lettere delle medie: quando in un tema non sapete più come andare avanti, rileggete ciò che avete scritto e dalle battute di quel discorso, prima o poi, affiorerà la continuazione.
Prima o poi...appunto! Mi verrebbe facile fare dell'ironia, mentre mi rivedo
bloccata davanti al foglio a rosicchiare il cappuccio della biro, gli occhi al soffitto dell'aula aspettando l'ispirazione dal cielo: rileggevo e al massimo aggiungevo una virgola - sono sempre stata prodiga in fatto di virgole! - ma dalla mia testa usciva ben poco.
Eppure il consiglio aveva in sè una saggezza che ho capito poi!

È il passato a custodire il germe del presente, il seme da cui
germoglierà la pianticella del nostro vivere: sono i cardini che abbiamo tratto dalle varie esperienze a fare da segnaletica indicando la strada. Tornare a noi stessi, dunque, per andare avanti, magari su di un sentiero un po' erto, ma nostro.

Allora oggi voglio rileggere il mio passato anche nella musica, inseguendo una delle mie prime e antiche passioncelle.
Ancora Bach, mi direte? Certo, e in un pezzo che anni fa mi ha fatto letteralmente perdere la testa non tanto per la difficoltà, ma per la sua bellezza! So quel dico perchè è stato suonicchiando proprio questo brano che ho sperimentato quanto la
musica possa dare dipendenza, un'incredibile, vertiginosa dipendenza!
Si tratta del "Preludio n.1 in Do maggiore BWV 870" che apre il II libro del
"Clavicembalo ben temperato". Ascoltandolo, ho sempre pensato che in esso si racchiuda l'espressione più compiuta e profonda dell'ispirazione del compositore, la sua essenza insomma!
Certo, sono stupende anche le sue celebri Toccate come pure numerose altre creazioni a cui mi sono appassionata in seguito; ma
per tanto tempo ho avuto la sensazione che in questo Preludio Bach - se così posso esprimermi - fosse ancora più Bach! O forse il motivo è che nel brano sono presenti tanti dei caratteri che il nostro immaginario gli attribuisce: il rigore matematico, il contrappunto, la costruzione polifonica e il ritmo.
Il pezzo è in Do maggiore, ma quanta varietà di modulazioni! Se dovessi paragonarlo a uno scritto, direi che ha una struttura sintattica complessa, ciceroniana, ricca
di frasi musicali che s'intrecciano in un procedere sempre molto scorrevole. Ma se fosse un discorso, sarebbe ora squillante e deciso, ora più sommesso e talora confidenziale: un dialogo serrato ma non privo di dolcezza in cui la voce si coniuga in mille inflessioni e sfumature.
Una musica simile anche a un fiume, meglio ancora a un ruscello: se ci fate caso,
infatti, fino alla fine non ci sono interruzioni, ma il brano è costruito con un continuo e calcolato flusso di note.

Fantasia creativa e rigore, ritmo ed energia sono dunque i caratteri che questo Preludio mi regala ancora a distanza di tempo e che l'interpretazione di Tatyana Nikolayeva mette splendidamente in luce.
Un Bach che ci rimane dentro, magari senza che ce ne accorgiamo, a lavorarci segretamente l'anima per farne affiorare -
prima o poi - nuovi germogli e nuove fioriture.

Buon ascolto!

(La clip audio, di seguito al Preludio, riporta anche la vivacissima Fuga. Ma di questa parleremo un'altra volta.)

 

martedì 23 marzo 2021

Primavere



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi siete mai chiesti quale opera d'arte amate al di sopra delle altre?
Quali versi conoscete a memoria per sentirveli risuonare dentro, che musica
ascoltereste all'infinito, o quale dipinto vorreste contemplare a lungo in una sera di tranquillità, affondando gli occhi e l'anima nei suoi colori?
Certo che ve lo sarete chiesto, ma spesso non esiste un'unica risposta un
po' perchè i nostri gusti possono variare di tempo in tempo, ma anche perchè l'arte ci offre tante e tali sollecitazioni che è difficile indicare un'opera sola.
In effetti anch'io - quanto alla musica - avrei più di un brano da citare, ma rinvio il
discorso a data da destinarsi perchè oggi desidero soffermarmi sulla pittura.

Negli anni, sono stati tanti i quadri che mi sarei portata a casa per gustarne lo splendore: da "Gondole in laguna" di Francesco Guardi, agli interni del danese Carl Holsøe, fino a un bozzetto di Francesco Bosso intitolato "A mattutino".
Ma, a pensarci bene, il dipinto che amo al di sopra di tutti c'è davvero e
l'ho scoperto tre anni fa a Londra, in un pomeriggio di pioggia e di pura felicità alla National Gallery.
È una celebre natura morta di Francisco de Zurbaràn (1598 - 1664), intitolata
"Tazza d'acqua e una rosa" e parte di una più ampia composizione poi tagliata, della quale a Londra è conservato solo un pezzo.
Da anni il dipinto mi affascinava - tanto che ne ho parlato in un post che potete
trovare qui - ma la mia passione è cresciuta ancora da quando l'ho potuto vedere dal vivo. Così poi sono andata in cerca di altre opere dell'artista spagnolo ed è il motivo per cui oggi torno a lui, sia pure con un quadro di altro genere.

Si tratta dell' "Annunciazione" conservata presso il Museo di Grenoble, peraltro non l'unica dedicata a questo tema. Del resto, le opere di argomento religioso sono molto più numerose di quelle profane, anche se è in queste ultime che - a mio modesto parere - il pittore raggiunge l'apice della sua arte.

Esponente di spicco del Seicento spagnolo insieme a Velasquez e a Murillo, Zurbaràn riflette nel suo stile quei contrasti luministici, quella libertà di ambientazione delle figure nello spazio e insieme quella fusione di misticismo e realismo che sono tratti tipici dell'arte barocca.

Ma osserviamo il dipinto.
Qui la scena non è più inquadrata tra le
mura circoscritte di una cella o di una stanzetta e quello che vediamo è un vano che, dietro i protagonisti, si apre all'esterno a somiglianza della quinta di un teatro. Particolare non secondario perchè - come si osserva anche in altre Annunciazioni dal Rinascimento in poi - proprio all'esterno, a quel mondo concreto fatto di case, strade e paesaggio, è destinato l'evento che qui si sta misteriosamente compiendo.

Ma a colpirmi è anche l'atteggiamento di Maria non in tutto simile - almeno così a me pare - a quello di altri dipinti sul tema.
Se infatti l'angelo nel suo panneggio
luminoso e mosso ha un'aria fanciullesca e insieme deferente, la Vergine - altrove schiva o quasi timorosa - qui ha invece un'espressione compresa, specchio di una consapevolezza tutta interiore.
Non ha la dolce ritrosìa di altre raffigurazioni, ma i suoi gesti sono misurati ed
eleganti: la destra aperta in segno di accoglienza e la sinistra sul seno quasi a custodire il corpo che vi nascerà. Il suo viso è assorto e mi sembra improntato alla serietà già matura di certe Madonne con Bambino che hanno un velo di mestizia al fondo dello sguardo, quasi prefigurando la morte del Figlio.

Ma vorrei sottolineare anche altri due particolari. Uno è - ai piedi della Vergine - il bellissimo cesto di vimini la cui tinta calda contrasta col candore della biancheria, offrendoci uno splendido esempio di natura morta forse ispirata alla pittura fiamminga. È un dettaglio che ricorre in diverse Annunciazioni - da Carracci a Tintoretto, da Tiziano a Rubens - e probabilmente sta a simboleggiare la futura maternità di Maria, le bende in cui sarà avvolto il piccolo Gesù, ma anche quelle che resteranno nel sepolcro vuoto dopo la Resurrezione.

L' altro - in realtà ben più di un semplice particolare - è nella parte alta del dipinto, in cielo. Tutta la corte celeste sembra infatti partecipare all'evento in un cerchio al centro del quale domina la colomba dello Spirito Santo. Un'iconografia comune a molte rappresentazioni barocche dove l'arcangelo Gabriele è accompagnato da uno stuolo di angioletti che si affacciano dalle nuvole, ora festosi, ora in atteggiamento di attesa quasi il tempo si fosse fermato aspettando il di Maria.
Una Maria consapevole - dicevo - come si legge anche in un versetto del
Magnificat: "quia respexit humilitatem ancillae suae", poichè ha guardato all'umiltà della sua serva. Certo, sono parole che si adattano più a un dipinto sulla Visitazione che non a questo, ma è il viso della Vergine a suggerirmele insieme al suo meditare le Scritture nel libro che ha davanti, cercando forse fin d'ora - come avverrà in seguito - di mettere insieme i pezzi della sua vita.

Così, per passare alla musica, ho associato al dipinto proprio il "Quia respexit" dal "Magnificat in Re maggiore BWV 243" di Bach.
Si tratta di un dolcissimo Adagio nel quale la voce del soprano è accompagnata da
oboe, cello e clavicembalo, e che mi ha colpito per un motivo particolare.
L' aria iniziale presenta una straordinaria somiglianza con le note del coro conclusivo della
"Passione secondo Matteo" e la cosa mi sembra significativa in relazione al senso profondo che Bach attribuisce all'itinerario non solo musicale, ma anche spirituale delle sue opere. Se poi teniamo conto che la grandiosa Passione è stata composta circa sei anni prima della versione definitiva del Magnificat, cogliamo il fatto che in esso il compositore ha già presente non solo l'inizio, ma l'intera parabola della vita di Cristo.

E mi piace pubblicare musica e immagini che preludono a una nascita proprio in questi giorni che parlano di primavera: da quella astronomica appena iniziata, alla festa dell' Annunciazione del prossimo 25 marzo che, nel concepimento di Cristo, vede la primavera di tutta la creazione.
Dimenticavo...ma se ci fate caso, ve ne accorgerete facilmente: anche la solista nel
video aspetta un bambino!

Buon ascolto!

 

lunedì 15 marzo 2021

Immediatezza

C'è talora, nei nostri comportamenti, una immediatezza che a prima vista può sembrare spontaneità, ma che - a ben guardare - non sempre lo è.
A volte è solo fretta, o quella noncuranza
che ci fa dire la prima parola che ci passa per la testa, magari senza troppa convinzione.
O ancora può essere il bisogno di
nasconderci dietro un'immagine diversa dalla realtà.

Ma c'è al contrario un' immediatezza rara come un miracolo nella quale si percepisce - e ce ne accorgiamo subito - che parole, azioni, gesti della persona che abbiamo davanti sono una cosa sola, in profonda unità con tutto il suo essere. È una forma di semplicità, una sorridente effusione del profondo, una trasparenza del cuore simile a quella dei bambini quando ancora non si sono conformati al mondo degli adulti. Immediatezza - del resto - significa che ciò che siamo arriva agli altri senza mediazioni, senza il filtro di condizionamenti, difese o paure. Siamo noi e siamo liberi.

Tuttavia non è facile che ciò si realizzi sempre. È una conquista del tempo far sì che i ruoli ricoperti sul lavoro o nelle diverse relazioni non siano corazze di cui ci si riveste o costumi di cui ci si ammanta, e che il sorriso non sia un elegante schermo dal giudizio degli altri, ma un moto del cuore capace di rispecchiare la nostra verità.
Dico un sorriso, ma vale per qualunque altro gesto. La vera spontaneità è
mancanza di artificio e si fa strada man mano che riusciamo ricondurre ad unità ciò che facciamo con ciò che siamo. Ma se da un lato essa è il risultato del tempo che passa, dall'altro può essere anche frutto di esperienze dolorose che scavano in noi facendo affiorare la nostra dimensione più autentica.

Pensavo a questo giorni fa, ascoltando Mozart.
Credo che la musica abbia molto a che fare con quel processo che porta a risvegliare tale autenticità liberando la verità di noi stessi. E se ciò vale per chi l'ascolta, vale
 a maggior ragione per chi la scrive.
Creare infatti un'opera realmente ispirata, che non sia soltanto un piacevole esercizio di stile, è sempre frutto di una fusione tra musica e vita in cui il compositore si è messo in gioco con la propria interiorità.
In questo caso, non è raro che l'immediatezza comunicativa di
certi brani, anche quando ha un'apparenza di magica semplicità, affondi le radici in un vissuto talora complesso o addirittura doloroso, come vari compositori ci testimoniano nella loro storia. Sono sofferenze che, in taluni casi, hanno affinato la loro arte facendo scaturire dal dolore opere straordinariamente toccanti. 
Ricordiamo - solo a titolo di esempio - la sordità di Beethoven e il suo Inno alla gioia, e così pure l' Hallelujah di Haendel nato dopo un periodo di depressione! 
L' elenco potrebbe continuare con altri artisti anche in ambito poetico e pittorico. Ma restiamo in campo musicale.

Ci pensavo - scrivevo prima - ascoltando Mozart e in particolare il primo movimento della "Sinfonia concertante in Mi bemolle maggiore K.364 per violino, viola e orchestra".
Il brano è stato scritto nel 1779, quando il compositore aveva ventitre anni e già
la sua produzione di ragazzo prodigio annoverava pezzi di rara bellezza.
Eppure, questo segna una sorta di spartiacque tra lo stile galante in voga all'epoca e
un'ispirazione di più profondo spessore. Già l'espressione Sinfonia concertante indica una fase di passaggio tra generi musicali. Il pezzo si snoda infatti in tre tempi e prevede strumenti solisti come un concerto, ma nel dialogo molto articolato tra questi e l'orchestra rivela un ampio respiro sinfonico. 

È un Mozart musicalmente più maturo, ma anche umanamente provato.
La composizione nasce dopo un viaggio in Europa durato sedici mesi, in cui
il musicista viene a contatto con ambienti dai quali non è apprezzato come forse si aspetterebbe o come quando - anni prima - aveva compiuto un viaggio simile col padre Leopold. Allora, era un bimbino scarrozzato in giro per le corti, e suonare davanti a principi e principesse poteva anche diventare un gioco dal sapore avventuroso. Ora invece, se il contatto con la musica tedesca gli offre interessanti spunti stilistici, il suo desiderio di trovare uno sbocco professionale viene accolto con freddezza.
Ma sono soprattutto due grandi dolori a segnare questo periodo: la morte della
madre che lo accompagnava, mentre si trovavano a Parigi, e una cocente delusione amorosa. Possiamo intuire quindi lo smarrimento del giovane e la sua solitudine, accresciuta - al ritorno - dalla necessità di far coesistere l'esuberanza del proprio genio musicale con l'angustia dell'ambiente salisburghese.
Eppure...
Eppure, è come se dalla ferita aperta di queste sofferenze sgorgasse poi
un'ispirazione più profonda. E se è vero che i Concerti per violino scritti a diciannove anni sono già pagine di compiuto splendore, con la Sinfonia concertante si apre un'altra stagione, segnata dalla ricerca della luce ma al tempo stesso dalla consapevolezza dell'ombra. Lo dimostra il secondo tempo della composizione, tra l'altro il più celebre: un Andante pervaso di intensa malinconia nella cupa tonalità di do minore

Ma, in realtà, tutta la Sinfonia concertante è frutto di un più intenso coinvolgimento espressivo. A guidare qui Mozart non è solo la felicità compositiva del fanciullo prodigio, ma una consapevolezza che gli consente di inabissarsi nella musica alla ricerca di una luce più autentica, dove realizzare la propria aspirazione a una pienezza interiore.
Ecco perchè vi propongo il primo tempo: un "Allegro maestoso" limpido e insieme complesso
, ricco di luminosa vitalità, ma non privo di modulazioni in tono minore e di passaggi che ci affascinano proprio per la loro immediatezza.
Lo testimoniano l'intenso e fremente crescendo orchestrale che precede l'esordio dei due solisti, e
che - a mio modesto avviso - anticipa certi passaggi del Beethoven della Pastorale; poi il dialogo tra la voce acuta del violino e quella più calda e scura della viola; ma soprattutto il tema che si sviluppa a 4.08 dall'inizio, dove le note spiccate del violino ci regalano un' impagabile freschezza comunicativa.
Una comunicazione che - come le campanule della foto, fiorite tra le rocce
- si fa più sorprendente e luminosa. Un' immediatezza che Mozart ci offre qui con la magìa del suo sguardo che sa ricondurre a splendida sintesi le alterne vicende della nostra esistenza.

Buon ascolto! 

(La clip video riporta solo i primi sette muniti del brano. Trovate qui il seguito: https://www.youtube.com/watch?v=ld4vTCcjOME&t=0s )

 

domenica 7 marzo 2021

In cerca di leggerezza - 3

J.Vermeer (1632 - 1675): "Stradina di Delft"  Rijskmuseum - Amsterdam

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Può abitare la leggerezza nei ricordi? Può nascere da quei vaghi pensieri che talora ci riportano indietro negli anni a momenti di improvvisa, sorprendente felicità?
Io credo di sì perchè certe esperienze passate persistono in noi al di là della
semplice nostalgia o di una malinconica percezione di vuoto. Esse infatti ci nutrono anche in tempi difficili con una sorta di linfa vitale che rende presente la gioia o lo stupore provati di fronte alla bellezza. E proprio tale stupore - in un periodo come questo in cui movimenti e contatti sono spesso bloccati - può essere rigenerante perchè ciò che abbiamo vissuto è ormai parte di noi.

Ma perchè pubblico un dipinto di uno dei più rappresentativi pittori olandesi del Seicento come Jan Vermeer ? E per quale motivo lo collego alla leggerezza?
Un po' di pazienza e andiamo a scoprirlo.

L'opera che vedete s'intitola "Stradina di Delft" ed è una delle poche raffigurazioni di paesaggio - forse solo due - create dall'artista e pervenute fino a noi. Lo ricordiamo infatti più che altro come pittore di interni dei quali ha riprodotto con rara efficacia l'atmosfera pacata e silenziosa.
Tutti conosciamo quelle stanze di
un mondo borghese in cui protagoniste sono - nella maggioranza dei casi - giovani donne che leggono, ricamano, suonano uno strumento, o si dedicano a vari lavori domestici.
E l'attenzione ai dettagli, sottolineata dall'
uso sapiente della luce e insieme del colore, rende unico e incomparabile il fascino di tali dipinti.

Così anche qui, benchè ci troviamo in un esterno, Vermeer recupera quei tratti di ambiente che vediamo nei particolari e che sono squarci della vita quotidiana del suo tempo. Osserviamo la donna intenta a cucire sulla soglia di casa: l'artista non ne ha individuato con chiarezza i lineamenti, eppure tutto, dalla testa lievemente china alle mani, ci parla della sua pacata concentrazione.
E un senso di pace promana anche dal contrasto tra il bianco e lo scuro, messo in rilievo
dal tocco di vivacità dell'anta rossa della finestra.

Così pure, anche nel secondo particolare, la figuretta forse intenta a lavare nel cortile e le due bambine che giocano sotto una panca sono ferme, fissate nel loro atteggiamento che accresce la quiete serena della rappresentazione.
Piccoli dettagli che cogliamo subito perchè
incorniciati dall'intonaco chiaro del muro,  ma che, senza quel tocco che dà loro risalto, si perderebbero in rapporto alle architetture e al cielo che occupano invece buona parte dello spazio pittorico.

Sono architetture tipicamente nordiche - siamo in Olanda - caratterizzate da case dai tetti spioventi, frontoni dalle cornici sagomate, vetri legati a piombo, ma soprattutto dall'uso del cotto che sostituiva comunemente la pietra. Ciò conferisce a tali edifici una colorazione calda e scura che, in questo dipinto, contrasta con il cielo animato da nuvole, come capita spesso di vedere nei paesi del nord Europa soprattutto non lontano dal mare.

Un insieme severo nei colori e nella sua ordinatissima iconografia, ma capace di catturare la nostra attenzione anche con la bellezza degli incastri della muratura, nella parte sinistra del quadro.
Qui, i vari tetti spioventi individuano la
prospettiva e - insieme all'apertura in basso verso il cortile - fanno intuire la presenza di quegli stretti corridoi tra le case tipici delle città anseatiche, che correvano dietro le dimore padronali per aprirsi su orti e abitazioni più piccole e più modeste. 

È lo splendore di uno stile architettonico del passato, frutto di ispirazioni artistiche ma anche di esigenze climatiche ed economiche, e che ancora oggi possiamo osservare nei quartieri più antichi di alcune città europee. Uno stile che mi ha sempre affascinato per la sua marcata diversità dalle costruzioni di altri luoghi meno settentrionali e più mediterranei come per esempio l'Italia.

Ma perchè tutto questo discorsino? Per spiegarvelo, devo fare un passo indietro. Anni fa, mi sono recata in Belgio con un viaggio organizzato e - tra le varie località - ho visitato Lovanio, splendida e vivace cittadina universitaria.
Confesso che a volte, se ho in mente di
vedere un monumento non inserito nel programma di viaggio - dopo aver informato la guida perchè non mi dia per dispersa - mi allontano dal gruppo. Ma a Lovanio era stato lo stesso accompagnatore a consigliarci - se ci fosse rimasto tempo libero nella pausa pranzo - di andare a vedere il "béguinage", quartiere tipico dei paesi fiamminghi che, un tempo, ospitava comunità di donne che, pur non prendendo i voti, si dedicavano alla preghiera e ad opere di bene. La guida inoltre ne aveva parlato con spiccato interesse, quindi...
Quindi non me lo ero fatto dire due volte. Pranzo? Ristorante? Macchè!
Memore di certi viaggi fatti in gioventù con una carissima amica con la quale sfruttavamo anche la pausa pranzo per visitare monumenti e piazze sbocconcellando allegramente un panino per strada, ho fatto la stessa cosa.
Il tempo era poco, la cartina topografica approssimativa e, non sapendo con
esattezza la distanza del quartiere dal centro, andavo come il vento.

Dico la verità, il panorama non era gran che. Fuori dal centro storico di Lovanio, ricco di splendidi edifici in stile gotico fiorito, le strade erano anonime e per di più trafficate.
Ma, cammina cammina proprio come nelle
favole, a un certo punto ho preso una via laterale e dopo qualche decina di metri, il paesaggio è cambiato: la strada scendeva piano oltrepassando un canale, muri di mattoni rossi circondavano la zona, in alto del verde, a terra un acciottolato antico e improvvisamente...mi sono trovata dentro un quadro di Vermeer!

Sì, proprio dentro!!! Non in un museo ad ammirarne i dipinti, ma in un luogo che mi offriva la sensazione di essere immersa nell'ambiente creato dall'artista nelle sue opere e di respirarne l'atmosfera. Avevo l'impressione di guardare muri, finestre, colori, cielo e nuvole di quel mondo con gli occhi di chi lo aveva rappresentato rendendolo vivo per sempre. E per di più in un'oasi di silenzio.
Ero forse la sola turista in giro a quell'ora e le casette del quartiere - adibite ormai a pensionato per studenti - erano vuote perchè era agosto; ma questo accresceva la quiete e la sensazione di essere in un luogo sospeso tra passato e presente.
Allora, avevo cercato di calmare cuore e
respiro per godermi il poco tempo disponibile tra quei vicoli come fossi all'interno di un prezioso spazio di contemplazione.

Certo era Belgio, non Olanda! Lovanio, non Delft!
Ma l'ambiente era simile e la sensazione
di rivivere uno splendore antico era stata talmente intensa che ero tornata poi piena di gioia all'appuntamento con miei compagni di viaggio.

Così, quando oggi osservo la "Stradina di
Delft", mi basta uno sguardo per rinverdire in me lo stupore di una giornata di tante estati fa, a Lovanio.
E per lo stesso motivo vi regalo qui anche tre delle foto che ho scattato allora.
Forse non sono le più rappresentative de
l quartiere, ma a mio avviso restano le più somiglianti alle atmosfere create da Vermeer, e ricche per me di una gioiosa leggerezza che ancora oggi mi sorride.

E all'intensità viva di questo ricordo oggi mi piace associare un brano di Chopin: il "Preludio in La bemolle maggiore op.28 n.17".
Il pezzo fa parte della serie dei 24 preludi
scritti dal musicista polacco per ogni tonalità musicale, a somiglianza dei celeberrimi brani del "Clavicembalo ben temperato" di Bach. Tuttavia, Chopin non fa seguire ad essi la relativa fuga, ma crea delle composizioni autonome che non hanno funzione introduttiva come è nel significato del termine preludio.
Il tema del pezzo si apre subito in un clima di luminosa leggerezza, quasi le note
ci pervadessero con un senso di gioiosa sorpresa. E se poi la melodia diviene in taluni passaggi più ombrosa e veemente, ciò non fa che conferirle spessore, come possiamo cogliere dall' interpretazione che ho scelto e che ne sottolinea opportunamente le varie dinamiche.
Il suo andamento - un Allegretto - mi sembra simile a certi ricordi che ci afferrano prima con
dolcezza e poi con crescente intensità, mentre la nota di fondo - un La basso più volte ripetuto nella seconda parte - sembra creare una continuità tra i vari momenti restituendocene, più che mai viva, la luce.

Buon ascolto!