martedì 28 gennaio 2014

"Winter n.1"

Tra gli autori che hanno segnato la storia dell'arte del Novecento, mi ha sempre affascinato William Congdon, pittore nato negli Stati Uniti nel 1912 e morto nel 1998 proprio in Italia.
L'amore per il nostro paese lo ha portato infatti a trasferirvisi a partire dagli anni Cinquanta e a stabilirsi prima a Venezia, poi ad Assisi - periodo coinciso con la sua conversione al cattolicesimo - e infine nella campagna milanese.

Dopo gli esordi nel 1940 come scultore, Congdon aderisce a New York alla corrente pittorica dell' "action painting" - detta anche "espressionismo astratto" - della quale esponente di spicco è il suo contemporaneo Pollock, e tuttavia matura poi nel corso degli anni uno stile più personale.
Il suo è in un primo tempo un dipingere a colpi di spatola larga sopra uno schizzo essenziale, con un impasto di colori denso e materico quasi il quadro debba essere frutto di uno scavo e di un'incisione. In seguito, questo carattere si attutisce, l'immagine si affida sempre più alle masse di colore in un progressivo avviarsi verso l'astrattismo, fino alle ultime opere che, per la loro essenzialità, possono avvicinare l'artista a Mondrian o a Rothko.

Tra i suoi dipinti, amo in particolare quelli dedicati a Venezia - una delle tante città oggetto dei suoi quadri - e la serie dei tormentati e drammatici Crocifissi. Ma l'opera che più di altre trovo interessante è "Winter n.1", una creazione del 1950 conservata a Milano in una collezione privata.

E' una selva di alberi scheletrici quella che ci si presenta: tronchi sottili e spogli che formano quasi una cortina, un reticolato al di là del quale s'intravvede una piana o un più probabile corso d'acqua. 
Un accenno forse di centri abitati sulla riva opposta e il profilo scuro delle colline sotto una striscia di cielo, chiaro all'inizio e poi occupato da nubi sempre più cupe e fosche. Di lato, una luna bicolore, fredda e spettrale.
Certo un panorama invernale, ma quelle che abbiamo davanti sono anche tre fasce orizzontali di colore in tonalità digradanti, preludio alle successive rappresentazioni che avranno accenti molto meno figurativi e forme più essenziali.

Trovo "Winter n.1" affascinante e angoscioso ad un tempo: affascinante per l'intensa suggestione coloristica e per quanto di visionario ci fa intuire al di là degli alberi; angoscioso perchè gli alberi stessi, nella loro ripetizione e nel tratto rapido con cui sono delineati, possono evocare innumerevoli fantasmi. Dalle sbarre di una prigione a una cortina di filo spinato fino ad esili figure umane che possiamo solo intuire, Congdon ci lascia spaziare con la fantasia. 

Così pure, attraverso l'intrico di rami leggero e talora quasi evanescente, s'intravvedono tronchi che possono sembrare lontani piloni di un ponte, ciminiere, ma pure crocifissi, anche se non è essenziale riconoscere gli oggetti rappresentati, proprio per quella dimensione visionaria da cui il dipinto nasce. 

E tuttavia - nonostante l'opera s'intitoli semplicemente "Winter n.1" (inverno) - mi pare che questo paesaggio ci consenta di cogliere anche l'immagine di un'umanità ferita e forse di percepire la sofferenza con la quale l'artista era venuto a contatto arrivando in Europa durante la seconda guerra mondiale ed entrando, fra altro, tra i primi soccorritori nel campo di concentramento di Bergen Belsen. 
Un dipinto fortemente evocativo quindi, che - dal cielo minaccioso e incombente a quei tronchi dai quali sembra levarsi una muta invocazione - può parlare di tragedia, quasi un riflesso della realtà devastante della quale Congdon era stato testimone qualche anno prima. 
Forse un implicito ricordo della Shoah, ed è un altro motivo che mi ha spinto a condividerlo qui oggi. E anche se la "Giornata della memoria" si è ufficialmente celebrata ieri, in realtà lo è oggi e sempre, da quando certe immagini sono rimaste impresse negli occhi, in un filmato, sulla tela di un quadro o nell'anima. 

E a commento dell'opera di Congdon, un brano di Bach: la "Sonatina" iniziale della "Cantata BWV 106" conosciuta col titolo di "Actus tragicus". Si tratta di un pezzo famoso che molti ricorderanno come parte della colonna sonora del film "Accattone" di Pier Paolo Pasolini, regista che ha spesso e sapientemente usato la musica di Bach per le sue pellicole. 
L'altezza sublime e la sacralità delle note del compositore tedesco, infatti, sembrano un vero e proprio sguardo dall'Alto, capace di posarsi sull'abisso delle miserie umane con infinita pietà, chiedendo incessantemente salvezza.

Buon ascolto!
 

venerdì 24 gennaio 2014

Una musica costante

A qualche giorno di distanza dalla scomparsa del Maestro Claudio Abbado, desidero ricordarlo da queste righe, mettendomi idealmente in fila come fossi una dei tanti che, a Bologna, si sono incamminati verso la Basilica di Santo Stefano per rendergli omaggio.
Una grande folla di persone unite dal dolore per la sua morte, ma certo anche animate da profonda gratitudine per quanto Abbado ha dato a tutti indistintamente, in termini di ricerca rigorosa e di passione.

Non sta a me citare qui tappe ed eventi della sua vita come altri hanno giustamente fatto con titolo e competenza, ricordando le numerose iniziative di cui il Maestro è stato promotore nel suo inesausto desiderio di condivisione dello splendore della musica.
Tuttavia, mi piace sottolineare un aspetto ribadito in diversi articoli e testimonianze, uno dei frutti che la consuetudine col mondo delle note produce e che arricchisce anche sul piano umano. Musica e umanità, infatti, non si possono disgiungere e - quasi sempre - in coloro che essa chiama e ai quali chiede dedizione totale, alla passione musicale si affianca una rara finezza interiore. 
Parlo della capacità di ascoltare cui Abbado ha fatto più volte riferimento mettendo in luce l'importanza e la bellezza di un ascolto autentico come dote primaria ed essenziale, ineliminabile premessa per ogni tipo di dialogo. 
Lo hanno ricordato gli allievi delle sue varie orchestre, ma anche lo stesso Abbado con queste parole:

"Far musica assieme è la mia passione, ma è anche importante sapersi ascoltare. Ascoltarsi collettivamente è una grande lezione reciproca che dovrebbe essere seguita a tutti i livelli. È una lezione di vita."
  E ancora:
"Per me l'ascolto non è soltanto un concetto musicale; Elias Canetti, uno degli autori che stimo, scrisse d'essere rimasto commosso dopo avere incontrato una persona che lo aveva ascoltato con attenzione."

Verità profonda e in fondo semplicissima, che affonda le radici nel rispetto per gli altri e nella capacità di far loro spazio in una dimensione di reale accoglienza.
E a questo proposito, mi viene in mente quello splendido romanzo dello scrittore indiano Vikram Seth che è "Una musica costante" nel quale - al di là dei diversi piani su cui si snoda la narrazione - emerge coniugato in vari modi proprio il tema dell'ascolto. 
Vi affiora nella sua dimensione strettamente fisica - si narra infatti di una pianista che perde progressivamente l'udito - ma soprattutto come attenzione interiore, ricerca, capacità di sintonizzarsi con un compositore, una partitura, con i propri strumenti e le persone insieme alle quali si esegue un brano.
Ma, oltre alle numerose citazioni musicali, nel romanzo si coglie anche quella profondità di ascolto che porta a sentire tutta la vita come il fluire di una musica costante, armonia che risuona in ciascuno di noi fino a dominare l'esistenza, dando progressivamente forma alle scelte e ai rapporti umani che ne conseguono. 

Proprio questo senso di dedizione esigentissima e totale, ma anche di gioiosa apertura alla condivisione è ciò che mi comunica la figura del Maestro Abbado. Possiamo osservarne alcuni tratti nel seguente video in cui dirige il famosissimo "Adagietto" della "Sinfonia n.5 in do diesis minore" di Gustav Mahler, uno dei compositori da lui più amati. 
Una direzione rigorosa e intensa, attentissima e misurata, trascinante e dolce, come l'espressione leggera e un po' schiva del suo sorriso.

Grandissima lezione, Maestro, che non finisce con i tuoi ottant'anni, ma continua nei nostri cuori!

Buon ascolto!

sabato 18 gennaio 2014

"Follow you"

E' sera. 
Spengo il computer e mentre aspetto che tutte le operazioni di chiusura siano completate, osservo la foto che da tempo fa da sfondo al desktop e riproduce un'immagine invernale della Valnontey, col sentiero innevato che s'inoltra verso il Gran Paradiso.
L'ho scattata qualche anno fa e non è gran che come inquadratura, lo riconosco. Ma sullo schermo del computer dove - dietro le icone colorate dei programmi - compare in grande, mi dispiega davanti un cammino proprio ad altezza di sguardo e posso illudermi di proseguire dalla mia scrivania su su fino in fondo a quella pedonale di neve già battuta, mentre la visuale e il respiro progressivamente si allargano. 

Le foto in realtà servono a questo, a regalarci un percorso che dal quotidiano ci aiuti a spaziare oltre, nell'infinito che sta fuori o in fondo al nostro cuore. Sono ricordi che camminano con noi talora scavandoci dentro, altre volte restituendoci prospettive forse dimenticate.
Questa, in particolare, mi riporta a un panorama che mi è caro perchè ha profonda corrispondenza con un luogo interiore in cui ritrovo di me la parte più vera. Può accadere, tuttavia, che quel luogo - spazio sacro che ci fa noi stessi - sia insidiato o la via per arrivarci si disperda in mille sentieri fuorvianti. Allora è bello, ogni tanto, tornare a un'immagine, un paesaggio, un dipinto, o una musica che ne facciano riaffiorare nitidamente la fisionomia e ce lo restituiscano intatto.

Così, oggi desidero condividere qui un brano di Giovanni Allevi dal cd "Joy" (2006) e dal titolo a questo riguardo significativo: "Follow you".  
Si tratta di un pezzo di grande delicatezza, una melodia romantica segnata da accenti di malinconia, ma anche da aperture di luminosità in cui avvertiamo tutto il fascino del pianoforte solo.
Il continuo alternarsi della tonalità di fa maggiore col suggestivo fa minore e la dolcezza di certi passaggi reiterati con levità ma al tempo stesso con crescente passione, ci riportano infatti a quella dimensione intima in cui possiamo ritrovarci e riconoscerci. Ed è un ritrovarsi pacato quello suggerito da queste note, simile a un filo che si dipana con semplicità, attraverso nitidi arpeggi e sonorità che si accendono con forza per poi sfumare in modo più sommesso.
E parlando proprio dell'impulso che ha dato origine a questo brano, lo stesso Allevi ha dichiarato in un'intervista: Voglio pensare che ogni singola persona valga più di ogni altra cosa, e che i suoi sogni, le sue paure e incertezze siano sacri, che vadano protetti e mai giudicati”. 

Seguire se stessi e i propri sogni, dunque, certi della vita che ci anima come linfa che continua a scorrere sotto il manto di neve e di gelo invernale. Certi che abita in noi uno splendore nascosto, come su questi monti che si caricano di bellezza anche là dove nessun occhio umano giunge a contemplarla.
Ma le note di Allevi ci suggeriscono che può farlo il cuore, in segreto, 
nell'attesa di un disgelo ricco di acque, a primavera.  

Buon ascolto!

 

sabato 11 gennaio 2014

Attendere

Leggo su "Sette" - allegato del "Corriere della Sera" di ieri - un articolo di Roberto Cotroneo che, come per il passato, all'interno della rubrica "Blowin' in The Web" analizza le conseguenze dell'uso della rete sulla nostra vita individuandone aspetti negativi o contraddizioni.
Mi è capitato di dirlo anche altrove: non ho mai demonizzato la realtà virtuale perchè, sulla base della mia piccola esperienza, ritengo che - al di là dei tanti suoi limiti - consenta comunque uno spazio di verità e di concretezza ai rapporti che vi si instaurano. 
Tuttavia, non posso non essere d'accordo con Cotroneo quando afferma, tra l'altro, che uno dei danni provocati dalla comunicazione via web - tramite posta elettronica, social network e tutti quei mezzi che ci consentono contatti più veloci - è l'averci resi incapaci di attendere.
Se infatti è indubbiamente un vantaggio la possibilità di comunicare con altri in tempo reale, non lo è altrettanto l'abitudine a pretendere ormai riscontri immediati al punto che, talora, il ritardo della risposta a una mail o a un qualunque commento è fonte d'impazienza se non addirittura d'inquietudine.
Viviamo l'attesa quasi fosse un tempo insensato e non invece uno spazio naturale con una sua ragion d'essere, come l'aria o il respiro tra un evento e l'altro. Scrive a questo proposito Cotroneo:

"...il tempo dell'attesa è un tempo importante perchè genera altri spazi, pensieri, induce ai cambiamenti, corre con il mondo."

E ancora:

 "L'attesa è libertà ed è rispetto. L'attesa non è un vuoto incolmabile, un segnale di disattenzione o d'indifferenza, ma è una passeggiata lunga e silenziosa che rimette a posto i tasselli di quanto hai scritto, e che ti permette di immaginare che risposta potrai ricevere, e in che modo." 

Sì, attendere è proprio lasciare spazio a noi stessi e agli altri, porre una distanza che spesso, lungi dall'allontanare o dal creare un vuoto, si riempie di uno spessore inusitato. E' lo spessore del silenzio, del trattenere dentro di noi parole e sentimenti per assaporarne il senso, avvertirne il fremito o talora anche per lasciarli decantare quel tanto necessario. Farli vivere, insomma, aprendo il campo all'immaginazione e alla fantasia, sia pure con i loro margini sfrangiati di timore e desiderio, d'incertezza e di sogno.

Per carità, un messaggio importante che giunge tempestivo ci riempie giustamente di sollievo e si carica del colore della gioia; ma il tempo dell'attesa prolunga la speranza e si arricchisce di tutti i colori dell'arcobaleno.
E' infatti il tempo della nostra interiorità, più simile a quello della natura che dà fiori e frutti alla sua stagione e non prima, se non è forzata dall'uomo.  
Ma è anche un tempo col quale oggi tanti ritmi esterni non sono più in sintonia nè in sincronia. 

Tuttavia credo che, ancora una volta, la salvezza o comunque la possibilità di limitare i danni di questa situazione stia nell'arte. Essa, infatti, in ogni sua forma, proprio per il tipo di fruizione che richiede e che va a toccarci nel profondo, può rivitalizzare il cuore restituendogli una più ricca capacità di comunicazione.
In particolare, la musica o il canto o la danza, costruiti come sono su regole e strutture ben precise, sono essenziali per cogliere il valore dell'ascolto e della giusta distanza che deve intercorrere tra i suoni, le parole o i gesti perchè possano dialogare. Ci offrono infatti un'educazione all'attesa, una comprensione del fondamentale ruolo che in questo campo - ma non solo! - rivestono intervalli, pause e silenzi. E ci sollecitano a rispettare ritmi e tempi, a percepire lo splendore di ogni singola nota o di un attacco orchestrale al momento opportuno cogliendone la sostanziale armonia, che è poi quella della vita intera.

Per questo, oggi ho scelto un brano di Tchaikovsky che, col suo uniforme ritmo di "barcarola", ci riporta a un respiro più lento e a un'apertura meditativa.
Si tratta di "Giugno", tratto da "Le stagioni op.37", raccolta di 12 pezzi per pianoforte dedicati ai mesi dell'anno. 
Il brano - lo so, anacronistico in pieno gennaio! - è in realtà uno dei più pacati e forse anche uno dei più eseguiti dell'intera op.37. 
Tra l'altro, è stato inserito da Fabrizio De André - e mi piace ricordarlo proprio oggi, nel quindicesimo anniversario della sua morte - nell'album  "Le nuvole" dove lo si ritrova due volte come intermezzo, in particolare alla fine di "Ottocento" e prima de "La domenica delle salme".
E' un Tchaikovsky dolce e malinconico che - se si esclude la parentesi più animata e vivace della parte centrale - ci conduce in un'atmosfera di profonda quiete: un "Andante cantabile" da gustare senza alcuna fretta, ma abbandonandosi al suo calmo respiro di pace.

Buon ascolto!

domenica 5 gennaio 2014

Prima pagina


Ricordate i quaderni delle scuole elementari? E anche quelli delle medie?.... 
Da bambina, avevo l'abitudine - e con me tanti miei compagni - di lasciare in bianco la prima pagina per scrivervi in bella grafia, ben chiaro al centro, il nome della materia, magari colorato, abbellendolo con un disegnino o una cornice di fiori e di svolazzi decorativi. 
Era la prima pagina, il segno di un inizio che a tutti i bambini piace sempre celebrare come un rito: come il primo giorno di scuola, o di vacanza, il quaderno nuovo, le matite nuove, la cartella e via dicendo. Ed era bello rispettare quella ritualità, anche se si componeva di molti altri elementi tra i quali tanti buoni propositi di ordine o di studio che poi spesso venivano disattesi.... 

L'abitudine di abbellire la prima pagina di un quaderno durava fino alle soglie delle superiori, poi basta. Poi subentrava un maggior senso pratico e non ci si perdeva più in certe decorazioni considerate ormai infantili.
Ma il fascino del primo giorno di un tempo nuovo che si dispiega davanti a noi, la gioia di un inizio da non lasciare al caso, ma segnare con un particolare tratto distintivo che ne sottolinei la novità, non mi ha mai abbandonato.

Così, anche per questo blog, mi sono chiesta con quale immagine augurale sarebbe stato bello aprire il primo post del 2014, e dopo qualche momento d'incertezza, a un tratto ho deciso d'impulso: il Paradiso!!!....
....Sì, proprio il Paradiso: quello dipinto dal Beato Angelico (1395 - 1455), nel dettaglio che vedete, tratto dal "Giudizio universale" conservato a Firenze al Museo di S.Marco. E per l'occasione, sono anche riuscita a trovare una foto che, finalmente, pur postata in dimensione extralarge non sforasse dalla pagina coprendo tutto il resto...evvai!!!

E allora Buon Anno davvero con quest'immagine che ci parla di leggiadria e di splendore!
Lasciamoci condurre nel giardino lussureggiante che l'Angelico ha sognato per noi, accostiamoci piano al dolce ed elegante girotondo di angeli e beati, entriamo silenziosamente nel cerchio della loro lievissima danza e uniamoci alla loro conversazione pacata e gioiosa!
Ci avvolgono colori smaltati in una rappresentazione di grande finezza, mentre la luce dorata del Paradiso che piove dall'alto delle mura della città celeste, sembra letteralmente assorbire chi vi sta entrando.

Riempiamoci gli occhi e l'anima di questo verdissimo Eden ricco di pace, uscito dalla fantasia pittorica dell'Angelico che, per quanto abbia immaginato il mistero in termini squisitamente terreni - e come avrebbe potuto fare altrimenti? - ci ha regalato una prospettiva di raffinatissimo splendore nel segno di una bellezza che viene dall'Alto e sulla quale sembra invitarci a fissare lo sguardo.

E per accompagnare la leggiadria di quest'immagine, mi sembra particolarmente adatto un brano - forse il più famoso - di John Rutter, organista e compositore inglese classe 1945. 
Si tratta di "The Lord bless you and keep you", canto in cui le note di Rutter danno vita al celebre testo biblico della benedizione sacerdotale contenuta nel Libro dei Numeri, cap.6, vv.24 - 26 che recita così:

"Il Signore ti benedica e ti protegga!
Il Signore faccia brillare su di te il Suo volto 
e ti sia propizio!
Il Signore rivolga verso di te il Suo volto
e ti dia pace!"

Splendida e come sempre suggestiva l'esecuzione del coro della Cattedrale di Saint Paul di Londra: musica e immagini che ci aiutano davvero ad alzare lo sguardo e ad aprirlo alla speranza!

Buona visione, buon ascolto e ancora Buon Anno!