martedì 31 dicembre 2019

Armoniche scomposizioni

(Foto presa dal web)
Giunta a fine anno, nel ripercorrere viaggi o eventi particolarmente significativi, desidero ricordare qui una bella mostra allestita al Palazzo Reale di Milano che ho avuto occasione di visitare all'inizio di novembre.
Mi riferisco ai dipinti della "Collezione Thannhauser" - proveniente dal Museo Guggenheim di New York - che annovera una cinquantina di opere tra pittori impressionisti, post-impressionisti ed esponenti delle avanguardie del primo Novecento. 
Un percorso molto vario tra Monet, Renoir, Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Picasso e altri ancora.

Confesso che, se da un lato amo profondamente alcuni di questi artisti, dall'altro mi hanno spesso lasciato perplessa certi caratteri astratti e informali dell'arte contemporanea, soprattutto se sono al limite di un' immediata comprensione, la mia perlomeno.
Tuttavia, nel corso del tempo, mi ha affascinato il Cubismo così come lo ritrovo in alcune opere di Picasso e di Braque. La scomposizione della figura, la molteplicità dei punti di vista e una marcata sottolineatura dei volumi sono infatti elementi che mi hanno colpito per la loro capacità di condurci all'interno dell'oggetto rappresentato, come a sviscerarne un nucleo portante, a svelarci i pezzi di un ingranaggio al di là delle sue apparenze. Quasi una ricerca di essenzialità, una volontà di cogliere il cuore delle cose, andando oltre la loro superficie senza tuttavia dimenticarla.

Sarà forse per questo che, nel percorso della mostra, il mio interesse è stato letteralmente catturato dal dipinto che vedete: "Paesaggio a Céret" di Pablo Picasso (1881 - 1973), magnifico esempio di pittura cubista che risale al 1911.
In esso si realizza la visione totale e simultanea dell'oggetto - in questo caso il panorama di una cittadina spagnola - smontato, per così dire, nelle sue parti e ridotto a forme geometriche.
Una visione nuova che ci consente di entrare nel paesaggio attraverso il gioco di mille sfaccettature e prospettive inusitate, quasi in una sorta di tridimensionalità. 
Uno splendido e accattivante tentativo di guardare dentro e oltre l'oggetto in sè, in cui Picasso - sia pure con esiti differenti - in certo qual modo precorre il lavoro di altri artisti e di alcune future avanguardie.

Ma al di là di queste osservazioni, due aspetti in particolare hanno destato il mio interesse.
Il primo è la disposizione di linee e proporzioni, di distanze e di colori che crea   una profonda armonia, così come il giallo ocra, il grigio e il nero - tinte terrose tipiche del Cubismo analitico - si alternano con grande equilibrio. Nonostante la sua frammentazione, infatti, e pur aprendoci a una dimensione sconosciuta, il dipinto a mio avviso non risulta caotico.
Il secondo aspetto è la scoperta di scorci del consueto paesaggio cittadino non subito evidenti a un primo sguardo, ma che appaiono e riappaiono, seminascosti nel complesso della scomposizione geometrica che fonde spazio e oggetti.
Sono archi grandi e piccoli, scale e scalette, balconi e terrazze, finestre, tende e passaggi, inframmezzati da alberelli o vegetazione che occhieggia qua e là. 
Così pure, ci sono tetti, muri ed edifici squadrati, superfici e volumi che riemergono sconnessi tra loro, ma riconnessi dall'insieme: quasi un mondo fantasioso che il pittore ricrea, facendolo affiorare tra linee rette e spezzate, curve e oblique, parallelepipedi e altre figure solide.
Un mondo che si vorrebbe, se non abitare, perlomeno scoprire, con la gioia con cui ci si perde in un'avventura o in un sogno, come se, nel cuore della scomposizione della realtà, Picasso ci conducesse a vedere - per brevi scorci - il mondo di fiaba che in essa vive.

Così, ad accompagnarci in questo percorso, ho scelto un brano dal secondo libro del "Clavicembalo ben temperato". 
Picasso e Bach???...Sento l'eco di un certo stupore. 
Lo so, c'è una grossa sfasatura cronologica tra loro, ma dopo aver ascoltato vari pezzi di musica contemporanea al pittore spagnolo - compresa quella atonale e non ultimo Schoenberg - sono tornata a Bach, e in particolare a un brano che adoro da tempo.
Si tratta del "Preludio in la minore n.20 BWV 889", composizione di grande fascino che si dipana piano ma sostenuta, melanconica ma non priva di qualche apertura luminosa, simile a un cammino esistenziale che si snoda lento e costante, eppure continuamente variato. 
Il suo tema si basa infatti su di una cellula melodica che si ripete in mille modi alternati tra la mano destra e la sinistra, in un incastro e un andirivieni di note ricchissime di cromatismi che vanno aprendo prospettive sempre diverse. 
Un fascino che - a mio avviso - si fa ancora più intenso nella seconda parte, con l'inversione del tema che, se prima scendeva, ora sale e sembra aprire davanti a noi un paesaggio inusitato, straniante e al tempo stesso meraviglioso.
E mi pare che queste note, nella misurata interpretazione di András Schiff, ci possano davvero guidare all'interno del dipinto di Picasso, nelle armoniche geometrie del suo mondo disgregato e insieme ricomposto. 
Un brano a mio avviso modernissimo, in cui il consueto rigore bachiano si carica di suggestioni nuove e ci apre più che mai alla percezione di universi sconosciuti dentro e fuori di noi.

Buon ascolto e Buon Anno!

mercoledì 25 dicembre 2019

Buon Natale!!!






































Anonimo del XV sec.: "Natività", miniatura in tempera e oro da un Libro d'Ore di Bésançon, conservata presso il Fitzwilliam Museum di Cambridge.


 

Mykola Leontovych (1877 - 1921): "Shchedryk" (Canto delle campane).

venerdì 20 dicembre 2019

Gioiosa sintonia

Paolo Veronese (1528 - 1588): "Le nozze di Cana" (particolare)
Come scegli i brani da pubblicare?
Quale criterio segui, visto che non sono in ordine cronologico? 
Pensi prima alla musica e da quella prendi spunto per scrivere il post o scegli invece un'immagine e solo dopo colleghi ad essa il pezzo?
Decidi d'impulso o ci impieghi parecchio tempo?

Sono domande che più di un lettore di questo blog mi ha posto nel corso degli anni. Ma devo dire che non ho una risposta precisa perchè - tranne alcuni casi o determinate ricorrenze - mi muovo senza programmare troppo, ma cogliendo l'ispirazione del momento.
A volte, se in lista di attesa ho già una provvista di brani che mi preme pubblicare, inizio dalla musica, ma talora - soprattutto se ho in mente un'immagine che mi affascina come, per esempio, un bel dipinto - parto da quella e il brano verrà di conseguenza.
Ma capita spesso che l'ispirazione - oddio che parolona! - arrivi anche dalle parole di un testo, dalle sequenze di un film o da qualche particolare di vita quotidiana colto al volo, dettagli talora molto piccoli che tuttavia mi restano nel cuore e che, per così dire, lo lavorano in silenzio. 
Condizione necessaria per potermi mettere a scrivere è, in ogni caso, la percezione di uno scatto interiore, una sorta di innamoramento insomma: che parta dalle note o che ci arrivi dopo, in fondo, è secondario. Essenziale è che protagonista resti la musica.
Ma anche il tempo speso nella scelta dei brani varia di volta in volta. 
Talora so perfettamente quale composizione associare a un determinato discorso, talatra invece sono molto più incerta perchè si tratta di decidere tra bellezza...e bellezza, il che non è sempre facile.

Ed è proprio il caso del pezzo di oggi. Stavolta, ho avuto davvero l'imbarazzo della scelta fra tre incantevoli brani dello stesso autore. Ma come decidersi tra lo splendore melodioso di un'arpa solista, le ricche e profonde sonorità dell'organo o il delicato tocco degli archi?
Infine, dopo ripetuti ascolti, ho scelto il pezzo riportato da una bellissima registrazione dal vivo. Essa ci restituisce infatti l'impagabile gioia di chi suona gustando la magia delle note e insieme ci consente di cogliere l'intesa che dai solisti si allarga a tutti gli orchestrali, fino a coinvolgere noi che guardiamo.

Si tratta del quarto movimento, "Allegro", del "Concerto grosso in Sol maggiore op.6 n.1 HWV 319" di Georg Friederich Haendel (1685 - 1759), eseguito dalla "Tafelmusik Baroque Orchestra", ensemble canadese specializzato nel repertorio antico. L'espressione Tafelmusik - musica da tavola - indica i brani composti nel tempo proprio per allietare un banchetto, come avveniva presso le corti soprattutto dal periodo rinascimentale in poi.
La cosa ci suggerisce subito che si tratta di una composizione ricca di serenità e di leggiadrìa che, se pure ha come scopo il semplice intrattenimento, non per questo è meno affascinante di altre. Delle innumerevoli sfaccettature dell'ispirazione di Haendel - ora intima, ora festosa, ora solenne - qui prevale infatti quella più leggera e galante, segnata da una vivacità a volte sostenuta e altrove più vicina a un passo di danza.

Ma osserviamo gli interpreti mentre suonano. C'è in loro la gioiosa leggerezza di chi vive la musica dal suo interno: un piacere che si esprime nel sorriso, un impulso che affiora lieve e garbato come garbate sono le note del Concerto, e che dai due solisti si comunica, battuta per battuta, a tutto il gruppo degli esecutori. Un suonare - ma anche un dirigere - fatto di sguardi attenti e di un'armonia che certo non s'improvvisa, ma richiede perizia e prove su prove, perchè ciascuno diventi una cosa sola con gli altri, ma soprattutto col testo musicale.
Una gioiosa sintonia che cogliamo dal dialogo dei due violini solisti nell'esordio fugato del brano, fino alla delicatissima, splendida conclusione: una breve pausa e - leggera come l'aria - una dolce fioritura di note.

Buona visione e buon ascolto!

sabato 14 dicembre 2019

Il tempo che porta via

(Foto presa dal web)
Sarà che invecchio, ma ho sempre più bisogno di lentezza.
Mi occorre parecchio tempo non tanto per fare, quanto per assimilare cose, metabolizzare discorsi, eventi, novità che a volte restano lì, come un boccone che si ferma in gola e non vuole andar giù. 
Fatico a scrollarmi di dosso certi accadimenti che non scorrono più via come una volta, simili ad acqua fresca, ma mi si attaccano addosso con un'azione persistente ed erosiva e, prima che li abbia focalizzati e rielaborati, ce ne vuole.

Ma talora accade il contrario con gli eventi positivi. Se certi problemi restano troppo a lungo a erodere l'anima, d'altra parte ciò che di bello la quotidianità ci offre viene spazzato via in fretta da un turbine di pensieri invadenti, mentre richiederebbe un tempo più tranquillo per essere trattenuto e gustato fino a radicarsi in noi e germogliare in un sorriso.
Il risultato è che a volte ho la sensazione di aver lasciato indietro pezzi di me, di essere avanti con la testa e indietro col cuore, quasi che una parte fosse rimasta nel passato, ferma a quanto ho visto, vissuto, detto ieri o l'altroieri, e un'altra proiettata in un futuro che non esiste ancora. 
Forse capita a tanti, e ne deriva un tempo ansioso che ci porta via da noi stessi, un continuo fluire privo di un punto fermo nel quale finisce per dissolversi anche il presente. C'è qualcosa di sotterraneo infatti che, nella fuga dei giorni, talora ci strattona in direzioni opposte e ci divide interiormente.
E mi tornano in mente i versi drammatici di un famoso sonetto del Petrarca:

"La vita fugge e non s'arresta un'ora
e la morte vien dietro a gran giornate
e le cose presenti e le passate
mi danno guerra e le future ancora...".

Sento qualcuno che - sia pure sottovoce - protesta: ma perchè ci rattristi con queste considerazioni, proprio adesso che siamo quasi a Natale? 
No, amici, spero di non rattristare nessuno, ma resta vero che certe sensazioni - mie, ma non solo - vengono acuite dalla concitazione del periodo prenatalizio, affascinante per certi versi, ma sconnesso e dispersivo per altri. 
Un tempo che pure adoro, ma che può rischiare di frantumarci in mille pezzi.

Mi piace allora pubblicare un brano del compositore irlandese Charles Villiers Stanford (1852 - 1924), il cui testo mi ha particolarmente colpito.
Si tratta di un mottetto a sei voci miste intitolato "Beati quorum via" e ispirato al primo versetto del Salmo 119 che recita appunto:
"Beati quelli che sono integri nelle loro vie, e camminano nella legge del Signore".
A parte la bellezza della musica e la splendida interpretazione dell'ensemble Voces8 - gruppo britannico specializzato in canti a cappella, con un repertorio che va dal Rinascimento ai giorni nostri - ad attirare la mia attenzione è stata una parola del testo latino: "Beati quorum via INTEGRA est".  
Integra, appunto: termine che rimanda prima di tutto a un'idea di correttezza. Di solito infatti, definiamo così una persona onesta, incorrotta, pura e osservante delle leggi. 
Ma proprio per questo, occorre ricordare che integro significa anche intero, non spezzato, non frantumato, non disperso insomma, e può certo riferirsi all'unità interiore di chi è se stesso in tutto ciò che fa. A tale condizione, tanti e diversi possono essere i sentieri che ogni giorno ci si trova a percorrere, ma senza mai perdere di vista quel centro che ci anima dal profondo.
Un esordio, questo del Salmo, che mi suona particolarmente significativo, soprattutto se il tempo, col suo concitato susseguirsi di eventi, rischia di portarci via da noi stessi, rendendoci simili a un puzzle le cui tessere non s'incastrano più, come lamenta - nella foto in alto - il nostro amico Snoopy.

Ma al di là delle parole, è anche la soavità della musica di Stanford, insieme alla straordinaria purezza vocale del coro, a raggiungerci con intensità. 
Mi pare infatti che queste note - come accade in ogni esperienza di bellezza - ci conducano verso una pacificante attitudine contemplativa, capace di ricomporre gradatamente i nostri pezzi e di farli, finalmente, combaciare.

Buon ascolto! 

 

sabato 7 dicembre 2019

Effetto note

(Foto presa dal web)
Non so perchè ma, quando sono nervosa, canto. Anzi, canticchio.
E a dire il vero, lo faccio anche nei momenti in cui ho premura, oppure mi trovo in coda a uno sportello, o al freddo ad aspettare un treno che non arriva mai, come mi è accaduto ieri.

Di canticchiare per strada mi capitava spesso soprattutto negli anni dell'università, quando al mattino dovevo andare in stazione e ogni volta - sempre di fretta com'ero - mi scaraventavo di corsa giù dalle scale di casa: cinque piani, per intenderci.
Ma ai tuoi tempi non esisteva l'ascensore? - mi direte. 
Certo che esisteva! Ma prima dovevi chiamarlo sperando che non fosse occupato, poi aspettare che salisse per cinque piani e compagnia bella...insomma per paura di perdere il treno, preferivo scendere a piedi.
Però, appena uscivo in strada - voilà! - come per magìa, insieme al mio passo di carica verso la stazione, partiva automaticamente la musica.
Quella dell'ipod? - penserete. Eh no, gente mia, qui vi sbagliate! Qui mi riferisco a tempi antichi, tecnologicamente parlando oserei dire preistorici, almeno rispetto ad oggi. E se pure l'ascensore - quello sì, tranquilli! - già esisteva, certi altri aggeggi non erano ancora neanche nella mente del Padreterno.
La musica, dunque, partiva dentro di me, nella mia testa, per la precisione col Bach dei Brandeburghesi che mi canticchiavo gioiosamente e col quale entravo in un'atmosfera tutta mia a propiziarmi la giornata.

Ma torniamo al presente: il treno, dicevo.
Anche ieri, aspettandone uno dal ritardo sempre crescente e con tutto il bieco nervosismo che me ne è derivato, a un certo punto ho iniziato a canticchiare. A mezza voce, s'intende, per non indurre chi attendeva intorno a me a chiamare i soccorsi nel caso fossi impazzita.
Il mio è stato un impulso del tutto involontario, scattato in automatico come un ingranaggio che si mette in moto da solo e va a ruota libera, tanto che me ne sono resa conto solo dopo un po'. I brani infatti affioravano dalla mia mente senza che neanche li pensassi e soprattutto senza alcun nesso logico tra loro, ma così, in assoluta libertà!

Ho iniziato con la Pastorale di Beethoven nel pezzo del temporale - e qui, dato il mio umor nero, penso che Freud avrebbe avuto qualcosina da osservare - per proseguire subito con Mozart di cui mi è uscito l'inizio della Jupiter, seguito, non so proprio perchè, dall'ultimo movimento dell' Eine kleine Nachtmusic.  
Poi, quando il ritardo del treno ha raggiunto i novanta minuti, dico 90 - e lo scrivo anche in cifre! - con buona pace di Rachmaninov mi è partito addirittura l'esordio del suo Terzo Concerto, il famosissimo Rach 3. E siccome non uso mai espressioni come tarara, dududu, trallallà e cacofonie varie, ma - dove riesco - preferisco le note, mi sono messa a canticchiare: re, fa mi re, do# re mi re...con tanto di do diesis, appunto.
Ma quando finalmente il treno è arrivato, il sollievo è stato tale che in testa mi è letteralmente esploso Rossini con una delle sue più famose Ouvertures.  
A questo punto, tirato un gran respiro, ho iniziato pian piano a rasserenarmi riuscendo - guarda un po' - anche a sorridere, mentre dentro di me il ritmo del convoglio si sposava con la vivacità del pezzo rossiniano.
In conclusione, la musica mi ha accompagnato per tutta l'attesa e nel corso del viaggio, ora come valvola di sfogo, ora come terapia distensiva, simile a una sorta di effetto note - certo, con una T sola, note musicali! - proprio come dice il titolo. E confessi chi, leggendolo a prima vista, ha pensato: ma questa si è mangiata una doppia...!!!

Allora godiamoci la trascinante esuberanza di Gioacchino Rossini nella celebre "Ouverture" de "Il Barbiere di Siviglia", pezzo di straordinaria felicità compositiva, ora più concitato e fragoroso, ora più lieve, ma non privo di tocchi di ammiccante ironia e ricco di una scorrevolezza che rasserena e alleggerisce il cuore.
Vi lascio quindi a queste note e mi scuso se il post oggi è venuto un po' così...
A dire il vero, ne avevo già preparato un altro, serio, serissimo e molto più a modo. Ma ieri il mio treno era in ritardo...e allora - che volete farci? - mi è partita la musica!

Buon ascolto!

sabato 30 novembre 2019

Esercizi???...

(Foto presa dal web)
Chi ha confidenza con lo studio del pianoforte, oltre ai brani più semplici di tanti musicisti del passato attraverso i quali, all'inizio, ci si familiarizza col mondo delle note, ricorderà senza dubbio anche altri testi e altri autori.
Non solo "Il mio primo Bach" - o  Mozart, Beethoven, Schumann, Chopin e via dicendo - ma anche manuali di didattica della musica, variati secondo il livello e finalizzati all'apprendimento della tecnica pianistica: dai primi approcci alle scale, ad esercizi per migliorare l'agilità e la velocità delle dita, fino a quelli per un vero e proprio pianista virtuoso. 
Come dimenticare, a questo proposito, il Pozzoli, il Bayer, il Duvernoy, l'Hanon o lo Czerny? Certo, oggi esistono anche altre raccolte ma questi nomi - spesso più croce che delizia di tanti studenti di musica! - dovrebbero suonare comunque familiari. Gli esercizi che essi riportano - come scrivevo - sono di difficoltà sempre crescente: non solo indirizzati ai principianti, ma anche a pianisti fatti e finiti che, per mantenersi a livelli di eccellenza, non dovranno mai abbandonarli un po' come atleti in costante allenamento.

A dire il vero, certi grandi interpreti talora hanno dichiarato di usare per il proprio studio quotidiano anche altri pezzi e in particolare quelli bachiani: le "Suites francesi" - per esempio - o quel monumento di bellezza costituito dal "Clavicembalo ben temperato". E in effetti quest'ultimo è stato scritto dal compositore "per utilità e uso dei giovani musicisti desiderosi di apprendere, ed anche a ricreazione di coloro che sono già provetti in questo studio".  
È una dedica che mi ha sempre colpito perchè, se da un lato mi parla dell'umiltà di Bach - credeva forse di aver fatto un semplice manuale didattico e non un capolavoro? - dall'altro vede la musica come ambito di ricreazione in cui, da un certo livello in avanti, superate le difficoltà tecniche, suonare diventi solo un momento di gioia.
A parte tali splendide eccezioni però, quando si parla di esercizi, generalmente per i comuni mortali il pensiero va subito a qualcosa di nioioso e monotono. 
Il termine infatti induce a pensare a passaggi musicali ripetitivi, privi di una melodia o comunque di un tema che li renda piacevoli.

Per questo mi sono meravigliata quando - navigando qua e là su youtube - ho ascoltato quelli tratti da un manuale dell'austriaco Carl Czerny (1791 - 1857) intitolato "L'arte di rendere agili le dita. 50 studi brillanti per pianoforte op.740".
È stato l'aggettivo brillanti a colpirmi, non solo perchè mi ha dato l'idea della loro vivacità, ma perchè mi ha fatto pensare subito ad un testo che dell'esercizio vero e proprio non avesse in realtà le caratteristiche, ma somigliasse in tutto e per tutto a una composizione con una sua precisa struttura.
Ed è proprio così. Proviamo ad ascoltare quello che ho scelto: l' "Allegro agitato in sol minore n.50", l'ultimo della raccolta e probabilmente il più impegnativo. Non sapessimo di chi è, potremmo scambiarlo per uno degli Studi più accesi di Chopin o forse anche di Liszt: insomma una pagina romantica e tempestosa. In effetti Czerny è stato anche compositore, ma probabilmente la grande fama ottenuta come didatta ha un po' oscurato il resto della sua produzione.
Come potete vedere dallo spartito, il brano non è difficile...è difficilissimo!!! 
Le quartine di sedicesimi hanno lo scopo di sciogliere la mano destra, conferendole la maggiore agilità possibile quasi potesse volare sulla tastiera, ma insieme gli accordi netti e scanditi della sinistra mirano a far acquisire precisione nel rispetto del tempo giusto, in questo caso 4/4. 
E la notevole velocità con cui si dipanano le note ci dice che, per suonare questo pezzo, occorre una bravura non comune. 
Plauso e lode quindi a Czerny e al suo esecutore!

Buon ascolto!

venerdì 22 novembre 2019

"From Harmony..."

Orazio Gentileschi (1563 - 1639): "Suonatrice di liuto" (part.)
È con la gioiosa eleganza di un brano di Georg Friederich Haendel (1685 - 1759) che mi propongo di ricordare oggi Santa Cecilia, patrona della musica e dei musicisti.
"Ode per il giorno di Santa Cecilia HWV 76" è infatti la cantata scritta nel 1739 dal compositore e suddivisa - tra arie per voce solista e pezzi per coro - in dodici movimenti di cui vi riporto il terzo intitolato "From Harmony".
Qui, prendendo spunto da un poema dello scrittore inglese John Dryden, si afferma che è stata l'armonia celeste a dare inizio all'universo, tutto percorso da note che hanno poi raggiunto l'uomo. Il testo non è quindi incentrato in particolare sulla vita della Santa, ma è una lode alla potenza della musica quale principio ordinatore del cosmo. 
Esso recita infatti:
"Dall'armonia, dall'armonia celeste ha avuto inizio l'ordine universale. 
Di armonia in armonia, il suono ha corso attraverso tutto lo spettro delle note raccogliendosi infine nell'uomo."

È affascinante l'idea che ciò che muove la creazione sia, in realtà, musica e - a ben guardare - l'ipotesi di un'originaria vibrazione creatrice, come non è estranea ad alcune antiche civiltà, non è neppure così lontana dai più recenti studi di fisica quantistica.
Da Pitagora con la teoria della musica delle sfere, fino ad altri filosofi e letterati del mondo greco, latino e mediovale - basti citare Platone, Cicerone e Dante - si riteneva infatti che i corpi celesti nel loro movimento producessero un suono non percepibile dall'uomo, ma rappresentabile da rapporti armonici e matematici. 
In Dante in particolare, parecchi sono i passi della "Divina Commedia" in proposito, ma senza addentrarmi nelle numerose citazioni in cui si parla di armonia soprattutto nel Paradiso, mi basta ricordare due espressioni con cui il poeta, nell'Inferno, descrive invece la mancanza di luce: "là dove il sol si tace" (Inf. Canto I v.60) e "loco d'ogni luce muto" (Inf. Canto V, v.28).
Usa infatti un linguaggio efficacissimo nel significare - per negazione e attraverso la sinestesia - che i corpi celesti producono un suono, che la luce è vibrazione musicale e, se essa scompare, non solo si fa buio, ma tutto precipita in uno sconfortante silenzio.

Intorno alla musica delle sfere sono fioriti parecchi studi per tutto il periodo in cui la cosmologia si basava sul sistema geocentrico, ma anche dopo la rivoluzione copernicana, si continuerà a parlare di armonie planetarie. 
E oggi, le più recenti teorie fisiche che descrivono il comportamento delle particelle elementari, usano modelli basati talora su di una nozione di armonia che può essere ricondotta ad alcune intuizioni dei pitagorici e di Platone.
Se quindi l'universo è nato da una vibrazione che percorre i vari oggetti, potremmo davvero affermare che "l' Amor che move il sole e l'altre stelle" è musica che ci attraversa in continuazione, simile a una potente onda di energia, ieri come oggi.
Del resto, anche il Prologo del Vangelo di San Giovanni si apre dicendo: "In principio era il Verbo". E la Parola non è forse anche suono?

Abbandoniamoci allora al fascino e alla forza di questo brano di Haendel che crea un variopinto e luminoso universo di note: ora solenni, maestose e strutturate su grandi accordi, ora ricche della leggerezza melodica di scale ascendenti e discendenti, ma sempre intrise di profondissima gioia.
Ed è bello considerare che anche noi siamo frutto di questa armonia che dall'Alto ci ha pensato, e continua a risuonare nel tempo attraverso la nostra esistenza!

Buon ascolto!

sabato 16 novembre 2019

Un violino per Venezia

Ippolito Caffi (1809- 1866) : "Neve e nebbia sul Canal Grande"
Da dove ha origine l'ispirazione di un compositore?
In quale luogo segreto trova nutrimento la scintilla che egli avverte in sè e da quali recondite lontananze scaturiscono le sue note?
Non è sempre facile rispondere a queste domande perchè ogni autentica ispirazione nasce libera, e ogni musicista ha un suo originalissimo mondo da cui prendere spunto sia dentro che fuori dal proprio cuore.

Le note possono affiorare dal profondo talora quasi senza motivo, da un nodo di sensazioni inespresse che - misteriosamente - trova nei suoni il varco privilegiato per sciogliersi e venire alla luce; ma capita spesso che tante composizioni siano sollecitate da un fattore esterno. 
Può essere una persona, un evento, un dipinto, una storia a suscitare passioni o stati d'animo che poi si tradurranno in melodie sulla scorta della sensibilità di ciascun autore. Così pure, spesso sono i molteplici aspetti della natura a ispirare i musicisti e ne abbiamo numerosissimi esempi: dalla "Sinfonia Pastorale" di Beethoven alle "Scene del bosco" ("Waldszenen op.82") di Schumann, dalla "Moldava" di Smetana fino a composizioni quali "La Mer" o "Clair de Lune" di Debussy e molto altro ancora.

Ci pensavo proprio in questi giorni ascoltando Vivaldi - e come dimenticare a questo proposito le sue mirabili Quattro stagioni? - ma insieme vedendo le immagini dell'immane disastro provocato dall'acqua alta a Venezia. 
E mi chiedevo se - oltre al fascino che avrà certo esercitato sul compositore lo splendore fastoso di questa città - a creare l'intensa suggestione di alcuni suoi brani non siano stati proprio certi aspetti che di essa mettono in luce un disfarsi quotidiano a ogni frangersi d'onda. 
Non la Venezia leggiadra ed elegante dove i ponti si specchiano nei canali e la pietra dei palazzi sembra fiorire e farsi ricamo, ma quegli angoli sfatti dove l'umidità corrode le fondamenta su cui essa si regge e la laguna nel suo ondeggiare sottolinea la precarietà di un connubio - suggestivo e insieme sconvolgente - tra città e acqua. Una Venezia meno luminosa certo, ma ugualmente ricca di fascino, della quale - tempo fa - avevo già parlato in un post che vi ripropongo qui.
Ecco, mi sono chiesta se non sia stato anche l'abitare questa dimensione di precarietà a dare origine in Vivaldi a certi brani lenti dal fascino intimo e venato di malinconia, dall'atmosfera nebbiosa, dal canto sottile e struggente. 
Ascoltando le sue note, infatti, mi pare davvero che i contrasti che fanno della città un miracolo a fior d'acqua - e come scrivevo anni fa - in precario equilibrio tra cielo e abisso, abbiano avuto una parte significativa nell'ispirare il compositore a tradurre in musica l'intreccio tra eternità della bellezza e segreta consunzione del tempo.

Anche nel pezzo vivaldiano che vi propongo oggi - il secondo tempo, "Largo",  dal "Concerto n.1 per violino in sol minore RV 317" - si avverte un respiro crepuscolare che sembra farci cogliere tale consunzione e accompagnarci attraverso un'atmosfera simile a quella creata da Ippolito Caffi nel dipinto che vedete in alto. È un paesaggio cui la neve non conferisce luce o allegria, ma dove un cielo fosco si addensa sul Canal Grande, mentre dalla laguna, a renderne i tratti più indefiniti, avanza la nebbia: un' immagine per certi aspetti evanescente, che coglie il particolare clima di una città sempre bellissima.

E oggi che questa bellezza è così profondamente ferita, è il violino solista di Leonid Kogan che desidero dedicare a Venezia. 
Il suo canto, infatti, interpreta mirabilmente quello del "Largo" di Vivaldi, ora dolente e nostalgico, ora più dolce e aperto a sprazzi di sereno: note intrise di sconforto, ma anche simili a luci di speranza, per la città e per tutti noi chiamati ad essere custodi di tanto splendore.

Buon ascolto!

venerdì 8 novembre 2019

"Departures"

(Foto presa dal web)
Hanno ridato in tv sere fa - se non ricordo male proprio il 2 novembre - il film "Departures", pellicola giapponese del 2008 per la regia di Yōjirō Takita. 
È una storia che si snoda pacatamente, con rara delicatezza e profondità, nonostante il tema possa risultare crudo.

Protagonista è Daigo, giovane violoncellista che, perduto il lavoro per lo scioglimento dell'orchestra in cui suona, trova una buona offerta presso quella che, inizialmente per un errore nell'inserzione, scambia per un'agenzia di viaggi. 
In realtà, il viaggio cui si allude è la morte: l'agenzia si occupa infatti della vestizione e della preparazione dei cadaveri, cerimonia che si svolge alla presenza di tutta la famiglia del defunto, come una sorta di rituale religioso. 
In un clima di silenziosa solennità, con gesti lenti, delicati e quasi carezzevoli, il morto viene lavato, vestito, il suo viso acconciato per cercare di ripristinarne la perduta bellezza, e in seguito i familiari potranno dargli l'estremo saluto.

Daigo, che ha accettato questo lavoro solo per motivi economici, fatica in un primo tempo ad abituarvisi, ma è l'anziano proprietario dell'agenzia che, se da un lato comprende le sue esitazioni, dall'altro lo incoraggia perché sembra intuire che - in realtà - il giovane è adatto per svolgere quel servizio. 
E infatti, col tempo, acquisterà con esso familiarità sempre maggiore arrivando a comprenderne anche il profondo valore umano.

Un tema coraggioso quello affrontato in questo film, e una sceneggiatura che mette in luce alcuni aspetti conosciuti della società giapponese che, tuttavia, data la delicatezza con cui sono trattati, non scadono mai al livello di luoghi comuni. 
Dalla rigida severità della famiglia che redarguisce aspramente i due cerimonieri funebri per soli cinque minuti di ritardo, al rispetto deferente con cui la stessa famiglia, dopo aver visto con quale cura essi hanno preparato il corpo del loro congiunto, chiede scusa del rimprovero iniziale. 
Dal pregiudizio di alcuni verso tale lavoro - pregiudizio del quale lo stesso protagonista, in un primo tempo, è vittima e che allontanerà da lui persino la moglie - alla successiva comprensione da parte di tutti dello spessore umano che tale servizio comporta.
Una riconciliazione quindi, tra le persone e con la realtà della perdita di chi amiamo, che ha il suo culmine quando Daigo, informato della morte del padre andato via di casa quando lui era ancora bambino, dopo il rifiuto iniziale accetterà di prepararne il corpo in prima persona.
Un racconto che la regìa rende sobrio come sobria è nel mondo giapponese la manifestazione dei propri sentimenti, e anche se il tema è impegnativo, non ne deriva una narrazione pesante. 
La sceneggiatura, infatti, oltre a sequenze che rendono il senso di un'acuta introspezione, ha qua e là tocchi di lieve umorismo insieme a uno sguardo capace di trattare con accenti di poesia un argomento che - al contrario di quello giapponese - il mondo occidentale talora preferisce nascondere.

Così, proprio in sintonia con la delicatezza con cui si parla qui della morte, mi piace pubblicare un brano tratto dal "Requiem in re minore op.48" di Gabriel Fauré (1845 - 1924), forse scritto dal compositore in memoria dei genitori.
È il "Pie Jesu", pezzo soavissimo affidato alla voce solista del soprano e caratterizzato da un lirismo sommesso e intimo al punto da essere stato definito una "ninna nanna". Non evoca infatti un transito doloroso, ma il senso di un riposo senza fine.
La melodia, pur snodandosi con accenti talora malinconici, non è priva di passaggi di luminosa e incomparabile dolcezza e va a concludersi in tonalità maggiore così com'era iniziata.
Molto intenso e altrettanto famoso - sempre dallo stesso "Requiem" - anche il brano intitolato "In Paradisum" che avevo scelto in un primo momento. 
Poi però ho notato che nel "Pie Jesu" alcune armonie sembrano ricordare quelle della scala pentatonica usata spesso nella musica cinese e giapponese, così mi è parso più adatto al contesto in cui è ambientato il film.

Buon ascolto!

giovedì 31 ottobre 2019

Scrittura musicale

Bach: pagina da "L'arte della fuga". (Foto presa dal web)
Credo che a quanti hanno familiarità col mondo della musica, oltre alla bellezza con cui ci affascina, non sfugga lo splendore del suo linguaggio e quindi della sua scrittura.
Essa infatti è costituita da una serie di elementi che non comprendono soltanto - si fa per dire! - un insieme di note sul pentagramma, ma anche tutti quei segni che di esse determinano la tonalità, il tempo, le pause, il legato o lo staccato, il crescendo o il diminuendo e molto altro ancora.

A una prima occhiata, può darsi che tale scrittura risulti a volte ingannevole.  
Può capitare che un brano tanto denso di note fitte e veloci, di arpeggi e di alterazioni in chiave da far paura, all'atto pratico si dimostri magari meno difficoltoso del previsto; mentre accade talora che una melodia lenta, dalla struttura più semplice, riveli invece problemi esecutivi che ad uno sguardo affrettato non erano evidenti.
Beethoven: pagina dal "Trio op.70". (Foto presa dal web).
In ogni caso, un testo musicale è sempre affascinante perchè, a somiglianza di ogni altro linguaggio, ci apre un mondo che si svelerà a poco a poco all'interno del dialogo tra la nostra sensibilità e quelle particolari note.
Del resto, è il processo che si compie ogni volta che ci si accosta ad un ambito poetico: la costante frequentazione di una scrittura musicale infatti non solo ci comunica i tratti, i ritmi e l'andamento di un brano col suo impianto armonico ma - al di là dei dati strettamente tecnici - può consentirci di cogliere in esso l'anima del compositore.

Mozart: pagina dalla "Sonata K.331". (Foto presa dal web)
A maggior ragione se il testo è un manoscritto originale, perchè allo splendore delle note si aggiunge allora l'unicità del tratto grafico che, nei suoi caratteri grandi o minuti, nervosi o distesi, ci svela il temperamento del suo autore. 
Pensate - per esempio - agli autografi dal segno tormentato di Beethoven, alla scrittura elegante e ordinata di Bach (o della moglie Anna Magdalena come sospetta qualche critico...) e alla nitida chiarezza di alcuni brani di Mozart composti talora di getto senza correzioni nè cancellature!

Ma se anche la grafia dei singoli ci colpisce con più toccante intensità, la versione a stampa non perde per questo la capacità di introdurci nel cuore del musicista svelandone, di volta in volta, il fuoco o la dolcezza.
Un testo rispecchia infatti uno stile e - che sia uno spartito per singolo strumento o una partitura orchestrale - a somiglianza della parola scritta ha una sua sintassi, una sua costruzione, un ritmo, una grammatica e direi persino una punteggiatura. Sono pause, riprese, temi e successivi sviluppi che s'intrecciano come proposizioni principali e dipendenti. 
Tutto riconduce così a una struttura sintattica che spesso - soprattutto in ambito polifonico e orchestrale - si realizza su due dimensioni contemporanee, diacronica e sincronica: il progressivo snodarsi di una melodia in orizzontale e insieme, in verticale, il suo spessore armonico battuta per battuta.

Ecco perchè mi piace pubblicare un brano corredato del manoscritto originale che possiamo seguire sulla clip-video, quasi nelle sue note e nei diversi passaggi ravvisassimo i lineamenti di un volto amico.
Si tratta di Bach e del primo movimento, "Allegro", del "Concerto n.1 in re minore per clavicembalo e orchestra BWV 1052", composto intorno al 1736 sullo schema di un precedente concerto per violino la cui partitura è andata perduta.
È un pezzo che all'inizio ci sorprende per il piglio ritmico acceso e un fascino timbrico che, se in alcuni passaggi può richiamare il carattere dei celebri Brandeburghesi, per altri versi ci conduce a Vivaldi e a quello stile italiano che Bach ben conosceva. Nonostante sia in tonalità minore, il brano ha una notevole ricchezza di sonorità segnate da prorompente energia e una vivacità che possiamo apprezzare in tutto il suo andamento fino alla vibrante cadenza che precede la conclusione.
Vi lascio quindi all'ascolto e alla contemplazione della partitura: un mondo di note in cui addentrarsi con gioia come in un paesaggio dai tratti familiari, del quale esplorare sentieri e anfratti. Ma anche un linguaggio che ci consente di scandagliare lo spazio dentro di noi con la sensazione che ci riserverà un cammino affascinante e sconfinato.

Buona visione e buon ascolto!

mercoledì 23 ottobre 2019

Divina proporzione

Non sempre ottobre è ottobrata. 
Così, la pioggia e il grigiore di questi ultimi giorni m'inducono a desiderare più intensamente la luminosità di certi pomeriggi e la dolcezza del sole sulla campagna ormai dorata.

Ma al tempo stesso mi ricordano alcune gite in Toscana fatte negli anni scorsi, appena prima che la stagione volgesse al brutto. E a riportarmi lì è anche il calendario che ho in cucina, in alto vicino alla finestra, ricco di scorci della campagna o delle più affascinanti città - per l'appunto - toscane.
Allora desidero condividere con voi la foto che mi offre proprio il mese di ottobre, sulla quale il mio sguardo si sofferma, sia pure di corsa, ogni volta che vado e vengo dal balcone di casa.

Sì, è Pienza! Immagino ne abbiate riconosciuto subito la piazzetta con uno scorcio della facciata del Duomo e di Palazzo Piccolomini, cuore della città rinascimentale ideata da Papa Pio II.
C'ero stata per la prima volta in gita scolastica al liceo, ma nonostante la guida esperta della nostra bravissima insegnante di Storia dell'Arte, di quell'uscita ricordo soprattutto la stanchezza e il freddo. 
Eravamo arrivati a Pienza in un tardo pomeriggio di maltempo, era quasi buio e, mentre la prof. illustrava i vari monumenti, nonostante fosse aprile si era messo persino a nevicare...
Ma ci sono tornata poi, in diverse altre occasioni. 
In seguito - e alla luce del sole - ho potuto apprezzare meglio il luminoso silenzio dell'interno del Duomo, lo splendido cortile di Palazzo Piccolomini e il loggiato retrostante aperto sui giardini e sulle colline della Val d'Orcia, uno dei panorami più dolci che la Toscana ci offra.

Al di là di questi ricordi però, la foto del calendario mi attira soprattutto per quello scorcio prospettico che mette in evidenza dimensione e proporzioni degli edifici e, ogni volta che vi passo davanti, è il loro equilibrio formale a colpirmi, insieme alla serenità che da tale equilibrio promana. 
A crearlo è l'impianto geometrico delle architetture nei loro rapporti misuratissimi e nei numerosi richiami classicheggianti: cerchi, semicerchi, colonnine, lesene, archi a tutto sesto, elementi rettilinei e curvilinei che - lungi dal comunicare un senso di freddezza come può capitare altrove - si sposano qui con nitida simmetria. 
Ma sono anche le dimensioni raccolte della piazza, il colore caldo della muratura del Palazzo o ancora quella elegantissima vera da pozzo a darci la percezione di uno spazio a misura d'uomo, in linea con i canoni di bellezza dell'Umanesimo.

Siamo infatti in pieno Quattrocento e la realizzazione del progetto urbanistico di Pio II, volto a creare un esempio di città ispirata agli ideali umanistici, è di Bernardo Rossellino (1409 - 1464), architetto che - negli edifici che vedete - fa riferimento a Leon Battista Alberti e all'armonia di forme che nasce dall'uso della sezione aurea applicata alla geometria solida. 
A ben guardare infatti, il Duomo e Palazzo Piccolomini possono ricordare rispettivamente il "Tempio Malatestiano" a Rimini e "Palazzo Rucellai" a Firenze: opere dell'Alberti ed esempi di quella "divina proportione" che, di lì a poco, sarebbe stata oggetto del trattato di Luca Pacioli, ma che già era stata anticipata nel mondo romano da Vitruvio.

Richiami classici dunque, che ci regalano un senso di armonia come il brano di Mozart che mi piace associare alle immagini. 
Si tratta del secondo movimento, "Andante, un poco adagio", dal "Concerto per pianoforte n.6 in Si bemolle maggiore K.238".
Quella che si snoda piano è una melodia delicatissima e dolcemente ritmata, così da sembrare nelle battute iniziali quasi una danza e ricordare, per certi aspetti, il più famoso "Andante" del "Concerto in Do maggiore K.467"
Il pezzo infatti, nonostante sia stato scritto dal compositore a soli 20 anni, ha già in sè molti caratteri distintivi del suo stile.
Un Mozart che qui mi pare proprio espressione di classicismo e armonia, nell'equilibrio del dialogo tra pianoforte e orchestra, nell'elegante semplicità del tema con i suoi abbellimenti e nel tempo di 3/4 che ne sottolinea grazia e leggiadrìa.
Una divina proporzione creata questa volta non da misure, prospettive e spazi visivi, ma da note, ritmi e spazi sonori che ci offrono la percezione di una serena bellezza della quale riempirci l'anima.

Buon ascolto!