sabato 26 febbraio 2022

Sublimi note di speranza

Kiev : "Monastero delle Grotte"

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ripropongo oggi un brano pubblicato qui anni fa.
Si tratta del celebre "Inno dei Cherubini n.7" del compositore di origine ucraina Dmitrj Bortniansky
(1751 - 1825): un suggestivo e luminoso canto di lode inserito nella liturgia delle Chiese cristiane d'Oriente.
Che le sue note, fino al gioioso Alleluja conclusivo, siano preghiera di
pace!
Particolarmente significativo il video che accompagna l'inno con alcune
immagini della città di Kiev.

Buona visione e buon ascolto!

mercoledì 23 febbraio 2022

Sentirsi giovani

Non mi è facile tradurre in parole la forte emozione che giorni fa, girovagando come sempre su youtube, mi ha afferrato nel ritrovare il brano che pubblico oggi.
Si tratta questa volta di una canzone, divenuta a tal punto emblema di un'epoca che tutti - certo i miei coetanei ma spero anche i più giovani - la riconosceranno fin dalle prime battute.
Un'aria che mi riporta indietro nel tempo ma il cui fascino resta ancora oggi immutato.

Torniamo ai fermenti che preludono al Sessantotto, associamo il progressive rock alla musica di Bach, un intenso accompagnamento orchestrale a un organo elettrico, struggenti note barocche a una grintosissima voce maschile...e certo avrete capito che sto parlando di "A Whiter Shade of Pale" dei Procol Harum.
Si tratta di una canzone che ha segnato la mia adolescenza e mi riporta alle mille
suggestioni di quegli anni che, sull'onda di queste note, scopro ancora vive in tutta la loro intensità. Il brano infatti non ci restituisce un semplice e nostalgico ritorno al passato, ma un sentirsi giovani adesso.
Scritto nel 1967 da Gary Brooker, Keith Reid e Matthew Fisher, il pezzo è uno dei
più celebri del gruppo britannico ed ha avuto immensa fortuna tanto da essere ripreso subito da numerosi altri musicisti, a cominciare dai Dik Dik dei quali tutti ricorderanno la versione intitolata "Senza luce".

A prendermi - allora come oggi - nell'originale dei Procol Harum è la magica commistione di rock e fascino barocco.
Mentre il testo - forse la storia di due innamorati che si lasciano - ha un significato
oscuro e ci conduce in un'atmosfera surreale che talora può sembrare frutto di un'allucinazione, la musica con effetti molto suggestivi accosta ricordi bachiani e non solo, alla grintosissima voce di Gary Brooker.
I riferimenti al compositore tedesco, come tutti sanno, sono due: il secondo
tempo della "Suite per orchestra BWV 1068" - la celebre "Aria sulla quarta corda" - e la Cantata BWV 140 "Wachet auf, ruft uns die Stimme" altrettanto conosciuta.
Sbaglierebbe, tuttavia, chi volesse ritrovare nel brano l'esatta riproduzione di
questi pezzi, perchè ad ispirare il gruppo non sono state tanto le singole melodie bachiane, ma l'impianto armonico che le sostiene.
Inoltre, nella bellissima introduzione orchestrale che il video ci propone,
avvertiamo suggestioni che - a mio modesto avviso - si possono ricondurre non solo a Bach, ma anche al barocco italiano, da Vivaldi ad Albinoni. 

Certamente, dopo questo esordio dall'atmosfera assorta e intensa, risulta ancora più marcato ed entusiasmante l'ingresso del solista. Il contrasto tra il timbro duro e graffiante della sua voce con il ritmo morbido e disteso dell'orchestra qui accompagnata anche dal coro, è di una bellezza da brividi. Efficacissimo, infatti, l'accostamento del rock a una musica dall'afflato religioso, carattere questo che affiora poi nella conclusione in tutto e per tutto simile a quella di un pezzo sacro. 

Infine, mi piace dedicare alla straordinaria voce di Gary Brooker, scomparso proprio qualche giorno fa a 76 anni, la rosa che vedete nella foto.
Si tratta di una particolare varietà che porta proprio il nome della canzone.

"Una tonalità più pallida del bianco" - questa potrebbe essere la traduzione di "A
Whiter Shade of Pale" - si riferisce probabilmente alla delicatissima sfumatura di colore dei petali più esterni ottenuta da un ibrido di tea, mentre il centro del fiore è lievemente rosato.

Buona visione e buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

mercoledì 16 febbraio 2022

Stanze - 2

Antonello da Messina: "San Gerolamo nello studio" (particolare)













 

È uno studio la stanza di oggi, l'ambiente di una casa che più mi affascina perchè per me è sinonimo di quiete appartata, silenzio, riflessione e di tanti, tanti libri. Un angolo in cui inabissarsi nella lettura, dove rifugiarsi a pensare, circondati e - oserei dire - avvolti da oggetti con i quali si sia stabilita una familiarità di lunga data; un luogo in cui sostare non solo per la necessità, ma soprattutto per il piacere dello studio.
E a questo scopo, ho sempre preferito stanze non troppo grandi che favorissero una
certa intimità e dove i libri fossero a portata di mano.

Il dipinto che vedete ci presenta invece un ambiente diverso, di dimensioni più ampie e articolate, ma ugualmente affascinante nella sua originalità.

Si tratta di una celebre opera di Antonello da Messina (1430 - 1479) : il "San Gerolamo nello studio" conservato alla National Gallery di Londra.
Numerosi sarebbero i dati da riportare su questo quadro per il quale l'artista ha
probabilmente preso spunto - oltre che dal suo maestro Colantonio - dalla pittura fiamminga e in particolare da un dipinto analogo di Van Eyck; ma qui mi piace soffermarmi proprio sullo spazio in cui Antonello ha ambientato la composizione.

È una stanza del tutto singolare per vari motivi, a cominciare dalla sua struttura architettonica che vediamo inserita in un' ulteriore cornice muraria dipinta dall'autore. La prima impressione è proprio il contrasto tra il quadro di piccole dimensioni - 45,7 x 36,2 cm. - e lo spazio che invece al suo interno si dilata, articolandosi prospetticamente in diversi ambienti. Ma singolare è anche l'adozione di due differenti stili architettonici: gli archi a tutto sesto nella parte inferiore della grande stanza, e quelli gotici nelle vele del soffitto.

Sembrerebbe l'interno di una casa e al tempo stesso di una cattedrale: al centro è situato infatti il vano aperto dedicato allo studio, con ai lati corridoi e finestre che ci conducono sullo sfondo, verso il paesaggio e la vita del mondo esterno.
Ma le bifore lobate e le arcate ogivali che coprono
il vasto ambiente gli conferiscono la severità e la solennità di un luogo sacro.

Proprio tali aspetti mi sembrano la cifra più significativa del dipinto, perché dalle caratteristiche dell'architettura vanno a riflettersi sulla figura del Santo. Rappresentato da Antonello probabilmente mentre lavora alla traduzione in latino della Bibbia - la "Vulgata" - e tuttavia non inserito nel contesto dell'epoca in cui è vissuto (IV - V sec. d.C) ma in quello quattrocentesco dell'artista, Gerolamo ci appare qui serio e concentrato nella lettura.

E insieme all'espressione severa del volto, solenne è anche l'abito: l'ampio mantello rosso con cui Antonello lo riveste insieme al cappello cardinalizio posato lì accanto.
È come se, scegliendo di
rappresentarlo in questa iconografia e non in quella di penitente nel deserto come altri pittori avevano fatto, l'artista avesse voluto inquadrarlo in ambito umanistico, mettendo in luce il valore della missione culturale a cui Gerolamo ha dedicato tutta la propria esistenza. 

Interessante, a questo proposito, il particolare delle pantofole lasciate dal Santo ai piedi della scaletta, come se salire quei gradini per immergersi nello studio richiedesse la dignità di un cambio d'abito, sia mentale che fisico.
Una dignità dello studio che, nel tempo, ha ispirato anche altri uomini di
cultura e che mi ha ricordato il Machiavelli quando - nella lettera al Vettori del 1513 - parla dei panni reali e curiali con cui si vestiva al momento di dedicarsi alla lettura dei classici. Chissà mai che non avesse presente questo dipinto realizzato da Antonello quasi quarant' anni prima?!

San Gerolamo mi pare quindi nello studio in duplice senso: fisicamente nella stanza, ma spiritualmente nell'impegno di fine traduttore e interprete delle Sacre Scritture nel quale è immerso. E il fatto che cuore della composizione sia proprio il lavoro sui testi è suggerito da una piccola ma evidente asimmetria. Al centro esatto del dipinto infatti, non sta il Santo, perchè - a ben guardare - la colonnina della bifora in alto, peraltro sfasata rispetto alla divisione degli scaffali, non è in asse con lui, ma col libro che sta leggendo.

Inoltre, intorno alla sua persona anche gli animali e gli oggetti, con i loro molteplici significati simbolici, sembrano sottolineare il valore culturale e religioso del suo compito. Ne deriva una rappresentazione ricca di dettagli nella quale Antonello ci offre ora scorci di nature morte, ora aperture di paesaggio, rivelando un gusto del particolare che rimanda da un lato ai caratteri della pittura fiamminga, e dall'altro a un realismo e una libertà prospettica pienamente rinascimentali.

Ce lo suggeriscono gli animali in primo piano e - nell'ombra, sotto le arcate della parte destra del quadro - il leone che quasi sempre affianca il Santo in numerose rappresentazioni ispirate a un'antica leggenda.
Ce lo suggeriscono gli oggetti posti
sugli scaffali del mobile in legno che fa da scrivania e libreria insieme: uno spazio che, all'interno della grande stanza, recupera una dimensione di intimità e, tra elementi rettilinei e curvilinei, costituisce una vera e propria architettura. Basta infatti osservarne la parte inferiore che poggia sul pavimento disegnato in prospettiva, per vedere come il pittore abbia creato un effetto di profondità.

Ma ce lo dicono anche i tanti libri aperti che arricchiscono l'interno della stanza, i vasetti con le pianticelle, fino al crocifisso e all'asciugamano appeso alla parete.
Nè si possono dimenticare i
particolari che delineano il panorama esterno: dagli uccelli che volano in cielo dietro le bifore, ai due splendidi paesaggi sullo sfondo.
Ed è mirabile come, in uno spazio esiguo,
Antonello abbia rappresentato un mondo così ampio e variato, fatto di prati, alberi, edifici, un corso d'acqua solcato da due barche e altri dettagli ancora, fino a quelle colline che si aprono verso l'orizzonte con un respiro arioso. 

Una stanza quindi che ci mostra interno ed esterno insieme, quasi fossero spazi segnati da due differenti dimensioni, una sacra e l'altra profana.

E passando alla musica, ho sentito subito che, per meglio entrare in sintonia con l'atmosfera dello studio di San Gerolamo, mi occorreva un brano che avesse rigore e severità.
Così, sono tornata ancora una volta a Bach e del compositore tedesco ho scelto il "Preludio
n.12 in fa minore BWV 857" dal I libro del "Clavicembalo ben temperato".
Si tratta di una melodìa pacata e austera nella quale
due voci si intrecciano con intensità crescente, andando ad esplorare con continuità e scorrevolezza ogni possibile approfondimento del tema.

Ho scelto qui la versione per organo non solo perchè la particolare sonorità dello strumento mette in luce la struttura polifonica del brano, ma anche perchè mi pare si adatti meglio al dipinto che vede la stanza dello studio in parte simile all'interno di una chiesa.
Ma, oltre alla struttura architettonica, il carattere di sacralità è insito nella figura stessa di Gerolamo e soprattutto nel modo con cui Antonello lo raffigura, cogliendo la sua profonda dedizione allo studio.

Buon ascolto!

(Tutte le foto sono prese dal web)

mercoledì 9 febbraio 2022

Bookshop

Ho sempre nutrito un'insana passione per i bookshop dei musei, quei negozi che, a fine percorso, consentono di acquistare non solo guide, libri d'arte e poster, ma anche articoli di cartoleria insieme a varia oggettistica relativa alle opere viste.

Qui, ho sempre fatto incetta soprattutto di cartoline perchè - anni fa - le usavo a scuola insieme ad altra documentazione, per illustrare agli studenti i vari periodi storico-artistici con immagini che fossero eloquenti ancor prima delle parole. In un cassetto della mia libreria, conservo infatti proprio le cartoline delle più significative opere d'arte conservate in tante città - Firenze, Venezia, Ravenna, Siena, Roma, Parigi, Vienna e altre ancora - insieme alle guide delle gallerie visitate.
Tornavo da ogni viaggio con un carico prezioso di materiale che avrei poi condiviso,
per ripercorrere lo splendore di un itinerario culturale.
E anche se oggi, ormai, la documentazione che mi porto a casa consiste soprattutto
in foto scattate col cellulare, non per questo la mia passione per i bookshop è venuta meno.

Ricordo - anni fa - il mio incanto al "Museo d'Orsay" a Parigi, davanti agli splendidi volumi sulla pittura impressionista; e in seguito al "Museo Condé " nel Castello di Chantilly di fronte a un testo, che avevo poi comprato, con le riproduzioni delle miniature del Ciclo dei Mesi dei fratelli Limbourg.
Al bookshop dell' Ermitage di San Pietroburgo invece, per la serie "E quando mi
capita ancora di venire qui?..." avevo indugiato un po' troppo.
Così ero rimasta in fondo alla comitiva e naturalmente ero uscita dalla parte
sbagliata: invece che nel grande piazzale d'ingresso, ero finita sul lato dove scorre la Neva e per ritrovare il gruppo avevo dovuto fare il giro dell'intero isolato...non so se mi spiego! Senza contare il fatto che la telefonata a mio marito per dire che stavo arrivando e che - per carità! - mi aspettassero al pullman, mi era costata un patrimonio.

Ma perchè queste divagazioni in libertà? Perchè tutti i santi giorni, quando sono davanti ai fornelli, ho sotto gli occhi la presina che vedete in foto e che - pure lei! - viene dal bookshop di un museo, precisamente del "Museo Nazionale Giuseppe Verdi" di Villa Pallavicino nei dintorni di Busseto.
C'ero stata qualche anno fa d'inverno e ricordo ancora il freddo di quelle sale.
In ognuna di esse erano ricostruite le scenografie originali delle opere del
compositore, insieme a costumi e dipinti dell'epoca, ma - dico la verità - non mi avevano poi affascinato più di tanto. Mi era piaciuta invece - quella sì! - la Sala di Musica col pianoforte a coda e un altoparlante dal quale erano diffuse note verdiane. Giuro che da lì, freddo a parte, non me ne sarei più andata.

Finito il giro, ero finalmente approdata al bookshop, piccolo ma strapieno di materiale: libri sulla
vita e le opere del compositore, testi di critica musicale, confronti con altri musicisti, cd con vari interpreti, partiture...insomma, avevo davvero l'imbarazzo della scelta. Ma, avete presente quando non si riesce a decidere? E per di più una vocetta segreta vi dice: "Ma sei sicura che poi leggerai 'sti libri senza accantonarli in un cassetto?"
Ecco, è stato questo dubbio a trattenermi. Cosi, me ne stavo andando a mani
vuote quando, davanti allo scaffale dell'oggettistica, lo sguardo mi è andato alla presina che vedete qui sopra e qualcosa, di colpo, mi ha bloccato:  

"Di quella pira l'orrendo foco"...??? Ma certo!!!

Verdi dovrà farsene una ragione, ma il collegamento tra le parole della celebre aria del "Trovatore" e la presina fatta apposta per non scottarsi mi è parso talmente azzeccato che non ho potuto fare a meno di comprarla subito, senza ripensamento alcuno. Detto e fatto dunque, anche se - sotto gli occhi allibiti della cassiera - ero stata colta da una crisi di irrefrenabile ilarità perchè io stessa mi rendevo conto di come alla fine, tra tutta la documentazione del bookshop, avessi scelto - dai diciamocelo! - la cosa più sciocca. Ma insomma, è andata così.
Del resto, la presina è graziosa e riporta pure le note iniziali del brano: mi
mi mi mifamifamiiiii, do do do sollasollasooool...e se volete potrei anche continuare ma forse è meglio di no. 

Allora, oggi facciamo una veloce incursione nella lirica, e per giunta con la voce del nostro grande Pavarotti che, nonostante la tragicità del momento in cui canta nei panni di Manrico, ha sempre un'energia capace di mettermi di buon umore.
Si tratta appunto dell'aria "Di quella pira..." dal terzo atto dell'opera "Il trovatore"
di Giuseppe Verdi (1813 - 1901).
Il brano è una celeberrima cabaletta - classico pezzo di bravura collocato di solito
nella parte finale di un atto o di una scena - che nel tempo ha dato modo ai vari tenori di mostrare la propria abilità e potenza vocale.
Qui, in particolare, Pavarotti ci dà la possibilità di apprezzare due splendidi do di
petto che riconoscerete facilmente, il primo sulla te di teco e il secondo alla fine nel grido all'armi. In realtà, tali acuti non sono previsti nell'originale partitura verdiana, tuttavia sono ormai entrati nella tradizionale prassi canora di tanti tenori al punto da essere sempre molto attesi dal pubblico, e anche dalla sottoscritta.

Buon ascolto!

 

mercoledì 2 febbraio 2022

Semi sotto la neve

Louis Dewis : "Snow in Auvergne"













 

Sarà forse perchè i giorni della merla di questo strano inverno ci hanno accompagnato - almeno qui da me - senza neve, che oggi mi piace contemplare il dipinto che vedete.
Come per altre immagini, lo tenevo da parte da tempo pregustando la gioia
di pubblicarlo al momento giusto per condividerne lo splendore e il silenzio.
Sì, è un paesaggio pieno di silenzio, non solo per la presenza della neve e la mancanza di figure umane e di
movimento, ma anche per il biancore della campagna e il grigio-rosato del cielo che creano un clima particolare.

Si tratta di una composizione di Louis Dewis (1872 - 1946), pittore belga del periodo post-impressionista.
È singolare al vita di questo artista che,
nonostante abbia mostrato fin da bambino grande predisposizione per la pittura, è stato ostacolato dal padre che lo ha avviato invece al mondo degli affari. È arrivato così a gestire una catena di grandi magazzini che ha fatto la sua fortuna economica.
La passione per i pennelli tuttavia non lo
ha mai abbandonato, anche se è rimasto una sorta di artista della domenica che, al di là dell'apprezzamento dei critici, dipingeva più che altro per se stesso.
Ed è forse questo dato a conferire alle sue
opere una particolare connotazione intima, come si può osservare dai suoi numerosi quadri di argomento paesaggistico.

Il dipinto che vedete è appunto uno di questi: s'intitola "Snow in Auvergne" ed è conservato al Museum of Art di Orlando, in Florida.
Qui, Dewis ha rappresentato un sentiero
in mezzo alla campagna innevata, tra vecchi casolari ed alberi spogli. Contemplando il panorama, sembra quasi che siamo invitati anche noi a incamminarci per quella stradetta solitaria, ad attraversare piano il paesaggio lievemente ondulato, lasciandoci pervadere dalla sua quiete così come dai suoi colori tenui e sfumati.

Mi immagino di percorrerlo in un momento in cui il cuore avverta il bisogno di essere rasserenato. Accade spesso che la natura intorno a noi sappia infondere pace e i paesaggi innevati sono tra i panorami più straordinari a questo riguardo.
Non per niente la neve è stata oggetto di attenzione da parte di tanti
Impressionisti - Monet e Sisley tra i primi - le cui opere certo Dewis conosceva.

Ma se da un lato, nei suoi quadri l'artista si ispira prima di tutto a Corot, dall'altro il suo tratto pittorico denso e corposo lo pone in linea con un più profondo realismo che - non pago della pura riproduzione del singolo istante - attraverso la memoria tende a creare risonanze emotive in ciò che raffigura.
È anche questo il motivo per cui Dewis raramente dipingeva dal vivo.
La sua pennellata, infatti, è ancor più materica di quella dei suoi
predecessori. Basta osservare i particolari qui riportati per comprendere quanto luce e colori siano fusi in un impasto che, pur senza cogliere i dettagli delle varie immagini, ce ne restituisce la bellezza con intensa suggestione.

Come scrivevo sopra, nella patina di colori lievemente rosata quasi fosse una luce crepuscolare, regna l'incanto del silenzio; e così pure nei vecchi casali addormentati nella campagna, alcuni in primo piano, altri da scoprire in lontananza, disseminati qua e là.
Ma il cielo fosco nel quale si addensano
cupe nubi, non infonde tristezza: al contrario, il paesaggio nella sua atmosfera di sogno e di attesa, mi induce a pensare a come l'inverno, sotto lo stupore della neve, custodisca semi di rinascita e di speranza insieme al desiderio di un calore che affiori dall'anima.

Così, mi piace associare alle immagini un brano di Chopin tra i più leggiadri: il "Notturno in sol minore op.37 n.1".
Il pezzo si compone di tre parti: in apertura una dolce melodia sognante, ripetuta poi con tratti più intensi e toccanti; nel mezzo, una sezione che può ricordare l'atmosfera pacata e solenne di un antico corale; infine la ripresa del tema iniziale meravigliosamente articolato e sfumato.
Struggente e malinconico, ma non privo di squarci luminosi, questo brano
mi pare abbia il pregio di una non comune ricchezza di sonorità chiaroscurali, caratteristica peraltro tipica del compositore ma qui - a mio avviso - molto più evidente. Me lo suggeriscono le delicate fioriture di arpeggi, i frequenti passaggi dalla tonalità minore alla maggiore, dal pianissimo al forte e viceversa, e il talento di Chopin - ma anche del suo straordinario interprete - nel coniugare talora il clima intimo del brano con un respiro di note più energico e vivo.
Note che mi riportano al paesaggio dipinto da Dewis, dove il nostro sguardo
s'inoltra nella solitudine della campagna innevata, tra nubi cupe e squarci di luce, a covare segreto furtivi presagi di un tempo di rinascita.

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)