domenica 28 febbraio 2021

"Fossili"

Giunti alla fine di febbraio, mese breve, bizzarro e carnevalesco, sento anch'io il desiderio di abbandonarmi a qualche stranezza.
Lo so, il carnevale è già finito da giorni e
un post come questo rischia di essere anacronistico, ma - che volete?! - mi capita spesso di fare cose un po' fuori stagione e allora abbiate pazienza se mi lascio prendere da un guizzo di follia!
Tranquilli, non ho intenzione di mettermi in maschera, ma
vi propongo un brano molto breve come appunto questo mese, e per tanti versi divertente.

Conoscerete di certo "Il carnevale degli animali" di Camille Saint-Saëns (1835 - 1921) a cominciare dal "Cigno", senza dubbio il pezzo più celebre.
Si tratta di una fantasia a tema zoologico scritta per il martedì grasso nella quale
l'autore, se da un lato costruisce splendide armonie imitative - ascoltate "Aquarium" dove flauto e celesta riproducono la fluidità acquatica e "Il cucù nel bosco" col clarinetto ne imita il canto! - dall'altro si diverte a prendere in giro musicisti e critici dell'ambiente parigino.
Troviamo infatti 14 movimenti in cui compaiono animali diversi - dall'elefante
alla tartaruga, dai canguri agli uccelli - dei quali Saint-Saëns sottolinea l'incedere più o meno leggero o pomposo, elegante o goffo, spesso con intento satirico e un po' caricaturale. Musica descrittiva quindi, ma non solo.

Questo spiega il fatto che l'autore - che probabilmente aveva scritto l'opera per proprio privato diletto - ne aveva proibito l'esecuzione pubblica fino alla sua morte temendo che potesse sminuire la sua immagine di musicista serio.
In realtà, l'opera in seguito ha avuto grande successo proprio per quel lampo di
ironia con cui Saint-Saëns, attraverso gli animali, ridicolizza svariati stili e comportamenti.
Ma l'aspetto che in questi brani mi ha attratto maggiormente è la ripresa,
in chiave canzonatoria, di altri celebri pezzi musicali che il compositore ha inserito nei suoi. E siccome a carnevale ogni scherzo vale e per un giorno il mondo si può ribaltare, di alcuni stravolge il ritmo e associa volutamente altri all'animale meno adatto. Troviamo così le tartarughe che ballano il "Can-can" di Offenbach, e gli elefanti cui viene dedicata la leggerezza della "Danza delle silfidi" di Berlioz.

Al di là di questi capovolgimenti, mi ha colpito molto il pezzo che oggi vi propongo intitolato "Fossili" e che già dal titolo la dice lunga.
Qui probabilmente l'autore si riferisce ad alcuni musicisti del passato, ma anche ai critici del suo tempo dei quali - con questo
termine e senza tanti complimenti - bolla la mentalità antiquata, incapace di aprirsi alle novità di fine Ottocento.
Si tratta di un pezzo vivace e divertente in cui protagonista è lo xilofono che, col suo suono secco e metallico, richiama proprio il rumore di vecchie ossa.

Per entrare in argomento, con simpatica ironia Saint-Saëns inizia citando se stesso: a far da cornice al pezzo è infatti la sua famosa "Danza macabra" che è macabra proprio perchè ambientata in un cimitero dove gli scheletri escono dalle tombe. Ma ricorrono anche altri riferimenti: prima un canto popolare ripreso da Mozart nell' aria con variazioni "Ah! Vous dirai-je maman", croce e delizia di chissà quanti studenti di pianoforte; poi una canzone di tono marziale molto in voga all'epoca, attribuita a Ortensia di Beauharnais; infine - riconoscibilissima - la celebre "Cavatina di Rosina" dal Barbiere di Siviglia di Rossini. 

Ne deriva un pezzo variegato e composito, una sorta di allegro patchwork come quando - non so se a voi capita, a me sì! - si canticchia una melodia ma si finisce in un'altra o si cuciono insieme, in totale e sfrenata libertà, arie diverse alterandone il ritmo.
Qui, sembra quasi che il musicista ironizzi su tutto quanto è più famoso o più
eseguito facendone un fascio come non fosse altro che vecchiume. O forse è solo animato da una spassionata voglia di scherzare, tant'è vero che l'indicazione in cima alla partitura del brano è "Allegro ridicolo".
E ve lo propongo in un gustosissimo video in cui questa musica è
stata opportunamente adattata alle animazioni di un celebre cortometraggio di Walt Disney del 1929, intitolato appunto "La danza degli scheletri".

 Buona visione e buon ascolto!

 

domenica 21 febbraio 2021

Impronte sul terreno

Penso capiti a tanti di svegliarsi la mattina con in mente una musica.
Può essere una melodia, un ritornello, una colonna sonora, un'aria che si è depositata in noi magari senza che ce ne accorgessimo, ma che ha lavorato in segreto durante il sonno per poi
riaffiorare in modo totalmente libero.
Note come madrepore - scrivevo
tempo fa - che si staccano a un tratto da un fondale marino per affiorare in superficie.
Credo infatti che la musica abbia una sua autonomia e
tenda a lasciare un'impronta anche in chi l'ascolta in maniera del tutto casuale.
Certo, che essa vi rimanga impressa o meno dipende dalla sua forza e insieme
dalla consistenza del terreno che incontra. Altro è un pavimento di marmo, altro un campo arato, una distesa di sabbia in riva al mare o una coltre di neve intatta. Così pure, altro è un segno superficiale come un graffio e altro ancora una ferita o un'orma dal profondo spessore.
Tuttavia, a restare in noi talora non è una melodia compiuta, ma magar
i solo la suggestione di un passaggio, l'intensità di un'atmosfera orchestrale o di un accordo dissonante: suoni che abbiamo assorbito e che a volte ritornano con tempi o modalità tutte loro, ma che ritroviamo fusi col nostro sentire.
Ed è una meraviglia che sempre sorprende.

Ricordo - la prima volta che ho visto il film "Platoon" - di essere stata profondamente colpita dalla sua colonna sonora pur non avendo idea di che cosa fosse. In realtà, quella musica mi è rimasta nel cuore quasi a mia insaputa tanto che quando - in seguito e in altro contesto - ho sentito l'Adagio di Barber, mi sono accorta con stupore di averlo già dentro.
Ma capita anche di ascoltare un pezzo che a tutta prima può non piacere, e che
invece resta confitto in un angolo segreto della nostra mente a mandare segnali, come impulsi luminosi destinati ad aprire una strada nel buio.

Più o meno la stessa cosa mi è accaduta col brano di oggi: una musica molto conosciuta che tante volte avevo sentito nella colonna sonora di vari film o come sottofondo in tv, ma che - per quanto mi fosse rimasta dentro - non posso dire di aver subito apprezzato. Troppo triste, troppo languida e incline a una sorta di disincanto. Eppure...
Eppure, l'ho riascoltata giorni fa e mi ha preso proprio per il suo fascino lento, l'incedere
malinconico come se, nel frattempo, le sue note mi avessero lavorato l'anima. Si tratta della "Gimnopedia n.1", celebre pezzo per pianoforte scritto da Erik Satie (1866 - 1925) a soli ventidue anni, pezzo dal titolo singolare che fa riferimento a feste religiose dell'antica Grecia all'interno delle quali i giovani si esibivano in esercizi ginnici e processioni rituali.

È una musica dal tono malinconico - lent et douloureux recita la didascalìa
all'inizio - e dalla struttura semplice ma ricca di una suggestione meditativa che anticipa il minimalismo. Tuttavia, la definizione di "musica di arredamento" che Satie stesso darà alle sue ultime composizioni - e che talora viene applicata anche a questa - qui mi sembra riduttiva, quasi il pezzo non avesse un valore in sè per far solo da sottofondo ad altro.
Riascoltandolo, trovo infatti che il suo andamento ripetitivo e un po' monotono, insieme alle
dissonanze che in un primo tempo mi avevano disorientato, siano invece segno di un'intensa espressività. Mi cattura il ritmo lento e lievemente scandito delle battute iniziali che creano un clima indefinito. E nonostante il brano sia in Re maggiore, la sua armonia è così sfumata che talora non si avverte subito - o almeno così a me pare - se alcuni passaggi sono realmente in maggiore o in minore. Ma tale indeterminatezza diventa, a mio avviso, un valore aggiunto e innovativo.
Tuttavia, il fascino di questa musica nasce anche da quel silenzio tra le note che ci
fa percepire la durata, l'intensità, il timbro, il riverbero di ogni singolo suono. Un riverbero messo particolarmente in luce dalla morbidezza dell'interpretazione di Khatia Buniatishvili, e capace di infonderci uno stato di quiete contemplativa.

Buon ascolto!

 

domenica 14 febbraio 2021

Dettagli

Sarà che sono un po' strana, ma quando ho in mano un libro nuovo, vado subito all'ultima pagina per vedere come finisce.
Ma non fraintendetemi, non è per
sapere come si conclude la storia, se di storia si tratta, per scoprirne l'ipotetico lieto fine e non aver sorprese nel corso della lettura. Non è insaziabile curiosità la mia, ma interesse per il modo in cui lo scrittore si pone verso la sua opera e i suoi personaggi perchè - oltre all'incipit e al corpo del racconto - anche la conclusione è rivelatrice.
Così, vado spesso a leggere proprio l'ultima frase di un testo per capire se in essa l'autore chiude davvero o ci lascia in sospeso, se suggerisce una morale, si apre o meno a una speranza, se fa spazio alla battuta di un dialogo, a un colpo di scena o lascia parlare per esempio il paesaggio.

Ci sono testi che terminano con la conclusione vera e propria della trama, altri con una considerazione di carattere generale come se lo scrittore guardasse dall'alto la sua opera, altri invece con una domanda. E si potrebbe continuare. Ciò dipende spesso dal punto di vista dell'autore nei confronti del proprio scritto, dallo sguardo interno o esterno ad esso, il che non è sempre un aspetto puramente formale, ma ci parla anche del suo modo di essere.

Non solo. Se alla fine del libro c'è una paginetta coi ringraziamenti, leggo
avidamente anche quella perchè è interessante comprendere la personalità di chi scrive in quella parte che a volte non emerge totalmente dalla finzione letteraria. Se infatti i ringraziamenti non si riducono a uno scarno elenco di nomi come spesso capita, dal tono con cui l'autore cita le varie persone o dai particolari che talora aggiunge, emergono sempre tratti del suo carattere. Così, il mio diventa un leggere tra le righe, cogliendo dettagli che compaiono qua e là in filigrana come spiragli di luce da una porta socchiusa.

Ma perchè queste considerazioni in libertà? 
Perchè passando dai libri alla musica, mi sono accorta che anche in uno spartito
le cose funzionano un po' allo stesso modo, e la personalità del compositore si svela talora in tanti piccoli particolari come pure nel costruire la conclusione.
Certo, i caratteri di un brano musicale - come del resto in un'opera
letteraria - oltre che dall'ispirazione, dipendono di epoca in epoca da stili e precise regole compositive. Tuttavia anche in tali procedimenti, ci sono spesso dettagli che la dicono lunga sul loro autore.
Come i brani di Bach all'interno del loro matematico rigore ci aprono la sua anima, così alcune composizioni di Chopin ci parlano della sua delicatezza. Quanta suggestione - per esempio - in molte sue melodie
riprese a volte in modo apparentemente uguale, ma nelle quali in realtà muta il ritmo di una battuta, la nota di un accordo o vi si aggiunge qualche abbellimento! Finezze in cui Chopin è maestro e che sono specchio della sua sensibilità.

Se poi di un brano consideriamo le battute conclusive, troviamo ancora altri esempi. Andiamo dalla pacata luminosità dei finali di Piccardia di tanti autori barocchi dove l'ultimo accordo di un pezzo in minore vira dolcemente in maggiore, a certe chiuse di Haendel, lievi e ariose come un respiro; o dal modo ridondante ed enfatico con cui Beethoven conclude la Quinta Sinfonia, ad alcuni pezzi di Alban Berg che sembrano perdersi nel nulla.
Vero, sono epoche e stili diversi, ma certi particolari non indicano soltanto una forma, ma
anche la personalità che vi sta dietro. E se talora sono espressione di un determinato linguaggio, spesso ci parlano anche della delicatezza, della profondità o del fuoco di un carattere. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Così, oggi sono andata a prendere un brano che adoro per la vivacità del suo andamento e lo splendore della sua conclusione, ma anche - detto tra noi - per averlo suonicchiato qualche tempo fa.
Si tratta della "Fuga n.7 in Mi bemolle maggiore BWV 852" dal primo libro del
"Clavicembalo ben temperato".
Bach naturalmente - forse non occorre neppure precisarlo - non però nella
versione originale, bensì in quella per archi del "Borromeo string quartet", ensemble che è stato per me una recente e bellissima scoperta dato il fascino dei suoi arrangiamenti. A dire il vero, vi sono approdata dopo lunga e affannosa ricerca perchè ogni interpretazione alla tastiera, anche da parte di esecutori di prestigio, mi pareva troppo veloce. Questa trascrizione per archi invece, mentre ci consente da un lato di cogliere con chiarezza la struttura polifonica del brano nell'intreccio delle sue voci, dall'altro grazie alla velocità non eccessiva ci permette di apprezzarne il finale.

È proprio quello che vedete nelle due battute della foto in alto, tratte dal testo
bachiano della Fuga, un' articolazione di note caratterizzata da uno splendido dettaglio: ad essere tenuto più a lungo, infatti, non è solo l'accordo finale - come spesso accade e come indica il segno grafico della corona - ma anche quello con cui inizia l'ultima battuta.
Vi troviamo infatti due MI bemolle da 4/4 che sembrano concludere, ma in realtà
aprono uno spazio di attesa, una sorta di cadenza all'interno della quale si dipana una lieve zona d'ombra con altre modulazioni. Ed è solo dopo questo passaggio che la conclusione in maggiore si conferma definitivamente.
Una battuta simile a una piccola sosta, una pausa di riflessione sulle soglie della
chiusura che arricchisce l'accordo di più intenso spessore. Un Bach che fa scaturire profondità da profondità.
Un finale che - se qui è stupendo - suonato all'organo con
grandiosa e solenne lentezza, a mio modesto parere sarebbe assolutamente strepitoso!

Buon ascolto!

 

sabato 6 febbraio 2021

In cerca di leggerezza - 2



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sempre sull'onda della ricerca di leggerezza, oggi desidero condividere con voi un celebre dipinto di Vassily Kandinsky (1866 - 1944) dal quale lasciarci portar via quasi in volo. Si tratta di "Blu di cielo", conservato a Parigi presso il museo del "Centre Georges Pompidou".
È proprio il colore di sfondo del quadro, con la sua particolare gradazione, a
suggerirci l'idea di uno spazio in cui librarsi sbrigliando la fantasia come in quei sogni in cui ricordi, realtà, suggestioni e subconscio si fondono in un insieme bizzarro e funambolico. Una rappresentazione che affascina perchè sembra andare al di là di ciò che percepiamo sul piano puramente fisico.

Il dipinto è stato realizzato nel 1940, nella fase finale della vita di Kandinsky in cui dalla pittura figurativa era ormai giunto all'Astrattismo, culmine di quel percorso artistico che, dalle Impressioni e attraverso le Improvvisazioni, lo aveva condotto a creare poi le Composizioni.

Si tratta di un cammino che, dietro la progressiva dissoluzione della figura, sottintende però solo in apparenza la volontà di rappresentare un universo astratto: in verità, vuole essere espressione di quel mondo nascosto - non fisico e tuttavia reale - legato alla dimensione interiore dell'individuo.
A tale scopo, Kandinsky si serve
principalmente dei colori ai quali attribuisce non solo un simbolismo, ma anche una vibrazione che si traduce in capacità di risonanza e quindi in musica, tanto che - secondo il pittore - come in una sorta di sinestesia ciascun colore può evocare un suono.
Nel suo libro "Lo spirituale dell'arte" l'artista scrive infatti: "In generale il colore è
un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’ occhio è il martelletto. L’ anima è un pianoforte con molte corde. L’ artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima."

L' azzurro in particolare, nelle sue varie gradazioni fino al blu, è la tinta che Kandinsky predilige perchè, nell'emozione che esso suscita, richiama la dimensione spirituale dell'infinito e può evocare il suono di un flauto o di un organo.

Ma, parlando del legame tra pittura e musica, oltre
al rapporto che l'artista stabilisce tra colori e suoni, e ai titoli di talune opere in cui prende a prestito termini musicali come appunto improvvisazioni e composizioni, non si può ignorare il fitto carteggio con Arnold Schönberg.
La rivoluzione con cui il pittore sovverte i canoni
della riproduzione figurativa orientandosi verso l'astratto, prende spunto infatti da quella del musicista viennese che, con l'atonalità, rompe le tradizionali regole della musica del passato: mutamenti in qualche modo simili che s'inquadrano in quel vasto movimento di trasformazioni che - nella prima metà del Novecento - coinvolge le arti. Ma torniamo al dipinto.

"Blu di cielo" è celebre dunque per la sua gradazione di colore, ma non solo. Il suo spazio infatti non è vuoto e in esso fluttuano misteriose figure: un mondo di microorganismi legati a quello stile biomorfo che - a seguito dei suoi studi di biologia - l'artista aveva inaugurato qualche anno prima.
E l'attenzione verso ciò che è così piccolo da risultare quasi invisibile
rende la sua ispirazione ancor più fantasiosa fino a fargli creare geometrie nuove e inusitate, non più riconducibili a quelle di tanta produzione precedente.

Cosa vediamo, infatti, nel dipinto? Figure strane talora filiformi, talaltra più complesse e articolate, creature composite in cui possiamo ravvisare meduse, pesci, tartarughe, uccelli, ma pure giocattoli, cavalli a dondolo e palloncini, in cui forme, dimensioni e colori sono rimescolati in un insieme più che mai fantasioso e - a mio avviso - anche un po' clownesco.

Sono figure libere nello spazio, eppure non disposte a caso, ma con grande armonia e direi con ritmo, sia nell'alternanza delle tinte - soprattutto rosse e gialle - che in quella delle dimensioni ora grandi ora più piccole.
E mi vengono in mente certi dipinti di Mirò - per
esempio "Il carnevale di Arlecchino" o "Il giardino" realizzati una quindicina di anni prima - dal cui surrealismo probabilmente Kandinsky è stato
influenzato.
Ne deriva un insieme giocoso e stravagante, bizzarro e arioso per quella
gradazione di blu dello sfondo in cui i vari oggetti sembrano scendere dall'alto e al tempo stesso restare sospesi in un'aura di svagata leggerezza.

E la stessa atmosfera viva e giocosa caratterizza anche il brano di oggi.
A questo punto, dopo quanto ho scritto, immagino che sarebbe stato coerente
associare al dipinto la musica di Schönberg...e invece no! Il pezzo da cui sono stata irrimediabilmente presa è un altro e - rispetto a Kandinsky - ci fa tornare indietro nel tempo.
Si tratta infatti della "Sonata in do minore C66" di Domenico Cimarosa (1749-
1801), compositore della scuola napoletana, celebre - a dire il vero - per le sue numerose opere di teatro più che per quelle strumentali.
Tuttavia le sue Sonate per tastiera, per quanto brevi e talora brevissime,
hanno un brio e una ricchezza creativa che ci riportano indietro, alla vivacità dello stile barocco nei suoi tratti di elegante leggerezza.
Proprio questo aspetto è messo splendidamente in luce dall'interpretazione del
Maestro Giuseppe Merli, non solo per la bellezza del fraseggio, la perfezione degli abbellimenti o la sottolineatura dei vari contrasti, ma anche per la gioia trasparente che ci restituisce.
Lo vediamo infatti mentre sembra cantare le note a fior di labbra con
una concentrazione e un entusiasmo che gli consentono di vivere la musica dal suo interno e insieme di trasmettercene il gusto profondo.

Buon ascolto!