martedì 29 giugno 2021

Senza...

L'estate è iniziata, il caldo pure, le vacanze forse e allora dai...oggi cambiamo decisamente argomento e parliamo di piacevolezze gastronomiche.
Non so voi, ma io - se
ho tempo - mi diverto a curiosare tra i siti di cucina. Ce ne sono di bellissimi dove competenza e praticità sono unite a grande raffinatezza, a cominciare da quello dell'amica blogger Patrizia Malomo intitolato "Andante con gusto", che è una vera gioia per gli occhi e per il palato.

Preciso subito che ai fornelli me la cavo con dignità, ma non sono quel che si dice una brava cuoca. Anche per questo amo prendere spunto dai vari siti sull'argomento, compresi quelli con annesso video che - fase per fase e in men che non si dica - illustrano la preparazione di torte, biscotti, semifreddi e creme. Così, m'illudo di poter raggiungere gli stessi risultati, anche se - ahimè - i miei a volte lasciano un po' a desiderare.

Proprio in alcuni di questi angoli del web mi hanno colpito da un po' di tempo i titoli dei post perchè parecchi, nell'intento di vantare le proprietà dietetiche di torte, creme e via dicendo, non sbandierano tanto gli ingredienti che ci sono, ma quelli che non ci sono!
"Senza olio, senza burro, senza zucchero, senza farina, senza lievito, senza panna
..." come se quel senza fosse la parolina magica, lo specchietto per attirare il lettore. È pur vero che, se poi leggete gli articoli, andate a scoprire che non c'è zucchero ma miele o altro dolcificante, e fin qui mi va bene; non c'è burro ma yogourt e sono d'accordo; al posto del lievito il bicarbonato, e passi. Ma scrivere senza panna e poi metterci il mascarpone, eh no, questo non vale!

C'è però una seconda categoria di siti dove i vari senza rispondono tristemente a nuda verità. Tu leggi e ti dici: "Ma com'è possibile?..."
È possibile, ve lo assicuro. Una volta mi è stato regalato un dolce fatto seguendo
proprio questi dettami: "Stai tranquilla - mi aveva detto la cuoca - non ci ho messo uova, nè burro, nè olio, nè zucchero...".
A dire il vero, sarei stata tranquillissima anche se fosse stato fatto con questi ingredienti. Mi aveva impensierito invece
la sua pasta sottile, crudarella, il suo colore un po' triste, anzi, tristanzuolo come mi aveva detto una volta la commessa di un negozio a proposito di un abito dai colori spenti e il termine mi era rimasto impresso. Tristanzuolo, sì!

Istintivamente, mi ero ricordata di alcuni dolci della mia infanzia che preparavano le nostre mamme per i giorni di festa: creme con otto uova, crostate con burro a volontà, ricette prese da antichi libri di cucina che ignoravano l'esistenza di colesterolo e trigliceridi! Certo, poi, dopo un po' di questo regime alimentare, potevi anche dare il tuo fegato al gatto di casa, perchè a te non serviva più.
Ma la gioia di questi pranzi era impagabile, per il palato e per gli occhi.

Eh sì, perchè anche l'occhio vuole la sua parte, come sapeva Josefa de
Obidos, la seicentesca pittrice portoghese che ha dipinto la "Natura morta con dolci" che vedete in alto, dando loro un bel giallo energetico e vitale.

Ora lo so, insorgeranno dietisti e vegani, dicendo che i vari senza sono in realtà un salvavita e - entro certi limiti - posso dar loro ragione. Ma oggi volevo sorridere con voi e soprattutto sottolineare il piacere del buon cibo e della tavola come luogo di gioia e convivialità.
Lo sapevano bene anche gli antichi per i quali un banchetto era così
importante da dover essere allietato con la musica. Ma è nel periodo rinascimentale e poi barocco che tale consuetudine diventa un vero e proprio genere: la musica da tavola. Svariati sono i compositori che scrivono brani a tale scopo, primo tra i quali Georg Philipp Telemann (1681 - 1767) con al sua Tafelmusik, definita - come recita il titolo originale - "Musique de Table partagée en Trois productions, dont chacune contient 1 Ouverture avec la Suite à 7 instrumens, 1 Quatuor, 1 Concert à 7, 1 Trio, 1 Solo, 1 Conclusion à 7 et dont les instruments se diversifient par tout". Un ricco insieme di brani da camera, quindi.

Tra questi, dall' "Ouverture in mi minore TWV 55" della "Tafelmusik Production 1" ho scelto la Giga. Il motivo è che, al di là della sua bellezza, questa musica fa riferimento a quella del grande contemporaneo di Telemann, Johann Sebastian Bach: lo stile delle Ouvertures, sia nella struttura che in certi spunti di contenuto, ricorda infatti le grandi Suites orchestrali bachiane.
Ma il brano che vi propongo, nel ritmo e soprattutto nell'esordio, mi richiama
anche un altro pezzo di Bach, famosissimo per una sua moderna rivisitazione. Lo riconoscerete facilmente dalle prime battute: si tratta della "Bourrée" dalla "Suite n.1 per liuto BWV 996" arrangiata nel 1969 dal gruppo rock dei Jethro Tull. Così possiamo ipotizzare che anche Telemann vi si sia ispirato, dato che il pezzo bachiano precede la sua Tafelmusik di una quindicina d'anni.

Ultima precisazione. Stranamente, la didascalia del video su youtube porta l'indicazione "Air, un peu vivement" che si riferisce a un movimento che precede la Giga, errore purtroppo ripetuto anche in altre registrazioni dove i due brani sono stati scambiati. Ma vi assicuro che questa - e lo anche si sente anche dal ritmo - è senza dubbio la Giga: per esserne certa sono andata a vedermi la partitura sul Petrucci Music Library che è la fonte più ampia di testi musicali.
Quindi, potete mettervi a tavola tranquilli!

Buon ascolto!

 

domenica 20 giugno 2021

Cose che fanno bella la vita

Da tre mesi ormai, ho salvato in computer l'immagine che vedete qui a lato, trovata navigando nel gran mare del web nei giorni precedenti al 25 marzo scorso, il famoso DanteDì !
Si tratta di una miniatura del XIV secolo
che rappresenta l'incontro tra Dante e Casella nel II canto del Purgatorio. Attribuita al Maestro degli Antifonari di Padova, fa parte della decorazione del celebre Manoscritto di Egerton (MS 943), uno dei più antichi codici della Divina Commedia, risalente circa al 1340 e conservato alla British Library di Londra. 

Anche l'iconografia ci suggerisce che siamo in pieno Medioevo, mentre le illustrazioni del poema dantesco forse più conosciute sono quelle realizzate in seguito, prima ispirate ai caratteri del Gotico internazionale, poi a quelli del Rinascimento con le miniature ferraresi e i disegni del Botticelli, fino alle celebri incisioni ottocentesche di Gustav Doré.
Qui invece, la monumentalità delle figure, l'essenzialità del racconto insieme alla
sua grande espressività ci riportano all'influsso dei dipinti di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, e non a caso l'autore della miniatura è padovano.
Che cosa mi ha affascinato in essa?
Come scrivevo, l'essenzialità in fondo un po' arcaica della rappresentazione,
soprattutto se paragonata alle successive illustrazioni del poema dantesco; una semplicità però non riduttiva e schematica, ma - proprio come l'arte di Giotto - capace di condurci con tratti sintetici al cuore della scena nella sua intensità emotiva. Basti osservare i due protagonisti protesi nel tentare un abbraccio.

Il racconto dantesco, del resto, è bellissimo. Giunti all'alba sulla spiaggia dell'Antipurgatorio,
Dante e Virgilio vedono arrivare una barchetta - "un vasello snelletto e leggero" - guidata da un angelo che porta le anime di coloro che devono salire alla montagna del Purgatorio. Una volta approdate, rimaste sole e un po' smarrite, queste si volgono ai due pellegrini chiedendo indicazioni sul cammino da prendere. Ma avvicinatesi, si rendono conto che Dante...respira, è un uomo in carne ed ossa! E gli si affollano intorno colte da grande stupore.

Una in particolare - l'anima di Casella che era stato un musico amico del poeta fiorentino
- gli si accosta nel desiderio di abbracciarlo, gesto che Dante istintivamente ricambia ma invano, essendo le anime prive di consistenza corporea. Tuttavia, riconosce l'amico dalla voce e gli chiede il motivo della sua presenza alle soglie del Purgatorio, pur essendo morto da tempo.
Dopo che Casella glielo ha spiegato, Dante desideroso di conforto per essere appena uscito dal tormentato cammino infernale, lo prega di cantare
come aveva fatto tante volte in vita, e Casella intona proprio una delle canzoni scritte dal poeta nel Convivio: "Amor che nella mente mi ragiona".
Così, tutti indugiano in gioioso ascolto
godendo della serenità della musica, totalmente presi dalla sua dolcezza e dimentichi della necessità di avviarsi al proprio cammino di purificazione. Li riscuoterà poco dopo Catone, custode del Purgatorio, esortandoli bruscamente a iniziare la salita penitenziale.

Al di là dei tanti aspetti che si possono analizzare nel testo e nei quali non intendo addentrarmi, l'episodio mi è sempre piaciuto molto.
Dopo l'arduo percorso attraverso l'Inferno, con l'ascesa al Purgatorio si
entra in un'atmosfera di sollievo e di speranza che cogliamo anche dagli splendidi scorci di paesaggio. Si ritorna alla luce: prima con la limpidezza del cielo notturno - quel "dolce color d’orïental zaffiro" cui si fa cenno all'inizio del canto I - e poi col sorgere dell'alba che, a chi come Dante esce dal buio, allieta l'anima e consente di contemplare in lontananza il "tremolar della marina".

Ma al di sopra di tutto, a colpirmi è la consolazione della musica insieme allo stupore e alla gioia dell'amicizia che fanno questo episodio ricco di incomparabile umanità, come pure quell'abbraccio mancato che - nell'attuale contesto della pandemia - può rendere la scena ancora più toccante.
E anche se essa si conclude con l'aspro rimprovero di Catone, a mio avviso ciò
non ne sminuisce lo splendore. È bellissimo infatti che, proprio qui, Dante abbia posto la musica, della quale coglie prima di tutto la funzione rasserenatrice: "...l'amoroso canto / che mi solea quetar tutte mie doglie" scrive facendo appunto riferimento a se stesso.

Per questo, ho indugiato a lungo prima di scegliere il brano da pubblicare.
Meglio una composizione medioevale per accordarmi all'epoca di Dante o uno dei
tanti affascinanti madrigali del Rinascimento? Meglio un pezzo bachiano dalla bellezza senza tempo o un frammento della Sinfonia di Liszt espressamente dedicata al poeta?
Poi ho pensato che ciò che mi interessava mettere in luce era quella parentesi di
serenità che Dante vive nell'incontro con Casella. Ma sono andata anche a rileggermi il canto I del Purgatorio incantandomi come sempre sulla scena finale. Qui Virgilio, con la rugiada, lava al suo compagno di viaggio gli occhi e il viso pulendoli dalla caligine infernale; poi, da un angolo della spiaggia proprio sulla riva, stacca un giunco e glielo cinge intorno alla vita in segno di umiltà. 

Ecco, proprio per questa umiltà e per la purezza recuperata anche nello sguardo, cercavo una musica gioiosa e al tempo stesso semplice e limpida. Così, ho scelto un brano che avevo già pubblicato diversi anni fa, ma che nella sua freschezza mi è parso adatto alla scena.
Si tratta dell' "Andante cantabile" - noto anche come "Serenata" - dal "Quartetto per archi in Fa maggiore op.3 n.5" attribuito a Franz Joseph Haydn (1732 - 1809), ma probabilmente opera di un suo ammiratore che ne aveva imitato lo stile: il compositore e monaco benedettino Roman Hoffstetter (1742 - 1815).

Incantevole la trasparenza di queste note che ci restituiscono lo stupore di uno sguardo di bambino sulla realtà, riportandoci a quel nitido classicismo che troviamo anche nel contemporaneo Mozart. Il violino solista, accompagnato dal pizzicato degli archi, disegna infatti una melodia leggera e quasi giocosa che si ripete con garbo regalandoci - come nel racconto dantesco - la magica semplicità delle cose che fanno bella la vita.

Buon ascolto!

 

sabato 12 giugno 2021

Brividi...

Sappiamo tutti quanto la musica sia un'arte particolarmente espressiva e toccante, e avremo certo sperimentato spesso come la potenza dei suoni sappia emozionare, evocare ricordi e atmosfere, suscitare o acquietare passioni, restituendo integrità al nostro mondo interiore.

Si tratta di un'azione sempre rigeneratrice, perchè certe melodie ci sanno parlare anche al di là del contesto da cui hanno avuto origine e dello scopo per cui sono nate. Prendono infatti a vivere di vita propria, colonna sonora delle nostre giornate o di particolari eventi, talora restando legate ad essi, ma assumendo in certi casi una vera e propria valenza universale.

È prerogativa dell'arte, del resto, quella di essere libera e aperta per cui una musica, un dipinto o un verso, sia pure nati in un determinato contesto, si possono caricare di risonanze tali da essere condivisi anche in altre situazioni.
Penso per esempio a "Guernica" di Picasso, opera divenuta emblema della denuncia
non solo contro una, ma contro ogni tipo di violenza e sopraffazione.
Ma ho in mente anche i versi di Ungaretti "Di queste case/non è rimasto/che
qualche/brandello di muro" : immagini capaci di uscire dal paese di San Martino del Carso per indicare la sofferenza davanti a qualunque altro luogo devastato, dalla guerra come dal terremoto o dalla ferocia umana.

Così, anche la musica del passato sa accompagnarci nelle vicende quotidiane parlando il linguaggio della contemporaneità, soprattutto se affidata ad interpreti di eccezione. Oggi vi propongo allora Annie Lennox, raffinata e grintosa icona del pop, insieme al coro dei London City Voices, in un pezzo tra i più celebri di tutto il melodramma barocco, inserito dalla cantante nella riedizione dell'album "A Christmas Cornucopia" uscita alla fine dello scorso anno.
Si tratta del "Dido's Lament" dall'opera "Dido and Aeneas" di Henry Purcell
(1659 - 1695), qui arrangiato per coro dalla Lennox e da Mike Stevens.

Sì, è un brano che mette i brividi: colpisce, coinvolge, evoca, tocca, scava.
Sia per la voce potente e talora aspra della bravissima cantante, sia perché il fatto che tutti si trovino su di una piattaforma
online, in una registrazione del novembre 2020, assume significati e spessore più ampi della celebre vicenda virgiliana ripresa dal compositore inglese. A condurci altrove, infatti, non è solo la stessa Lennox che - sensibile da sempre ai temi ambientali - vi fa riferimento nel testo premesso al video, ma è anche il mezzo informatico necessariamente usato per poter cantare insieme che ci riporta al contesto della pandemia.

Ne affiora l'acuta percezione di una comunanza di destini tra il singolo essere umano e la terra. E come l'interpretazione del brano vuole essere un lamento - scrive proprio la Lennox - dedicato al nostro pianeta morente, così la struggente invocazione "Remember me" più volte ripetuta, quasi gridata e riecheggiata sempre più intensamente dal coro, si può anche inquadrare all'interno delle sofferenze causate dal Covid. Quel grido è infatti il punto culminante del canto che, col suo ritmo ostinato e scandito, accresce la consapevolezza dell'umana fragilità e - insieme alla vicenda di Didone abbandonata da Enea - può ricondurre ad altre pungenti nostalgie o ad altri abbandoni che ognuno di noi ha forse vissuto.

Anche le numerose inquadrature che - oltre alla solista - riprendono i singoli coristi, sembrano scavare nella fisionomia di ciascuno restituendoci, al di là delle immagini di gruppo, il senso di una sofferenza individuale.
Un'interpretazione musicalmente sobria, col coro accompagnato solo da una tastiera, e tuttavia intensissima: un canto di lutto solenne, straziante e insieme grandioso, il cui senso originario si dilata assumendo una portata universale.

 Buon ascolto!

 

venerdì 4 giugno 2021

In cerca di leggerezza - 6

R.Ruysch (1664 - 1750) : "Natura morta floreale con farfalle su una panchina di pietra"



















Mi hanno sempre affascinato le numerose nature morte che la pittura ci ha offerto nel corso del tempo: creazioni in cui gli artisti hanno raffigurato fiori, frutta, cacciagione e cibi vari, ma anche bottiglie, vasellame, libri, strumenti musicali e via dicendo.
Si tratta di un genere che alcuni testi fanno iniziare ufficialmente dal celeberrima
"Canestra di frutta" di Caravaggio, ma che - in realtà - troviamo anche in precedenza, a partire dagli antichi mosaici romani fino a certi particolari di interni inseriti in composizioni più ampie, soprattutto dal Quattrocento in avanti.

Parlare di nature morte, tuttavia, a mio avviso è improprio perchè, per quanto dal Seicento in poi prevalga in esse il tema della vanitas, lo splendore delle varie rappresentazioni è a volte così ricco, o talora così essenziale, che meriterebbe altre definizioni. Mi piace di più, per esempio, l'espressione inglese still life - letteralmente vita ferma, silenziosa - che potrebbe anche indicare l'essenza vitale di alcuni oggetti che il pittore sa risvegliare col suo sguardo e accarezzare col suo tratto. Del resto, come si può considerare senz'anima un libro con la ricchezza dei suoi contenuti, o uno strumento musicale con le possibilità in esso racchiuse, o un vaso di cristallo nella sua luce o un fiore nella sua leggiadria?

Un fiore, appunto.
Al di là della pluralità di oggetti raffigurati
nel tempo, un campo in cui tanti artisti si sono misurati ed espressi è stato quello dei fiori con opere che troviamo soprattutto nella tradizione fiamminga.
Dai Bruegel in poi, una pluralità di
pittori si è infatti dedicata a questo tema che ha preso così a vivere di vita autonoma, non più ridotto a puro elemento decorativo come in passato.

E per parlare di leggerezza, oggi
ho scelto Rachel Ruysch (1664 - 1750), pittrice olandese che, sulla scia degli artisti precedenti, ha realizzato un gran numero di quadri che hanno come soggetto proprio i fiori.
L' opera che vedete, conservata in una collezione privata, s'intitola "Natura
morta floreale con farfalle su di una panchina di pietra" e testimonia la capacità della Ruysch di dipingere con attento realismo e un gusto per il dettaglio che le derivano appunto dalla tradizione fiamminga.
Si tratta di un olio su tavola che rappresenta anemoni, gerbere, convolvoli, forse anche fresie e una splendida peonia rosa in primo piano, intrecciati in modo che prendano rilievo dal fondo scuro, com' è tipico di tante raffigurazioni in epoca barocca.
In fondo, si tratta soltanto di un mazzetto di
fiori posato sopra una panca; eppure la pittrice, attraverso l'uso sapiente della luce, lo rende talmente plastico da farlo quasi uscire dal quadro.

Ma la caratteristica precipua di questo dipinto è che, insieme alle conoscenze botaniche che la Ruysch certamente aveva, affiora da esso un'aura di leggiadrìa che lo rende unico. Nonostante la precisione del tratto e dei particolari individuati, l'immagine non è quella che potremmo trovare in un manuale di scienze naturali. Risplende luminoso infatti il chiaro delle corolle in un insieme di delicate trasparenze e - al di là del riferimento alla caducità, dato dalla foglia in basso già in parte ingiallita - i colori animano ogni fiore rendendolo vivo, dal più grande al più piccolo.

Se poi osserviamo - per esempio - la minuzia con cui sono dipinte le ali della farfalla o le sfumature dei petali della peonia, così come le nervature delle foglie o le linee mosse e sinuose dei convolvoli, vediamo che, oltre alla precisione, c'è  anche una grazia che a me pare squisitamente femminile.
E ciò mi fa pensare che qui sia rifluita non
solo la maestria degli antichi miniaturisti, ma insieme la tradizione delle tante ricamatrici che, nel tempo, avevano imparato a decorare stoffe preziose e che la Ruysch sembra aver conosciuto e trasposto nella sua pittura. 

Abilità, quindi, perfezione del dettaglio, leggerezza, delicatezza e un' inimitabile leggiadrìa che oggi desidero associare non solo alla musica, ma anche al talento di una grandissima artista scomparsa pochi giorni fa: Carla Fracci.
Non sta a me parlare qui delle doti di questa straordinaria
donna che, con infaticabile lavoro quotidiano, ha raggiunto altezze sublimi e portato la danza in tutto il mondo anche fuori dai teatri. Mi basta pubblicare una breve sequenza di uno dei balletti con cui è divenuta più celebre e che ha sempre danzato con singolare eccellenza interpretativa. 

Si tratta di "Giselle" di Adolphe-Charles Adam (1803 - 1856) che qui vi propongo in un frammento del primo atto, in un'edizione del 1968 dove la Fracci ha come partner Erich Bruhn e le coreografie sono di David Blair.
Vedendola danzare, siamo certo ammirati dalla perfezione millimetrica e dalla levità di farfalla con cui esegue certi passi. Ma ciò che mi colpisce maggiormente è la sua capacità di arricchire la propria esibizione con una gioiosa naturalezza e un fresco sorriso, in una totale identificazione di vita e danza.
È l'attitudine rara dei grandi che nasce quando la tecnica,
ormai più che affinata, consente di andare oltre, nella dimensione del sogno. Allora la fatica si trasforma in grazia e nella leggerezza ariosa di un fiore.

Buona visione e buon ascolto!