mercoledì 30 dicembre 2020

Il garbo della festa

(Foto presa dal web)

Sarà questo, con tutta probabilità, un ultimo dell'anno meno chiassoso e scintillante del solito, come del resto è avvenuto per il Natale appena trascorso.
E forse - sia pure nelle limitazioni imposte dalla pandemia - per certi versi non è stato neppure un male tornare alla dimensione più intima della festa, ai suoi aspetti più essenziali e in certi casi a un silenzio che, a dire il vero,
ho trovato anche riposante.
Ci avviamo quindi a celebrare il passaggio al nuovo anno senza concerti
all'aperto, folle in piazza e probabilmente neppure fuochi d'artificio. Questo 31 dicembre ci troverà forse non troppo inclini a festeggiamenti rumorosi e movimentati, ma non è detto che la cosa in sè sia negativa se ci consente di essere più pacati e attenti agli aspetti essenziali del far festa.

Così, nella prospettiva di una conclusione più tranquilla, vi propongo un brano che da qualche tempo mi ha affascinato e che - udite, udite! - sto anche tentando di suonicchiare. Ricorderete che proprio due mesi fa ho pubblicato "Ottobre" dalle "Stagioni op.37b" di Piotr Ilic Tchaikovsky (1840 - 1893).
E stavolta, tratto dalla stessa composizione che raccoglie brani dedicati ai dodici
mesi, è "Dicembre" il pezzo con cui mi piace chiudere l'anno.

Dico la verità: forse suggestionata dall'indimenticabile "Inverno" di Vivaldi, mi sarei aspettata una musica più vicina ai caratteri di questa stagione e alla descrizione della natura. Invece no: qui Tchaikovsky compone un valzer e - al di là del sottotitolo del brano che è "Natale" - la mia impressione è che ci conduca nel bel mezzo di una festa da ballo.
Tuttavia, non è in un sontuoso salone scintillante di luci
che mi ritrovo, ma l'andamento di queste note mi fa pensare a certe serate del passato quando le feste si facevano in casa, la musica aveva ritmi diversi da quelli attuali e si danzava magari nel salotto buono al suono di un pianoforte.

Altri tempi - d'accordo - e modi diversi di esprimere la gioia, meno chiassosi ma non per questo privi di calore. E in tal senso trovo che Tchaikovsky sia un mago perchè, nei suoi valzer, a un registro musicale più acceso affianca sempre una nota più morbida e sognante che ci permette di cogliere il vero e proprio garbo della festa, fatto di gioia ma anche di intimità.
Qui, "Dicembre" si snoda appunto con questi caratteri, sia nell'esordio che nella parte centrale dove si sente riecheggiare un pacato suono di campana - in realtà un si naturale più volte rip
etuto - che si fonde alla melodia regalandole un tocco di particolare luminosità.

E tra le varie interpretazioni offerte da youtube - alcune formalmente perfette ma a mio modesto avviso un po' fredde, altre al contrario ricche di contrasti fin troppo accentuati - ancora una volta ho scelto quella del Maestro Giuseppe Merli che mi è parsa ricca di eleganza e di grande morbidezza.
Un' esecuzione sempre misurata anche quando ai passaggi più lenti se ne
alternano altri veloci o quasi vorticosi che - come nel finale - ci trascinano nell'impeto del valzer per terminare poi su tre accordi più lievi e dolcemente smorzati.

Buon ascolto e auguri di Buon Anno!

 

venerdì 25 dicembre 2020

Buon Natale !!!


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Caravaggio (1571 - 1610) : "Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi"
(collocazione attualmente sconosciuta)       

 

 Friedrich Heinrich Himmel (1765 - 1814) : "Adorabunt Nationes".

domenica 20 dicembre 2020

Il Do maggiore di Rossini

(Foto presa dal web)

Giunti quasi a fine anno, insieme alle vicende drammatiche che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo per la pandemia, accresciute dall'incertezza del futuro, penso però che non si possa ignorare quanto di positivo il mondo della cultura ci ha offerto per tener viva la speranza e non distogliere lo sguardo dalla bellezza.

Mi vengono in mente le diverse iniziative che,
tramite alcune trasmissioni televisive o con semplici collegamenti online, ci hanno consentito - sia pure con i limiti del web - di vedere una mostra, di assistere a uno spettacolo musicale o teatrale, o ancora di seguire una lezione.
Ma oggi qui, al di sopra di ogni altra cosa, vorrei ricordare lo splendore del
concerto del 7 dicembre scorso al Teatro alla Scala, evento di altissimo livello che ha portato nelle nostre case la magìa della musica, della danza, della poesia, di interpreti di eccezione primo fra i quali Roberto Bolle e di una regia - a mio modesto avviso - quasi sempre indovinata.
Non voglio tuttavia dilungarmi su questi aspetti o sull'interpretazione dei brani già commentata da altri con più sicura competenza, ma desidero soffermarmi invece sul pezzo conclusivo. L' itinerario musicale scelto per il concerto di quest'anno così particolare, ha delineato infatti un percorso che, attraverso la rappresentazione delle passioni umane spesso riattualizzate dalla regia, è andato poi a convergere su di una musica intrisa di speranza, proprio come augurio di libertà e di rinascita per tutti noi.

Si tratta - come già sapete - del finale del "Guglielmo Tell" di Gioacchino Rossini (1792 - 1868): "Tutto cangia, il ciel, s'abbella", pezzo per soli, coro e orchestra di cui vi riporto qui di seguito il testo:

"Tutto cangia, il ciel s'abbella,
l'aria è pura, il dì raggiante,
la natura è lieta anch'ella.
E allo sguardo incerto, errante,
tutto dolce e nuovo appar.
Quel contento che in me sento
non può l'anima spiegar".

È un brano che desta una profonda commozione perchè è impossibile non caricare queste parole, che inneggiano a una sorta di nuova creazione, di significati che si radicano nel profondo della dolorosa esperienza che abbiamo vissuto quest'anno. Sono versi che ci parlano di luce e di bellezza, di un mondo nuovo e di una natura rinnovata, ma soprattutto della gioia ineffabile che tutto ciò offre all'uomo. Sotto il suo sguardo incerto, infatti, la realtà si trasforma in modo così alto e sorprendente che l'anima non trova linguaggio adeguato per esprimere la gioia che gliene deriva: "Quel contento che in me sento non può l'anima spiegar".
Sono queste, a mio avviso, le parole più toccanti del testo perché dense di stupore per il c
ompimento di quella speranza oltre ogni speranza che ciascuno di noi - al di là di ogni infausta previsione - cova nel profondo.

Ma - e qui sta il bello della musica! - in che modo Rossini esprime in note tutto ciò? Come rende tale gioia viva e operante in noi attraverso i suoni?
Lo fa certo con la ricchezza della sua ispirazione, ma anche con la scelta della tonalità del brano che qui è il Do maggiore, la
più positiva, radiosa e solare di tutte. Il pezzo inizia infatti proprio in Do maggiore e, dopo una serie di passaggi che se ne allontanano scendendo di terza in terza - tanto per intenderci: do mi sol...la do mi...fa la do... re fa la...e via dicendo - vi ritorna attraverso varie modulazioni fino alla potentissima conclusione.
Un finale ricco di luminosa energia e di una positività - oserei dire - ridondante, come possiamo osservare dai numerosi
arpeggi della partitura che seguitano a ripetersi terminando sempre sul Do, quasi a significare una misura di gioia infinita, colma e traboccante.
Per cogliere tali passaggi, vi invito ad ascoltare non soltanto le voci dei solisti e del coro ma
soprattutto l'accompagnamento orchestrale: all'inizio sommesso e lieve, poi ripreso in tonalità diverse e da strumenti diversi, infine - nelle battute conclusive - fortissimo, solenne e maestoso.
Un accompagnamento che i meno giovani riconosceranno subito anche perchè
questo brano ha fatto da sigla di inizio delle trasmissioni Rai dal 1954 al 1986.

Buon ascolto!

 

domenica 13 dicembre 2020

Donne col libro - 12

Ho pensato a lungo a quale dipinto pubblicare per concludere la mia carrellata di "Donne col libro".
Il panorama degli artisti e delle
opere su questo tema è infatti decisamente vasto, soprattutto tra gli Impressionisti prima e nell'ambito della pittura del Novecento poi.
Così, ho spaziato per un po' da Monet a
Mary Cassatt e a Berthe Morisot, poi da Matisse a Picasso senza decidermi non perchè i loro dipinti non siano pregevoli, ma perchè non mi davano quello "scatto" interiore che nasce quando un'immagine ti parla subito quasi con essa si stabilisse un contatto personale.

Poi sono arrivata al quadro che vedete e qui sono rimasta: un dipinto di Giola Gandini (1906 - 1941) intitolato "Donna che legge" e che - dai pochi dati di cui dispongo - penso sia conservato in una collezione privata.
Non si tratta di un nome tra i più
famosi perlomeno nel panorama degli artisti della prima metà del Novecento, eppure lo stile di questa pittrice - che sembra ereditare la lezione del post-Impressionismo e dei Macchiaioli - a mio avviso ha il fascino di una grande comunicativa.
Nata a Parma, Giola Gandini è poi vissuta prevalentemente a Venezia dove è morta -
ci dicono le date - a soli 35 anni per le conseguenze della poliomielite contratta da bambina. La sua produzione comprende ritratti, qualche scena di interno familiare e paesaggi veneziani a suo tempo molto apprezzati dai contemporanei, mentre in seguito è stata dimenticata e riscoperta solo in questi ultimi vent'anni. In particolare, tra le varie retrospettive la più recente si è tenuta alla "Casa delle Muse" di Mirano nel 2014. Ma torniamo al dipinto.

È quel libro spalancato quasi al centro del quadro, sono quelle mani aperte e intrecciate a sostenere il testo che mi hanno colpito. Non sappiamo che cosa la donna stia leggendo, ma l'immagine ci suggerisce che ad assorbire totalmente la sua attenzione è un corposo volume.
E insieme mi prende il suo sguardo assorto, mi affascina
la posizione in cui è ritratta che la vede da un lato staccata dal libro - quasi che, per comprenderne il contenuto, occorra una certa distanza - ma al tempo stesso immersa nella lettura come se una corrente di silenziosa empatia si stabilisse tra lei e il testo.
Un atteggiamento che prende rilievo
dall'estrema semplicità del dipinto e dal fatto che manca una sia pur minima ambientazione. A campeggiarvi è infatti solo la donna, messa in risalto dai colori - in particolare blu, beige e varie sfumature di verde - che ne delineano la figura contro lo sfondo facendone un'opera di grande compiutezza.

Mani aperte dicevo, che ci parlano anche di un'apertura del cuore. Sappiamo bene quanto siano espressive le mani in certi ritratti e non solo. Basti pensare a quelle dei musicisti - e qui ricordiamo che la Gandini suonava il pianoforte - ma anche a quelle di ognuno di noi: tutti abbiamo infatti in esse un singolare strumento comunicativo, specchio dell'anima come gli occhi, quasi un filo invisibile le connetta ai sentimenti e alle nostre emozioni.

E poi lo sguardo: un'espressione assorta, riservata e dolcemente malinconica, segnata da lievi occhiaie, insieme a una pacatezza tutta femminile che mi pare emerga dalla capacità introspettiva della pittrice e dal fatto che - appunto - è una donna a dipingere una donna.

Così, mi piace commentare questa immagine con una musica di grande fascino, pervasa della stessa dolce malinconia che leggiamo nel viso della protagonista del dipinto.
Si tratta di un brano di Giacomo Puccini (1858 - 1924): l' "Adagetto in Fa maggiore per orchestra da camera SC51" scritto tra il
1881 e il 1883 e rimasto incompiuto. Un frammento probabilmente destinato a una composizione più ampia e trascritto poi da Riccardo Chailly.

Mi è parso davvero un piccolo gioiello dal tono intimo al tempo stesso intenso, delicato e arioso come nuvole nel cielo e ricco della straordinaria capacità introspettiva dell'arte pucciniana. È stato questo che mi ha sollecitato ad associarlo al dipinto nel quale, sul viso della donna che legge, possiamo solo intuire il passaggio delle diverse emozioni suggerite dal libro, emozioni che essa non svela, ma che il suo atteggiamento pacatissimo e dolce, e la musica di Puccini, ci aiutano a immaginare. 

Buon ascolto!

domenica 6 dicembre 2020

Poesia di una città


Mi auguro che in tanti conosciate il sito web dal quale ho tratto queste foto.
È la pagina Facebook intitolata "Semplicemente Milano di Andrea Cherchi" nella quale il fotografo - che qui ringrazio - pubblica quotidianamente
splendide immagini della città.
Sono scorci di una metropoli della quale coglie mirabilmente il
carattere e insieme la poesia, il respiro delle diverse attività e lo splendore dell'arte, le vie affollate come gli angoli più discreti e appartati dove talora il verde offre - a sorpresa - l'illusione di essere in campagna. Scatti che riprendono i monumenti del centro storico o gli scorci della vecchia Milano, come pure le stazioni e le periferie. 

Ma non è raro che le sue foto fermino anche squarci di vita vissuta, immagini di un'umanità colta al volo nei gesti quotidiani, antiche botteghe simbolo di lunga operosità e tradizione, insieme alla Milano dei tram e dei grattacieli più arditi nelle cui vetrate si specchia il cielo.
E poi ariose prospettive e panorami
dall'alto, che ci regalano il respiro ancora più ampio di una città dove mille vite e mille storie s'intersecano. Una metropoli vista con ogni tempo e in ogni stagione, dal sorgere del sole al tramonto dove la luna gioca tra i pinnacoli del Duomo, fino alla notte che riempie di solitudine e malinconia le strade vuote.

E immergendoci nell'atmosfera della foto qui a lato, vengono in mente le parole di quella canzone di Giorgio Gaber che dice: "Le strade di notte mi sembrano più grandi e anche un pochino più tristi", a restituirci inquieta e pungente la voglia di casa.
Una Milano amata e multiforme, nella quale lo sguardo
di Andrea Cherchi coglie la bellezza dove essa risplende, ma pure dove è nascosta e va cercata nei dettagli che solo l'occhio acuto del fotografo sa scandagliare per farne affiorare la vita oltre le apparenze.

Ma quella di Cherchi è anche la Milano ferita dal Covid che le sue immagini ci testimoniano nella desolazione di certe piazze vuote, così come nella resistenza caparbia di una città che non si lascia domare.

E i suoi scatti sono intrisi di quella poesia che nasce quando cerchiamo la bellezza e la condividiamo con altri perché resti perno e punto fermo del nostro vivere, proprio come fa il fotografo regalandoci ogni giorno - instancabile - il fascino di un gesto, di una strada o di un pezzo di cielo.

Una città che - proprio a causa del Covid - domani avrà una "prima" della Scala diversa da quella tradizionale, ma una Milano che non si arrende e persevera nella volontà di offrire a tutti lo splendore della musica anche in questi giorni difficili. Se non potrà essere un'opera lirica ad inaugurare la stagione scaligera come per il passato, l'evento sarà comunque straordinario e di portata forse ancora più ampia.
Sarà un concerto a platea vuota, ma in realtà con un pubblico molto più vasto, anche se - come ha affermato Riccardo Chailly - "mancherà il momento emotivamente forte di misurarsi con l'intensità degli applausi".
Un segno di resistenza nel nome dell'arte, un ricco programma di musica e non solo, in un percorso verso la speranza. E significativo di tale speranza è il titolo dell'evento, "A riveder le stelle", che ci riconduce all'ultimo verso dell' "Inferno" di Dante e - in sostanza - alla capacità dell'arte di aiutarci ad uscire dai vari inferni che talora ci troviamo ad attraversare.

Così, a questa Milano che tanto amiamo, desidero dedicare un brano di Giuseppe Verdi (1813 - 1901) in cui il compositore ha fatto riferimento proprio a Dante e alla "Divina Commedia", musicando i versi della celebre preghiera di San Bernardo a Maria nel Canto XXXIII del "Paradiso".

Si tratta del terzo dei "Quattro pezzi sacri" scritti dal musicista intorno al 1890 e intitolato "Laudi alla Vergine Maria" : brano per coro a cappella per quattro voci femminili, due soprani e due contralti.
Una musica davvero celestiale, ricca di passaggi di grande intensità ma anche di leggiadrìa, scritta su quel testo sublime che tutti
conosciamo: "Vergine Madre, figlia del tuo Figlio..." e che potete seguire, verso per verso, nella clip video.

Un canto che mi sembra bello dedicare - alla vigilia della sua festa - alla grande città che vive proprio all'ombra e sotto il manto della sua celebre Madonnina.

Buon ascolto!