martedì 30 novembre 2021

Dipendenze

Oggi torno a un vecchio amore, non  esattamente di gioventù, ma insomma...
È un compositore ascoltando il quale ho capito in prima persona quanto l
a musica possa dare dipendenza!
La cosa interessante però è che non si tratta
di Bach o di Mozart o di qualcuno degli autori più famosi, ma di un musicista che - per quanto sia conosciuto dagli organisti - non mi sembra noto al grande pubblico al pari di tanti altri.

Sto parlando di Johann Georg Albrechtsberger (1736 - 1809), compositore austriaco che ho scoperto anni fa su di un libro di spartiti per organo, la mia prima passione. Contemporaneo di Haydn e Mozart, insegnante di Beethoven e Kapellmeister nella cattedrale di Vienna, Albrechtsberger conta nella sua produzione numerosi concerti, sonate, la bellezza di 240 fughe, ma anche trattati sull'armonia e il contrappunto.
Una curiosità: ha scritto pure due concerti per archi e jews arp, espressione tradotta con arpa
ebraica, mentre in realtà non ha nulla a che vedere con la cultura del mondo ebraico ma è una sorta di scacciapensieri.

Dicevo che l'ho scoperto anni fa quando mi dilettavo a suonicchiare qualche brano organistico trascritto per esecuzione solo manuale e qui, fra Bach, Haendel, Corelli, Zipoli e affini, ho trovato Albrechtsberger del quale era riportata un'unica composizione.
Una sola, ma è bastata a farmi innamorare creandomi per un certo periodo - come scrivevo
- una sorta di dipendenza, un desiderio tormentoso di tornare a inoltrarmi nelle sue note.
Si tratta della "Fuga in mi minore" della quale ho riportato nella foto la prima pagina. Il fatto è che l'amore folle per un brano, se nasce ascoltandolo, quando lo si suona può diventare poi vera ebbrezza, meraviglia che ci
consente di entrare in quelle note percependone la fisicità, cogliendone più intensamente le sfumature, lo splendore in certe dissonanze o la grandiosità di alcuni finali.
Qui, ad incantarmi è stato il successivo sovrapporsi delle voci insieme al modo in
cui il tema si snoda tra tonalità maggiori e minori, talora in drammatiche zone d'ombra ma anche in successive sorprendenti aperture. Un susseguirsi di armonie sempre diverse che sfociano poi nella sorridente vivacità della conclusione in Mi maggiore. Purtroppo però, per quanto lo abbia cercato in lungo e in largo, del brano su youtube non esiste proprio alcuna esecuzione.

"E allora perchè mai ce ne parli?..." forse dirà qualcuno.
Abbiate pazienza, ma i vecchi amori non si scordano tanto facilmente!
Però, dello stesso autore oggi vi offro un altro pezzo che, se pure non è per organo, ha
comunque a mio avviso un grande fascino.
Si tratta del secondo movimento, "Adagio un poco", dalla "Partita per arpa e
orchestra in Fa maggiore" laddove - la precisazione è d'obbligo - l'arpa non è lo scacciapensieri di cui sopra, ma il classico strumento che tutti conosciamo.

Il brano ha altro stile e altra atmosfera rispetto alla Fuga che citavo, il che dimostra la versatilità del compositore che - musicalmente parlando - si muove tra il Barocco e il Classicismo.
Il pezzo mi ha preso non solo per la particolare delicata soavità dello strumento
solista, ma per l'andamento tranquillo e il garbo dell'insieme, dolce e solenne ad un tempo prima nel suo esordio e poi nel dialogo tra arpa e orchestra. Il tema di note ascendenti con cui si apre ci accompagna infatti lungo tutto il suo sviluppo, conducendoci pacato in un clima di serena cantabilità che ricorda certe creazioni mozartiane.
In effetti, il riferimento a Mozart non è fuori dalla realtà se pensiamo che i due musicisti non
sono stati semplicemente contemporanei, ma pare anche amici e, ascoltando varie musiche di Albrechtsberger, si ravvisano qua e là somiglianze e rimandi come se davvero un filo sotterraneo collegasse i due compositori.
Ma qui si apre un altro discorso sul quale avrò la gioia di tornare in futuro.

Buon ascolto!

 

lunedì 22 novembre 2021

Pare brutto...

Questo post si potrebbe intitolare "Breve storia triste" e vi spiego subito il perchè.
Santa Cecilia della quale oggi ricorreva
la festa - e uso l'imperfetto perchè la giornata volge ormai al termine - mi perdonerà. Già me ne deve perdonare tante di cose che si è perso il conto. Quindi, mi sono detta, una più o una meno...

Il fatto è che ce l'avevo messa tutta per celebrarla degnamente. Da giorni, tra le varie composizioni scritte in suo onore, avevo cercato qualche brano adatto alla festa e che non fosse uno dei tanti - da Haendel ad Haydn - che ho già pubblicato. Così, avevo adocchiato un pezzo di Purcell che mi pareva davvero sontuoso e solenne.
Però - chissà perchè! - più si avvicinava il 22 novembre e più qualcosa non mi
convinceva. Non che non fosse bello, per carità!, ma festeggiare la Santa patrona della musica significa farlo con un brano che sentiamo profondamente nostro e verso il quale avvertiamo uno scatto interiore, e non con una composizione certo pregevole, ma magari un po' rituale.
Ho pensato allora di dedicarle una melodia non necessariamente scritta in suo onore, ma
che in compenso a me piacesse proprio tanto: che so?, un preludio di Bach, un'aria di Mozart, uno studio di Chopin...
Poi però mi sono detta: e se cronologicamente tornassimo più vicino a noi? L
a Santa in fondo è protettrice di tutti i musicisti, indipendentemente dallo stile e dall'epoca in cui sono vissuti. Così, ho trovato un pezzo delizioso, frizzante, sincopato e ballabile in un arrangiamento che lo valorizza in modo stupendo.

Si tratta del celebre brano di Scott Joplin (1868 ca. - 1917) intitolato "The Ragtime Dance", qui rivisitato da due interpreti di eccezione: Itzhak Perlman al violino e Bruno Canino al pianoforte. Una rivisitazione che non solo esalta la vivace ritmica del pezzo, ma che nella parte finale ci offre un glissando quasi nello stile di Paganini.
Ma il bello della clip è anche il video, un filmato del 1977
in cui mani e viso dei due solisti esprimono divertimento e una perfetta intesa reciproca. Insomma, una vera chicca che pregustavo di condividere con voi.

Invece che è successo? Sorpresa dell'ultimo minuto: prima ancora che lo pubblicassi, il video mi è stato oscurato! Dite che alla Santa non piaceva, forse lo ha trovato dissacrante e la reazione in alto loco non si è fatta aspettare?...

In realtà, resta sempre la possibilità di vederlo cliccando sul riquadro "Guarda su youtube", ma pubblicare una clip nera con la scritta "Video non disponibile" - come avrebbe detto la buonanima di mia zia - pare brutto! Se l'avessero oscurato in seguito, e purtroppo accade, pazienza! Ma postarlo già così, francamente pare brutto anche a me. Esistono peraltro altri due video con lo stesso filmato, ma la qualità non è buona.

Che fare allora? Come sapete, sono testarda. Cambiare brano non mi andava perchè avrei dovuto togliere anche la foto coi gattacci randagi che fanno il jazz: ricordate gli Aristogatti? Ma è troppo bella e - Santa Cecilia mi perdoni! - non ho avuto cuore di sostituirla.
Così, alla fine ho deciso di pubblicare una clip di solo audio con al piano André Previn e al violino sempre Itzhak Perlman, mentre -
youtube permettendo - di quello oscurato vi riporto qui il link. Et voilà!!!

https://www.youtube.com/watch?v=gpQouEAox44&list=RDgpQouEAox44&start_radio=1 

Nella speranza che tutto si apra e funzioni, vi esorto a osservare le mani di Bruno Canino che vibrano con leggerezza sulla tastiera, mentre Perlman ci rallegra con la sua espressione sorridente, la vivacità irresistibile e il delizioso pizzicato del suo violino. Insomma, un brano che, più ascolto, più trovo entusiasmante.

Mi resta solo un dubbio: dite proprio che Santa Cecilia avrebbe preferito una composizione più solenne e ieratica? Che musiche ascoltano i Santi in Paradiso? Si dilettano solo con l'armonia delle sfere celesti e dei cori angelici o qualche volta buttano l'occhio - meglio, l'orecchio - sulla terra?
Chissà! Aspetto segnali dall'alto.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

lunedì 15 novembre 2021

In cerca di leggerezza - 11

Giuseppe De Nittis : "Passa un treno" 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi ha preso a prima vista il dipinto che vedete. Così, non ho potuto non pubblicarlo subito seguendo un impulso del cuore, sia per il suo indubbio fascino che per i differenti piani della sua leggerezza.
Si tratta dell'opera intitolata "Passa un treno" di Giuseppe De Nittis (1846 - 1884), conservata a Barletta nella Pinacoteca a lui dedicata.

Amo da anni questo artista per le sue atmosfere ricche di intensità, i suoi cieli plumbei e le sue nubi cariche di pioggia - come per esempio in "Paesaggio lacustre nei pressi di Napoli" che potete ritrovare qui - ma anche per i tanti quadri in cui, data la sua vicinanza agli Impressionisti, protagonista è la luce. Ricordo a questo proposito, solo per citarne due dei più tappresentativi, "Colazione in giardino" e "Nel grano".

Quello del treno non è un tema nuovo nell'arte figurativa e nella letteratura del secondo Ottocento, ma riflette le tante trasformazioni di quegli anni.
Lo troviamo nella pittura di Turner
che già nel 1844 anticipa tale tendenza, poi in alcune novelle del Verga, in diverse poesie del Carducci e successivamente nel Futurismo che - nel Novecento - ne farà un simbolo di dinamismo e velocità. Ma se vogliamo tornare alla musica, possiamo ricordare il celebre "Pacific 231" di Honegger.
Tuttavia, l'opera di De Nittis a mio avviso si colloca su di un altro piano, a cominciare
dal titolo che non è genericamente Il treno, ma Passa un treno, il che ci riporta ad un'azione presente, come se quella scia di fumo chiaro che irrompe improvvisa nella campagna si snodasse leggera anche per noi, tanto corre in primo piano davanti allo spettatore.

In questo dipinto, forse ideato durante uno dei viaggi dell'artista da Barletta - sua città natale - fino a Parigi e Londra, la lunga nuvola di fumo biancastro che s'inanella dietro un convoglio e una locomotiva che non vediamo, ci porta via con sè e ci fa sognare.

E la leggerezza che vi colgo - oltre al
biancore che attraversa il quadro trasversalmente divenendone il protagonista - sta proprio in quella corsa, in quella velocità che per qualche momento attraversa il verde circostante e la brughiera solitaria. Una velocità resa con grande efficacia prospettica dalla nuvola di fumo che va man mano a rimpicciolirsi verso l'orizzonte per scomparire chissà dove, mentre il suo irrompere improvviso contrasta con la calma immota della campagna intorno. Una natura solitaria, dicevo, ad eccezione delle due donne chine forse a raccogliere arbusti e - almeno in apparenza - incuranti di ciò che accade accanto a loro. Ma poi chissà!...

Quel treno è forse un sogno di ciò che potrebbe essere e non è, mentre passa con la velocità di una meteora e si allontana verso l'ignoto lasciando dietro di sè il suo impalpabile fumo chiaro.
Ma è insieme un evento improvviso che, simile a un soffio, per qualche
istante può allargare l'orizzonte facendoci percepire l'esistenza di altra vita e altri mondi. Un respiro che si apre, uno sguardo che si spalanca e ci conduce - anche solo con la fantasia - al di là dello spazio presente verso universi sconosciuti come in una sorta di infinito leopardiano.

Al tempo stesso, tuttavia, l'immagine mi suggerisce un senso di caducità, una differente dimensione di leggerezza che mi rimanda a ciò che è fugace e transitorio.
C'è infatti un contrasto tra la campagna ferma
sotto un livido cielo incombente e la velocità di quel fumo attorto che la taglia in due mentre il treno fugge in una corsa inesorabile, metafora forse del rapporto tra l'eterno e il tempo.
A sottolineare tale sensazione è proprio il fascino dei
colori cupi del paesaggio: dal verde scuro della vegetazione, all'indefinito biancore del fumo, fino al grigio di quel cielo disfatto verso il quale si protendono sottili e spogli rami di betulla.
Un dipinto in cui affondare gli occhi e il cuore,
un'immagine che ci parla svegliando in noi altra vita insieme all'inquietudine del tempo che passa.

Così, vi ho associato una musica che mi sembra riflettere la malinconia del paesaggio e insieme il fremito che lo percorre improvviso.
Si tratta di un brano di Jean Sibelius (1865 - 1957) intitolato "The spruce"
(L'abete rosso), ultimo dei "Cinque pezzi per pianoforte op.75", composizioni brevi, di lieve cantabilità ognuna della quali è dedicata a un albero.
Nonostante il titolo poco abbia a che vedere con il tema del dipinto, la musica
mi sembra adatta all'atmosfera che vi si respira. Una melodia intima e nostalgica che, se all'inizio esordisce lenta, poi nella parte centrale si anima d'un tratto in una cascata di arpeggi che irrompono ariosi e "risoluti" - recita proprio così l'indicazione agogica - muovendo dalla chiave di basso a quella di violino.
E come il treno di De Nittis passa via sparendo all'orizzonte e lasciando di sè solo sognanti nuvole chiare, così la musica riprende dolcemente il tema iniziale per teminare lenta e scandita da note profondissime.

Buon ascolto!

(Tutte le foto sono prese dal web)

 

lunedì 8 novembre 2021

Piccoli gioielli

Un brano brevissimo quello di oggi, e molto conosciuto soprattutto da chi ha studiato un po' di pianoforte. Sì, anche
solo un po'.
Questo pezzo infatti è tra quelli che
vengono proposti a quanti cominciano ad avvicinarsi al vastissimo panorama bachiano - ebbene sì...è Bach! - insieme a composizioni non molto impegnative come i suoi preludi, le fughette e qualche invenzione a due voci.

Ma per quanto semplice possa essere l'approccio ad un brano simile - facile sì, ma non facilissimo! - ci sono sempre mille modi per eseguirlo, da quello di un principiante a quello di un pianista fatto e finito capace di renderlo quel gioiellino che è. Così, quando ho scoperto l'interpretazione di Murray Perahia, non ho resistito al desiderio di condividerla qui perchè il tocco misurato del pianista ce ne restituisce in pieno il garbo e il ritmo.
Si tratta infatti di una danza, in particolare della "Gavotta" inserita come quarto
tempo nella "Suite francese in Sol maggiore n.5 BWV 816", pezzo bachiano di grande leggiadrìa nel suo movimento moderato ed elegante.
Ma mi ha colpito anche perchè di questo piccolo brano ho un ricordo un po'
particolare che risale a tanti e tanti anni fa.

Sono in vacanza con un'amica nel mio paesetto di montagna e una sera andiamo a un concerto, un evento gratuito che si tiene nella chiesa parrocchiale. Talora ci sono giovani interpreti, talaltra gruppi corali del posto, ma stasera è la volta di un organista che viene da fuori, un signore anziano dalla chioma grigia e disordinata che gli dà un'aria vagamente bohémienne.
La chiesa è piena, il pubblico attento, ma il grande organo a canne sopra
l'ingresso è dietro di noi, quindi possiamo solo ascoltare senza vedere.

Così, non riusciamo a capire perchè, a concerto iniziato, inframmezzato alle note musicali si senta uno strano tramestìo, come se il nostro organista stesse furiosamente litigando con qualcosa. Forse la pedaliera? Forse un tasto che si pianta e non vuol saperne di tornar su? Forse i registri organistici che sono vecchi e funzionano male? La musica continua, e insieme il tramestio.
Una certa inquietudine si diffonde tra il pubblico, ci si guarda un po' straniti...ma
che razza di concerto è questo? Va bene, è Bach...ma povero Bach, anche perchè ogni tanto si avverte qualche stonatura o qualche accordo a dire il vero un po' troppo dissonante!
Così, sorge un dubbio: che i registri non c'entrino e il difetto stia proprio nell'organista?...
Comunque, in qualche modo si arriva al gran finale dove il pezzo forte è appunto la nostra "Gavotta".

Nell'enfasi del brano conclusivo, il brav'uomo - poveretto! - ce la mette tutta suonando a registri spiegati e producendo, più che musica, una sorta di fracasso: sonorità fortissime ma sconnesse dove intonazione e ritmo si perdono tra lo sconcerto del pubblico. Nella panca davanti alla mia c'è un signore che alloggia nel mio stesso albergo: è un musicista appassionato di strumenti antichi, un intenditore insomma, che ha anche fondato un piccolo ensemble per suonare musica barocca. Me lo vedo davanti ancora adesso, mentre si volta indietro puntando verso l'organista uno sguardo feroce che trasuda indignazione mentre a me - francamente - scappa solo da ridere.  

Il mio ricordo finisce qui, così torno a quella "Gavotta" che oggi Murray Perahia mi restituisce scandendo invece le note con dolcezza e garbo.
Un brano semplice dicevo, come tanti altri pezzi di Bach brevissimi, ma non per
questo privi di un' aura di splendore e perfezione.
E mi sembra significativo che tale perfezione possa essere cercata e realizzata non
solo nelle composizioni grandiose e altisonanti, ma anche nel piccolo pezzo da esercizio quotidiano per farne, a suo modo, un gioiellino.

Buon ascolto!

(La foto in alto è presa dal web)