Tutte le sere, quando nel mio nido d'altura prima di andare a dormire chiudo porte e finestre, non tralascio mai di sostare per qualche momento sul balcone che guarda verso il Gran Paradiso.
Di questa stagione fa chiaro fino a tardi e non è raro che, anche dopo le dieci di sera, i ghiacciai del massiccio riflettano ancora l'ultima luce, mentre intorno - nonostante di giorno il caldo arrivi anche qui - si leva un'aria fresca che ricrea. Ma non è solo per questo.
Ciò che in realtà più di ogni altra cosa mi suggestiona è il silenzio circostante insieme al buio che - al di là dei lampioni che illuminano il paesetto - avvolge tutta la vallata e sale, lungo i versanti fitti di abeti scuri, su su fino al pallido chiarore dei ghiacciai.
Così, mi affaccio per qualche istante al mio balconcino a rivolgere un saluto serale alla montagna: se vogliamo, una sorta di piccolo rito al quale sono affezionata perchè è come se un impulso segreto mi spingesse a farlo per prendere consapevolezza fino in fondo della fortuna di essere qui. E non si tratta solo della possibilità di sfuggire alle temperature di un'estate torrida, ma dell'esigenza di rendermi conto, aiutata dal maestoso silenzio della sera, dello splendore in cui sono immersa da ogni lato. Ed esserne grata.
C'è talora, infatti, una sfasatura tra l'essere materialmente dentro a eventi, situazioni o luoghi, e il sentirsi davvero presenti ad essi. Manca a volte una corrispondenza profonda con ciò che viviamo, come se portassimo in noi un puzzle in cui alcune tessere sono andate fuori posto. Ne bastano poche che non hanno trovato la giusta collocazione e faticano ad inquadrarsi nello spazio a loro destinato e senza che ce ne accorgiamo creano un disagio oscuro. Magari abbiamo confuso l'azzurro del cielo con quello del mare, o le foglie degli alberi col verde del prato, o la neve di una pista da sci con quella che ricopre i tetti: sono esperta di puzzle, mi sono sempre piaciuti e so che è facile confondersi.
O ancora capita che in noi qualcosa non quadri come quando, da bambini, facevamo il gioco del quindici...qualcuno se lo ricorda? A me non riusciva mai e restava sempre una casella fuori posto!
Ecco, il mio saluto serale serve anche a questo, a recuperare la consapevolezza del presente, quando tante sfasature magari inconsce ci portano lontano, nella geografia non sempre chiara del nostro intimo, inducendoci a dimenticare che esiste un'altra geografia concreta e visibile che, qui e ora, non smette di parlarci.
La contemplazione del paesaggio, infatti, con il coinvolgimento dei sensi che essa comporta, sa spesso ricucire i lembi dell'anima ricostruendo la sintonia di noi con noi stessi, azione esercitata con strumenti diversi ma ugualmente efficaci anche dalla musica.
Allora, sull'onda di questi pensieri oggi vi regalo un brano che mi pare possa fare da colonna sonora a queste mie sere in montagna.
Si tratta del "Larghetto" dalla "Sinfonia n.2 in Re maggiore op.36" di Ludwig van Beethoven (1770 - 1827), pezzo dal carattere soavissimo e al tempo stesso maestoso, nel quale il compositore alterna ricordi della tradizione settecentesca a passaggi malinconici e talora solenni nei quali è già evidente l'impronta originale della sua ispirazione. Mi pare che la direzione di Karl Böhm metta in particolare evidenza tali aspetti, sottolineando da un lato le sfumature e la dolcezza di queste note insieme a qualche tocco di garbo salottiero, e dall'altro la maestosa solennità di alcuni passaggi - per esempio a 7.11 dall'inizio - o la delicatezza dello splendido finale.
Un brano intriso di serenità che - come già mi è occorso di osservare per altri compositori e a testimonianza del potere catartico della musica - nasce in uno dei periodi più bui della vita di Beethoven, amareggiato da una delusione amorosa e dalla sordità che andava facendosi più acuta.
A noi regala invece un senso di riposante e soffusa leggerezza, a somiglianza del respiro fresco del vento nel magico silenzio della sera in montagna.
Buon ascolto!
(Foto di Marco Monticone presa dal web)