lunedì 29 gennaio 2024

Glenn!!!

Mi perdonerà Glenn Gould - dall'alto del paradiso dei musicisti dove certo si trova - per la confidenza che mi prendo di chiamarlo per nome.
Ma quando un talento, una dedizione,
uno stile sono così assoluti e travolgenti da parlare alla nostra vita, forse possiamo permetterci questa familiarità.
Se infatti una passione diventa contagiosa, se
un modo come il suo di entrare nella musica restituendocene l'essenza arriva a toccarci e riempirci di entusiasmo, allora l'interprete non è più un estraneo, ma una persona che col nostro cuore intrattiene una straordinaria vicinanza. E poco importa che non sia più con noi da oltre quarant'anni, perchè vive in ciò che ha suonato, come sono vivi tanti compositori del passato a cominciare da Bach del quale Gould ha lasciato celeberrime registrazioni.

Ma perchè dico questo? Perchè ho ritrovato su youtube un breve ma famosissimo filmato che ogni volta mi entusiasma. Così oggi lo condivido qui. 
Il video ci presenta il giovane Glenn mentre prova la "Sinfonia" che apre la "Partita n.2 in do
minore BWV 826" di Johann Sebastian Bach.
Siamo nel 1958, il pianista ha 26 anni ed è ripreso all'interno del proprio cottage in Canada. È in veste da camera, la tazza della colazione sul pianoforte, e sta studiando. Incuriosiscono sempre gli aspetti della vita privata e della quotidianità di un genio, ma ciò che il filmato ci offre va oltre la superficie per aprire squarci più profondi.

A colpirmi qui non è solo l'ambiente casalingo con i libri affastellati in uno scaffale, gli alberi mossi dal vento fuori dalla finestra e il cane. Stupisce certo l'incredibile velocità delle sue mani, frutto di una raffinatissima tecnica, ma ad affascinarmi è soprattutto la grinta di Gould, una grinta splendida e impressionante che ci parla del suo rapporto viscerale con le note.
Note che canta con voce piena e calda, come ha sempre fatto anche durante le
registrazioni quasi fosse sospinto da un insopprimibile moto dell'anima.
E cantando segna il tempo, sottolineando con forza e - oserei dire - con
spregiudicatezza il ritmo incalzante del pezzo bachiano.

La "Sinfonia" della Partita in do minore - termine che qui sta per brano introduttivo e non per composizione orchestrale come sarà poi - comprende due parti: un Grave adagio dalla costruzione polifonica simile a un corale e un Andante prima lento e scandito, poi vivacissimo nel suo andamento fugato.
Gould entra nel pezzo bachiano facendolo suo tanto da cantarlo sia mentre suona che quando si al
za dal pianoforte, senza che il filo della musica in lui s'interrompa ma continuando a ritmarlo per conto proprio. E si esercita - lo sentite - soffermandosi più volte sullo stesso passaggio, precisamente quello che apre la fuga, correggendosi con grinta quasi feroce e concentrazione assoluta come se tutto il suo essere vivesse in quelle note.

Suona risoluto e travolgente, ma al tempo stesso rigoroso e nitido negli staccati, lontano da interpretazioni pseudoromantiche, nella volontà di far emergere la struttura contrappuntistica dalla purezza esecutiva.
Un Bach, il suo, rarefatto e proprio per questo ancor più espressivo, come
dimostrerà il confronto tra le due letture delle Variazioni Goldberg, nel 1955 e poi nel 1981. Se infatti la prima è una vibrante prova di virtuosismo, la seconda, più lenta e ricca di pause, è una ricerca di essenzialità.

Ma mi piace anche l'ombra di sorriso che - nel filmato - per un attimo compare sul viso di Glenn mentre scandisce con delicatezza le prime note dell'Andante.
Un sorriso che vediamo più aperto nella bellissima foto qui a
lato che lo ritrae ancora tredicenne: un ragazzino gioioso, la destra sui tasti e accanto lo splendido cane che sembra avere per lui un gesto protettivo.

Tuttavia, tale gioia col passare del tempo cederà il passo alla malinconia. La foto in alto ci restituisce infatti lo sguardo già pensieroso di un giovane destinato a diventare un adulto ipocondriaco, che terrà lontano il pubblico sospendendo l'attività concertistica a soli 32 anni, e avrà abitudini un po' maniacali come quella di suonare su di una sedia così bassa che nessun musicista forse userebbe mai. 

Eppure, anche quelle che ai comuni mortali possono sembrare solo stravaganze avevano un loro senso finalizzato alla musica, a cominciare dalla gestualità talora enfatica con la quale Gould sottolineava il riverbero della singola nota o l'intensità di una pausa o di una ripresa. Lo si può osservare in questo video dove la mano sinistra sembra accompagnare e commentare con potente intensità espressiva lo splendore del pezzo che sta suonando: una Fuga dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato.
Quella di Glenn è insomma l'arte di un genio ineguagliabile, un interprete che della propria
storia con la musica - in particolare quella di Bach - ha fatto un cammino di progressiva interiorizzazione, una sorta di ascesi di un tale spessore che forse riusciamo appena ad intuire.

Buona visione e buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

lunedì 22 gennaio 2024

Specchi d'acqua - 1


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nasce da lontano la suggestione che mi porta oggi a inaugurare una serie di post sull'acqua: dal mare ai fiumi e ai ruscelli, dalle tempeste alla pioggia o alle immagini riprodotte dai pittori, cantate dai poeti e spesso celebrate in note. Da Petrarca a D'Annunzio, da Ungaretti a Neruda - solo per citarne alcuni - l'acqua è stata più volte descritta per la sua trasparenza, il suono, la forza rigenerante o distruttiva e insieme per la sua capacità di segnare momenti forti della nostra esistenza. Così pure, le note o i colori che ne hanno fissato l'incanto - da Vivaldi a Ravel o da Giotto a Monet - ci riempiono spesso di stupore.

Quello dell'acqua nell'arte figurativa o in musica è un tema già ampiamente trattato, ma qui mi piace portare qualche esempio che esuli almeno in parte da quelli citati altrove, cercando invece il suo fascino in un semplice dettaglio o il vibrare delle onde in un brano nato magari con altri intenti.
Così, oggi vi propongo un dipinto celeberrimo in uno dei
suoi particolari più leggiadri. Lo avrete già riconosciuto: è la "Nascita di Venere" di Sandro Botticelli (1445 - 1510) conservato a Firenze, presso la Galleria degli Uffizi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al di là della figura della dea che l'artista ha dipinto a modello dell'antica statuaria greca ma con linee morbide e di più raffinata leggerezza, il mito della sua nascita dalle acque, cantato in seguito anche dal Foscolo, mi conduce a quel mare che qui non fa semplicemente da sfondo all'opera, ma è elemento essenziale sul quale si apre e si dipana tutta la scena.

E come si presenta? Osserviamolo: è una distesa incantevole e calma, se non fosse per quelle ondine increspate dal vento in una vibrazione che si propaga intorno rendendo più chiara e trasparente la superficie.
È il soffio di Zefiro ad animare tutta la
composizione. Dalla chiome di Venere - che ricordano i capei d'oro a l'aura sparsi di petrarchesca memoria - fino ai panneggi delle figure laterali, il vento crea infatti un dolcissimo movimento di linee che tuttavia non altera la compostezza dell'insieme.
Guardiamo per esempio con quale assoluta grazia e levità scendono i
fiori, quasi stessero planando sull'acqua con una leggiadrìa che ci riporta ancora al Petrarca e alla pioggia di fior da "Chiare, fresche, dolci acque"!
Un'immagine che - se può ricordare alcuni testi poetici del passato - riflette però i canoni di bellezza ideale della fine del Quattrocento, periodo in cui il Botticelli realizza il quadro. E a tali canoni
non sfugge la rappresentazione del mare.

Ma in quali particolari elementi consiste la novità? E come venivano raffigurati i vari corsi d'acqua nelle opere dei secoli precedenti?

Sia che fossero di argomento sacro come i numerosi dipinti sul tema del "Battesimo di Cristo", o profano come per esempio la "Veduta di città sul mare" e il "Castello sul lago" di Ambrogio Lorenzetti, l'acqua veniva spesso rappresentata da una serie di linee ricurve sovrapposte ad imitare il moto delle onde.
E se torniamo indietro nel tempo ad anni in cui
l'impostazione prospettica era ancora incerta, troviamo raffigurazioni di un realismo a dire il vero un po' arcaico.

Ve ne riporto solo un esempio qui a lato come termine di confronto: si tratta del "Battesimo di Cristo" realizzato dal cosiddetto Maestro di San Bassiano all'inizio del Quattrocento e conservato a Lodi nella Chiesa di San Francesco.
Solo un'ottantina d'anni separa quest'opera da quella
del Botticelli, ma in realtà sia sul piano prospettico che per altri caratteri c'è un abisso. Basta osservare il modo con cui l'autore ha reso l'acqua del fiume Giordano e i pesci al suo interno.

La "Nascita di Venere" è tutt'altra cosa. Qui, se realistica è la proporzione del mare fino alla linea dell'orizzonte, e altrettanto è la presenza dei giunchi verso la riva, quasi stilizzata è invece la resa delle spume: brevi tocchi essenziali, veloci guizzi di luce, bagliori più o meno fitti o marcati a rendere la superficie ora cupa, ora scintillante. Così pure, i colori tenui e le calibratissime sfumature tra il verde chiaro e il rosa dei fiori, dell'acqua e del cielo, ci regalano un'immagine di ampio respiro e inarrivabile bellezza.

Una visione incantevole dove il lieve fremito delle onde mosse da un vento leggero può ricordare il dantesco tremolar della marina, anche se questa del Botticelli non sembra un'alba nè siamo in Purgatorio.
Ma l'acqua rimanda anche a un significato di
purificazione perchè - come alcuni studiosi hanno affermato - lo schema dell'opera può far pensare a una sorta di trasposizione profana del tema del Battesimo di Cristo. E sembra quasi stabilire una corrispondenza fra l'idea cristiana della purificazione nell'acqua battesimale e il mito classico della nascita dal mare di una Venere non più simbolo di amore sensuale, ma ideale di bellezza spirituale secondo il pensiero neoplatonico dell'epoca.

E con quale musica celebrare allora il mirabile specchio d'acqua botticelliano?
Ci ho pensato a lungo.
A tutta prima, la mia scelta era caduta su Monteverdi: che cosa meglio di un madrigale come "Ecco mormorar l'onde" o "Zefiro torna" ? Poi non so, qualcosa non mi convinceva non nella bellezza dei brani in sè, ma per ciò che stavo cercando. Così, muovendomi nel grande mare della musica, sono approdata a Mozart con un pezzo che sto ascoltando da giorni e che mi è rimasto dentro.

Si tratta dell' "Andantino con espressione" dalla "Sonata n.9 in Re maggiore K.311" che qui trovate interpretato da Mitsuko Uchida, per la quale in questo periodo ho tradito alcuni miei miti come Andráss Schiff e Maria João Pires.
È un pezzo di grande delicatezza che, pur essendo nato con
intenti diversi rispetto alla descrizione di un corso d'acqua, a mio avviso può rispecchiarne comunque alcuni caratteri. Vi sono infatti trilli, acciaccature e passaggi sempre più ricchi di abbellimenti attraverso i quali è possibile ritrovare ora la vibrazione delle onde sulla superficie dell'acqua, ora l'atmosfera di intatta bellezza del dipinto.
Il brano si apre subito con una melodia dolcissima e pacata composta da due temi
e ripresa altre volte in modo progressivamente più ornato e impreziosito. Splendido il secondo tema che si dipana sostenuto dalle quartine della mano sinistra con un fugace passaggio in minore, com'è tipico della serenità mozartiana che non ignora qualche sprazzo di lieve malinconia.
Facile sul piano tecnico, il pezzo richiede tuttavia un'interpretazione molto attenta
alle dinamiche per dare alle note quell'espressione che l'indicazione agogica richiede.
Ultima notazione: l' Andantino mi ha preso non solo per la sua bellezza, non solo perch
è l'ho pure suonicchiato, ma anche per un preciso riferimento. Nella conclusione di alcune frasi musicali, riprende infatti l'analoga conclusione del piano assai dei violini nel Rondò del "Concerto per violino in Re maggiore n.4 K.218" che Mozart aveva composto due anni prima della Sonata.
Un concerto che è sempre stato uno dei miei preferiti fin dai tempi del liceo.
E come non riconoscerlo subito?...

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

sabato 13 gennaio 2024

Dirompente...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Immagino che in tanti abbiate riconosciuto subito, in questa immagine, un particolare della splendida "Adorazione dei Magi" di Giotto (1267 - 1337), nel ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova.
È la cometa che sovrasta la capanna dove i Re venuti dall'Oriente
portano doni al piccolo Gesù. Probabilmente, l'artista vi ha voluto raffigurare la celebre cometa di Halley della quale aveva visto il passaggio, anche se gli studiosi non ne sono totalmente certi. Tuttavia non è su questo argomento che intendo soffermarmi, ma proprio sul dettaglio pittorico.

Osserviamolo: è un'immagine che fonde in modo straordinario semplicità ed efficacia e in pochi tratti - ora indefiniti, ora progressivamente più marcati - non solo rende splendidamente un'idea, ma ci riempie di emozione. E se non ne conoscessimo l'autore nè il periodo in cui è stata realizzata, potremmo forse scambiarla per un'opera moderna o contemporanea.
Certo, la grandezza di Giotto sta anche nella sua modernità fatta di pennellate
essenziali, capaci in pochi tocchi di dar vita, espressione, sentimenti alle figure umane e a tutta la compagine naturalistica che rappresenta. Ma c'è di più.

Qui non vediamo un astro dalla luminosità contenuta e tranquilla come in altre raffigurazioni pittoriche, ma una meteora dirompente a somiglianza di un oggetto che sta esplodendo. Il modo in cui è dipinta la coda della stella non sembra forse imprimerle velocità? E il cuore della cometa, animato da un fuoco interno e da quei raggi di luce che si irradiano intorno, non rappresenta una sorta di deflagrazione?
Osservare oggi questo particolare colpisce perchè, se è splendido sul piano pittorico,
può diventare inquietante per la terribile attualità di altre deflagrazioni che stanno devastando proprio la stessa parte di mondo in cui il dipinto è ambientato. Tuttavia, al di là di tale riferimento, la bellezza del dettaglio giottesco sta nel fatto che la forza esplosiva della stella è in realtà un ardente palpito di vita quasi che, attraverso di essa, l'artista abbia voluto rappresentare la sorpresa del creato e la sua corsa gioiosa a celebrare l'evento dirompente della nascita di Gesù. 

Nell'insieme dell'affresco, la qualità del particolare può forse sfuggire, ma il suo ingrandimento ci rivela quanto Giotto abbia fatto della cometa non un ornamento puramente accessorio, ma un segno forte a indicare Colui che è sceso nel mondo a salvarlo dal male.

Così, ho scelto di associare a questa immagine un brano del musicista estone Arvo Pärt intitolato proprio "Da pacem, Domine".
Si tratta di un antico testo liturgico le cui parole
- "Da pacem, Domine, in diebus nostris, quia non est alius qui pugnet pro nobis nisi tu Deus noster" - fanno riferimento a vari passi biblici.
Il pezzo è stato scritto dal compositore nel 2004 su iniziativa di Jordi Savall,
per ricordare le vittime degli attentati terroristici a Madrid dello stesso anno; ma è una preghiera che sottintende la sofferenza dell'intera umanità, nella convinzione che l'unica vera protezione è quella di Dio.
Il brano corale a quattro voci è costruito sulle note di un'antica antifona gregoriana, e se ciò da un lato è cosa insolita nello stile di Pärt, dall'altro dona al mottetto cadenze tipiche della musica rinascimentale.

Tuttavia, a mio modesto avviso, anche altre reminiscenze fanno la bellezza di questo canto. Il suo procedere lento, segnato da note ripetute e ritmate - quasi un grido che sembra racchiudere tutto il dolore del mondo - nel suo andamento in minore con qualche cenno di apertura in maggiore, mi suggerisce due riferimenti: l'intensità dell'esordio del "Requiem" di Mozart e l'atmosfera sublime di certi inni ortodossi.
Il pezzo è stato rielaborato in differenti versioni: per coro a cappella, coro e
orchestra d'archi così come per violoncelli, sassofoni e flauti dolci. Qui ho scelto l'interpretazione del Bundesjugendchor - Coro Federale della Gioventù che raccoglie cantori da tutti gli stati federali tedeschi - che mi è parsa particolarmente toccante.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

sabato 6 gennaio 2024

Los Reyes siguen la estrella...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono grata all'amico lettore Arrigo Lupo per la scoperta del brano di oggi. Come si vede infatti dai commenti della volta scorsa, è stato lui a segnalarmi il pezzo: un bellissimo corale per l'Epifania di Francisco Guerrero (1528 - 1599), autore di polifonia sacra tra i più rappresentativi nella Spagna rinascimentale. A dire il vero, pensavo di sentirlo e tenermelo ormai in serbo per il futuro, ma mi è piaciuto tanto che sono già qui a farvelo ascoltare!

Si tratta del brano a quattro voci intitolato "Los Reyes siguen la estrella" dalle "Canciones y villanescas espirituales" del 1589: un corale raffinato e suggestivo, ma di non facile esecuzione. Le varie voci infatti non sempre aprono insieme la stessa frase musicale, ma - come sentirete - si muovono talora in modo indipendente. Tuttavia, se ciò da un lato può costituire una difficoltà, dall'altro arricchisce la bellezza di questo canto con un andamento - tra l'altro - in linea col significato della strofa iniziale:

"I Re seguono la stella; / la stella segue il Signore; / e il Signore di loro e di lei / segue e cerca il peccatore."

Anche il testo, infatti, ci parla di una serie di movimenti in cui ognuno cerca qualcosa, in un cammino di salita e di discesa. I Magi seguono la stella che a sua volta segue il Signore; tuttavia il re del cielo non se ne sta assiso su di un trono, ma scende nel mondo in cerca del peccatore: un moto bellissimo espresso nel corale con un tempo quasi di danza (3/4) insieme alla complessità di alcuni intrecci vocali. 

Si parla dunque dei Magi venuti dall'Oriente a cercare il Bambino per rendergli omaggio secondo una tradizione che - dal Medioevo al Rinascimento ma anche più avanti - è stata oggetto di tante celebri raffigurazioni pittoriche.
Da Giotto a Michelino da Besozzo, da Gentile da Fabriano a Benozzo Gozzoli, dal Mantegna a Leonardo e in seguito ad altri artisti del Seicento, l' Adorazione dei Magi è stato un tema di grande fascino nel rappresentare i tre saggi che portano doni, ma spesso anche il corteo che li accompagna.

Così oggi, cedendo proprio a tale fascino, mi piace pubblicare una tavola di Zanobi Strozzi (1412 - 1468) intitolata "Il corteo dei Re Magi", ma conosciuta anche come "Il viaggio di Re Mago Baldassarre verso la Terra Santa" e conservata al Museo delle Belle Arti di Strasburgo.

Per quanto operi in pieno Quattrocento, insieme a qualche elemento iconografico nuovo troviamo nell'artista molti aspetti ancora tipici del Gotico internazionale.
Se infatti da un lato la descrizione
presenta già in parte caratteri realistici nel creare una profondità prospettica tra i vari piani, dall'altro ciò che Zanobi Strozzi dipinge è un mondo fantasioso e fiabesco, a somiglianza di certe immagini del Beato Angelico col quale peraltro aveva lavorato. Lo vediamo per esempio nella raffigurazione delle montagne, bizzarre e sproporzionate rispetto agli edifici o alle figure umane, o degli alberi talora troppo alti in rapporto al resto.

Ma è stato proprio questo aspetto di fiaba a prendermi subito, sia per l'abbigliamento del fastoso corteo nella vivacità dei suoi contrasti coloristici, che per quel cielo limpido e smaltato come un blu di lapislazzuli che va pian piano schiarendosi vicino al profilo delle colline.
O per l'architettura dei castelli sullo
sfondo, ricchi di torri e pinnacoli che sembrano presi dalle miniature fiamminghe o da qualche opera dell' Angelico. 

Un mondo bellissimo e luminoso nel quale talune disarmonie prospettiche sono compensate dallo splendore di certi dettagli che indicano il gusto descrittivo del pittore. Guardiamo per esempio il piccolo ponte semicircolare che s'inarca sopra un rio, o i vari animali disseminati qua e là nel paesaggio, così come l'attenta riproduzione di copricapi, mantelli e finiture in cui si nota la cura del particolare tipica di un miniatore quale in effetti Zanobi Strozzi è stato.

Un mondo cortese quello raffigurato dall' artista in un viaggio della fantasia che contrasta un po' con l'esperienza fatta, circa un secolo dopo, dal compositore Francisco Guerrero. Questi davvero si è recato a Gerusalemme in un pellegrinaggio che è stato però piuttosto avventuroso e che ha poi raccontato in un libro.

E la stella?...vi chiederete.
A ben guardare nella tavola di Zanobi
Strozzi non c'è, ma compare in un altro suo dipinto che vi riporto qui a lato, intitolato "Adorazione dei Magi" e conservato presso la Pinacoteca Vaticana.
La vedete?...Risplende in alto a sinistra
proprio sopra la Sacra Famiglia, piccola ma luminosa come un sole! 

 Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

lunedì 1 gennaio 2024

"If music be the food of love"

Caravaggio (1571 - 1610) : "I Musici" - Metropolitan Museum of Art, New York.  

Mi piace inaugurare l'anno nuovo celebrando la musica con le parole riportate qui di seguito, che poi potrete ascoltare sulle note di Henry Purcell (1659 - 1695). Si tratta di un testo teatrale di Henry Heveningham (1651 - 1700) al quale il compositore inglese ha dato vita in un brano vocale di grande raffinatezza intitolato "If music be the food of love, Z.379C".

"Se la musica è cibo dell'amore
canta fino a che io sia pieno di gioia
perchè allora muovi la mia anima che ascolta
a piaceri che non possono mai saziare.

I tuoi occhi, la tua grazia, la tua lingua proclamano
che tu sei musica in ogni parte.


I piaceri invadono l'occhio e l'orecchio
e i sentimenti che provo sono così violenti che feriscono
e tutti i miei sensi festeggiano
in un banchetto di suono.
Certo morirò per il tuo fascino
se non mi salvi tra le tue braccia!"

La musica vi è celebrata come cibo dell'amore, nel suo potere più che mai toccante di ispirare, commuovere, trasfigurare l'interiorità dell'essere umano suscitando una vera e propria fioritura d'anima. Essa nutre infatti l'amore con una ricchezza che alimenta sempre nuovo desiderio e un'intensa passione, come si può desumere dalle espressioni "piaceri che non possono mai saziare" e "banchetto di suono".
Sono parole ispirate a un importante precedente letterario: infatti, la parte
iniziale del testo di Heveningham riprende l'esordio del monologo del Duca Orsino ne "La Dodicesima notte" di William Shakespeare (1564 - 1616), col quale il nobile si rivolge proprio ai musicisti presenti sul palco:

"Se la musica è l’alimento dell’amore, seguitate a suonare, datemene senza risparmio, così che, ormai sazio, il mio appetito se ne ammali, e muoia.
Ancora una volta quella melodia! Aveva una cadenza languida. Giungeva al mi
o orecchio come la dolce brezza che spira su una sponda di violette, rubandone il profumo e diffondendolo attorno."

Sia nel primo che nel secondo testo - nonostante alcune differenze - si descrive l'esperienza inebriante di coloro che si accostano alla musica lasciandosene coinvolgere, permettendo alle note di aprire brecce e suscitare altra vita, quasi che i suoni siano parte di un atto creatore che sta all'origine di sentimenti più profondi.
Tale intreccio fra amore e musica è reso da Purcell con un brano
composto in tre versioni differenti, delle quali ho scelto la terza dove note e parole si coniugano in perfetta armonia. Una splendida scrittura per voce solista e basso continuo, qui interpretata da Emma Kirby e fatta di progressiva complessità e raffinati ornamenti che - ora più dolcemente, ora più intensamente - vanno ad ammaliare l'anima di chi se ne lascia catturare.

Buon ascolto e auguri di Buon Anno nel sorriso della musica!

(La foto è presa dal web)