giovedì 28 febbraio 2019

Se il tocco è femminile

Ancora una giga???
Sì ancora, e scelta sempre dall'immensa produzione bachiana.
Ma stavolta l'interpretazione è anche al femminile e spero che András Schiff - di cui vi ho parlato la scorsa settimana - mi perdonerà se, alla sua pur pregevole esecuzione, in questo caso affianco quella di Simone Dinnerstein.

Si tratta di una pianista americana, classe 1972, che i lettori di questo blog già conoscono per averla ascoltata precisamente qui.
Famosa - tra l'altro - per aver registrato le "Variazioni Goldberg", la Dinnerstein si distingue per la sua particolare lettura dei pezzi bachiani che la pone agli antipodi rispetto ad altri celebri interpreti come - se vogliamo parlare al femminile - la canadese Angela Hewitt.

A proposito di Bach, sono annose fra i musicisti le discussioni sul modo di suonare certi suoi brani. Meglio al clavicembalo o al pianoforte? Con o senza pedale? È più opportuna una lettura filologica dei testi, che rispetti rigorosamente le dinamiche previste dal compositore o ci si può prendere qualche libertà? Meglio essere fedeli al passato ripristinando l'uso di strumenti d'epoca o seguire il filo della sensibilità odierna anche nel rileggere ciò che sta alle nostre spalle? 
Questioni spesso dibattute alle quali ogni interprete, di volta in volta, ha dato una risposta dettata soprattutto dalla propria sensibilità.
Ma forse la soluzione sta nel mezzo, nel considerare cioè che, se da un lato non è corretto suonare un autore barocco come si farebbe con un romantico, dall'altro resta vero che il pianoforte - che al tempo di Bach non esisteva - offre potenzialità espressive più ampie rispetto al clavicembalo. Consente così di far emergere da un brano sfumature e sonorità che ne arricchiscono lo splendore insieme alla carica emozionale.
Occorre quindi, tra rigore e libertà, un equilibrio che a me pare trovi attualmente la sua massima espressione in András Schiff, mentre la Dinnerstein - più giovane - è una figura innovativa ma anche più discussa. 
Per la sua libertà interpretativa è stata infatti talora oggetto di critiche da parte dei puristi, ma ha ricevuto anche apprezzamenti per la sua autonomia da una lettura strettamente filologica dei testi bachiani.

Detto questo però, confesso che, proprio nel pezzo che segue, mi sento più in sintonia con lei e - come scrivevo sopra - spero che il nostro amico András mi perdoni. Ma veniamo al brano. 
Si tratta della "Giga" che conclude la "Partita n.1 in Si bemolle maggiore BWV 825", pezzo di nitida luminosità e di grande effetto anche perchè giocato sull'incrocio delle mani. Ma non è particolarmente difficile e suonarlo consente di osservare dall'interno la bellezza della sua costruzione.
"Allegretto con moto, ma espressivo" recita l'indicazione in cima allo spartito, e se la prima parte della frase riguarda la velocità di esecuzione, la seconda ne mette in luce la morbidezza. 
Proprio relativamente a questi due aspetti, mi pare che l'interpretazione di Schiff sottolinei il primo con un'esecuzione veloce e giocosa che privilegia il ritmo, mentre la Dinnerstein sia invece più portata ad esaltare il secondo. 
Nella sua versione, ci sono infatti qua e là passaggi in cui la melodia si allarga in un andamento più tranquillo insieme a tocchi di straordinaria e quasi furtiva dolcezza con cui la pianista fa parlare luminosamente ogni singola nota. 
E mentre nei diminuendo Schiff tende a scandire nettamente legati e staccati, la Dinnerstein ne mette invece in evidenza i cromatismi con una lettura del brano più morbida e certo un po' romantica ma - a mio modesto avviso - molto affascinante. Poi mi direte voi.

Resta comunque il fatto che il genio di Bach risplende con ogni tipo di strumento o interpretazione, e molteplici sono le dimensioni della sua ricchezza creativa che ogni bravo musicista può esplorare e mettere in luce.

Buon ascolto!

mercoledì 20 febbraio 2019

Giocosa leggerezza

(foto presa dal web)
Ho un passioncella segreta per András Schiff.
"Brava! - direte voi - E vieni a raccontarlo proprio qui???"
Lo so, non dovrei, ma questo è un angoletto di web un po' appartato e poi conto sulla vostra discrezione. 
Si tratta comunque di una passione squisitamente musicale che tuttavia - se devo essere sincera - non nutro solo per lui. 
Del resto, tutti sanno che la musica alimenta spesso un certo romanticismo, soprattutto quando i suoi interpreti sanno fondere alle note il proprio cuore, regalando a ciò che suonano un tocco inconfondibile.

A dire il vero, non sempre entro facilmente in sintonia con tutti i musicisti, a volte mi ci vuole del tempo, ma András Schiff mi è piaciuto subito. 
Anno più anno meno, dovremmo essere quasi coetanei e, se io fossi stata pluriripetente e lui - da genietto qual è - fosse andato a scuola in anticipo, avremmo potuto forse trovarci in classe insieme: io al primo banco e lui un po' più scafatello in fondo al fila, vicino alla finestra, lo sguardo azzurro perso già nella musica...
Nooo...eh? Dite che sto vaneggiando?
O forse mi attira per un certo fascino ungherese, la chioma ormai lumeggiata di grigio, gli occhi cerulei e quell'ombra di sorriso che nasce da dentro quando al pianoforte suona Bach.
Sì, perchè è uno dei maggiori interpreti viventi del compositore tedesco, anche se nel suo repertorio trovano spazio numerosi altri musicisti.
Mi è sempre piaciuto il suo modo di accostarsi a Bach perché, alla precisione e al rigore, Schiff unisce una grande morbidezza di suono insieme ad uno straordinario gusto: un gusto espresso sempre con discrezione e signorilità in un dialogo con la musica che ce ne restituisce di volta in volta l'energia, la dolcezza, la solennità o l'attitudine giocosa. 
E ora che la mia passioncella non è più segreta, passiamo al brano.

Proprio per la sua attitudine giocosa, dall'immenso complesso delle composizioni bachiane, ho scelto una "Giga", precisamente dalla "Suite francese n.5 in Sol maggiore BWV 816".
Si tratta - come già sapete - di una danza dal ritmo veloce e dalla costruzione in terzine che il multiforme genio di Bach ci offre qui in uno splendido esempio. Sono note che sprigionano un'irrefrenabile energia, un movimento simile a quello di cavalli al galoppo, ma insieme ci regalano una spensieratezza che mi fa pensare ai bambini quando prendono una gioiosa rincorsa o saltano in allegro girotondo senza altri pensieri al mondo. Il tema infatti è vivacissimo, sia nella prima parte del brano che nella seconda dove - come spesso accade in Bach - si dipana al contrario.

Ma torniamo a Schiff: osservate la leggerezza con cui suona!
Il suo è un tocco precisissimo ed elegante, capace di farci cogliere le dinamiche del pezzo, il progressivo sovrapporsi delle voci, gli accenti o l'improvvisa morbidezza di alcuni passaggi. Del resto, basta guardare le mani per vedere con quale compostezza e al tempo stesso con quanta giocosa fluidità si muovono sulla tastiera.
Ma a prendermi è anche l'intima gioia che traspare dal suo sguardo talora  ammiccante, dal suo lieve sorriso, dai cenni del capo nel seguire l'andamento del brano e nel coglierne quello splendore che - a sua volta - poi riflette nel modo di suonare, in una sorta di circolarità tra cuore, mani e musica. 

La clip video che segue comprende l'intera "Suite" ma - per mia e vostra gioia - l'ho fatta partire proprio dalla "Giga" che è l'ultimo movimento. 
Poi, se volete, potete tornare indietro e riprendere la composizione dall'inizio.

Buon ascolto!

mercoledì 13 febbraio 2019

"Inverno"

(foto presa dal web)
Splende un magnifico sole, oggi, e non è la cornice che mi ero immaginata per pubblicare un post invernale, più adatto all'atmosfera ovattata della neve o della nebbia e al desiderio di intimità che la stagione fredda porta con sè.
Oggi invece no, solo un velo di brina che si è sciolta in mattinata, cielo azzurro e un'aria che sembra anticipare la primavera e indurre a un più ampio respiro.
Ma l'improvvisa dolcezza del clima non mi impedisce di condividere con chi passa di qui l'argomento di un libro che ho appena finito di leggere e che - come vedete - riproduce in copertina il paesaggio innevato di un famoso dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio.

Si tratta di "Inverno", un saggio dello storico Alessandro Vanoli  sui molteplici aspetti di questa stagione dal passato al presente, indagati anche attraverso una serie di testimonianze di letteratura, musica e arte figurativa.

È il freddo il filo conduttore del testo nel dipanarsi del tempo, un freddo che i nostri antenati conoscevano bene e al quale si erano adattati nel chiuso degli antichi monasteri e dei castelli, ma anche all'interno delle case di campagna fino a non moltissimi anni fa. Un freddo che diventa protagonista della storia condizionando anche lotte e guerre dal Medioevo all'epoca moderna, ora nemico ora alleato dei contendenti. 
Vanoli ricorda a questo proposito episodi famosi: dall'umiliazione di Enrico IV a Canossa nella bufera del gennaio 1077, a Napoleone sconfitto dal gelo delle steppe russe, fino alla prima guerra mondiale così come ne ha parlato Mario Rigoni Stern ne "Il sergente nella neve".  
La neve appunto: un mondo divenuto simbolo di rigore e di tempeste ma anche di intimità e di silenzio, fino ad anni più vicini a noi quando - con la possibilità di riscaldare ormai ogni ambiente - la prospettiva con cui si guarda alla stagione fredda cambia. La neve diventa così protagonista degli sport invernali e insieme fonte di turismo e divertimento.

Ma c'è di più. Il libro si addentra anche in una molteplicità di tradizioni, abitudini e folklore che - sulla base di una ricca documentazione - Vanoli ricorda, associandone alcuni aspetti proprio ai mutamenti del clima e alle necessità da esso imposte. L' autore spazia così dalle esplorazioni geografiche fino all'abbigliamento, dalle feste ai doni e a tutte quelle usanze che, fiorite da radici storiche, sono entrate poi nell'immaginario collettivo associando all'inverno un senso di attesa. 
In effetti, il sottotitolo del libro è proprio "Il racconto dell'attesa" e il suo stile ha spesso i connotati di una narrazione: intima, sommessa, pacata, quasi fossimo intorno al fuoco ad ascoltare antiche favole, attenti a che le parole non turbino il profondo silenzio nel quale la natura cova una rinascita. 
Vanoli ci parla così dell'attesa del Natale con le sue consuetudini, dell'Epifania e poi ancora del Carnevale, feste che - per certi aspetti - affondano le radici nel bisogno di cogliere l'eterno ritmo di una vita che sembra finire, ma torna a riprodursi.
E non tralascia poi di ricordare quanti scritti, dipinti e musiche sono stati ispirati dal fascino della stagione invernale senza trascurare quanto ci arriva anche da altri continenti. In un percorso ricco e variegato, ci conduce così da Tolstoj a Dickens; dalle miniature dei Fratelli Limbourg alla neve nei quadri degli Impressionisti e nelle stampe giapponesi; dal celeberrimo "Inverno" delle "Quattro stagioni" di Vivaldi a Schubert, Tchaikovsky, fino a Piazzolla e a De André, per citare solo qualche esempio.

E siamo quindi arrivati alla musica. 
Ho pensato a lungo a quale brano associare a questi cenni sul libro e naturalmente il primo a venirmi in mente è stato proprio il "Largo" dell'Inverno vivaldiano che però ho già pubblicato in passato, come pure qualche altro riferimento.
Infine, ho scelto un pezzo di Ludovico Einaudi intitolato "Il viaggio d'inverno", tratto dalla colonna sonora del film "Sotto falso nome" del 2004: una musica che - al di là dei riferimenti alla pellicola che è un thriller - a mio avviso può vivere di vita propria.
Mi è piaciuta infatti l'atmosfera che essa riesce a creare, quasi fosse una sorta di contemporaneo Winterreise che ci vede viandanti nel silenzio e nella solitudine. E se da un lato il brano sa cogliere l'intimità della stagione, dall'altro ci fa percepire l'oscura desolazione e quel senso di mistero che talora la natura invernale porta con sè. 
Sono solo quattro le note intorno alle quali ruota il tema, ribattute e ripetute su differenti piani tonali, a costituire la cifra sobria e inconfondibile dello stile di Einaudi. Ma suggestivo è il contrasto tra il suono vibrante del pianoforte e quello degli archi, come pure il contrario verso la conclusione del brano, dove è il pianoforte a scandire malinconicamente la melodia mentre gli archi - in sottofondo - le regalano intensità.

E per concludere, mi affido alle parole di Vanoli alle pagg. 179-180 del libro, che mi sembrano adatte ad interpretare anche l'atmosfera di questa musica:

 "Certo lo so: era un'attesa ingenua quella che mi è venuta in mente. Un'attesa da bambino. Ma l'ho imparata lì, credo, la lezione dell'inverno. Quella di una natura che rallenta il suo respiro stretta in un manto di gelo. Quella della natura sospesa." (...)  
"Perchè quella natura che si spegne si riflette inevitabilmente in noi, nella nostra attesa di rinascita, nella nostra fisiologica speranza di vita di fronte alla morte. E il freddo e il gelo ci mettono inevitabilmente di fronte a tutto questo. Perchè è in quel momento, quando tutto si ferma, che la morte si fa improvvisamente tangibile. Eccolo allora l'inverno delle nostre paure e dei nostri limiti di fronte a una natura indifferente. E il freddo diventa quindi insegnamento, disciplina del corpo e dello spirito: quell'educazione alla lentezza e all'attesa che solo il gelo e la solitudine del ghiaccio sanno donarti, abituandoti a dare il giusto ordine e la priorità alle cose."

Buon ascolto!

 

giovedì 7 febbraio 2019

Altamente improbabile

(foto prese dal web)
Lo so, in questi ultimi tempi mi sono sbizzarrita forse un po' troppo nel cercare somiglianze, coincidenze, analogie tra musiche del passato e del presente: voli pindarici che mi hanno sempre affascinato e dai quali mi sono lasciata prendere e portar via con gioia.  
Infatti, cercare in un brano parentele con altri è sempre stata per me una tentazione irrestistibile, soprattutto quando mi capita - e mi capita! - di canticchiarmi una melodia finendo poi, senza accorgermene, in un'altra.

Ascoltando - per esempio -  l' "Adagio" della "Seconda Sinfonia" di Rachmaninov, mi accade di sentir risuonare in me qualche tratto della celebre colonna sonora del film "Nuovo Cinema Paradiso". Non è una somiglianza vera e propria a condurmi dall' uno all'altra, ma un'aura, un'atmosfera, una sorta di vaga suggestione. Non solo, ma a volte penso che, nel comporre tale colonna sonora, Ennio Morricone abbia seguito anche il ricordo di alcune Allemande bachiane tratte dalle "Suites francesi", la quarta e la quinta per essere precisi.

Follie della sottoscritta? Qualcuno mi dirà: "Datti una regolata, stai ascoltando troppa musica e...a una certa età, ti va tutto insieme!"
Lo riconosco, è possibile. Ma siccome sono un tantino testarda - solo un tantino, eh! - resto convinta che dietro certe corrispondenze si nasconda spesso un motivo. E talora è davvero un motivo: un'aria antica che risuona segretamente in un pezzo recente, una cultura fatta propria dal musicista, che riaffiora qua e là come un fiume sotterraneo che appare in superficie e poi torna a inabissarsi. Ma il suono delle sue acque mi resta nell'orecchio, e suscita in me un desiderio così pressante di scoprire l'identità di questo fiume segreto, che m' induce alle ipotesi più disparate.

Bene. Allora perdonatemi, ma tenetevi forte perchè, se finora mi sono divertita a buttar là qualche sciocchezzuola operando collegamenti con una sorta di immaginazione senza fili, oggi invece sono in procinto di spararla grossa.
È Aram Khachaturian (1903 - 1978) questa volta il protagonista - o la vittima - della mia follia e il brano che vi propongo è uno dei più famosi.
Si tratta dell' "Adagio" dal balletto "Spartacus" che riporto qui in un'affascinante versione per pianoforte solo. Un brano molto intenso, ricco di passaggi appassionati di grande effetto che è stato ripreso anche a commento di una serie tv britannica di genere avventuroso.

Ma vengo al dunque. Il fatto è che, subito al primo ascolto e via via nei successivi, mi sono risuonate dentro altre melodie. 
In certi passaggi la passione del "Sogno d'amore" di Liszt, in alcune dissonanze un richiamo al languore della musica tardoromantica, ma soprattutto nel tema del brano - e qui viene il bello! - ho ritrovato lo schema armonico della famosissima "My way" resa celebre, tra gli altri, da Frank Sinatra. 
Affermazione azzardata, collegamento concretamente improbabile, lo so!
Eppure, per quanto l'Adagio del compositore russo abbia un clima musicale differente e - nella parte successiva a quella riportata dalla clip-audio - si volga verso toni drammatici, il suo tema mi riconduce alla canzone. E più lo ascolto, più mi sento di affermarlo con piena avvertenza e deliberato consenso, proprio come per i peccati mortali! 
Ma quale dei due autori avrà preso ispirazione dall'altro? 
Non certo Khachaturian che ha composto l'opera nel 1954, mentre "My way" riprende la musica di "Comme d'habitude", scritta da Claude Francois nel 1967 e successivamente riadattata nel testo e nel titolo da Paul Anka. E allora?
Allora non so, non ho altri elementi, ma provate a risentire la canzone aprendo questo link: https://www.youtube.com/watch?v=onWf4_yl-pY.

A dire il vero, avrei altre due cosette da aggiungere, ma per pudore mi fermo qui, perchè si tratta ancora di riferimenti altamente improbabili e sono convinta che non solo gli amici lettori più esperti, ma anche i compositori a cui penso - dal Paradiso dei musicisti dove me li immagino - si farebbero due matte risate. 
E quel briciolo di senno che mi è rimasto mi suggerisce che per oggi basta così.

Buon ascolto!