venerdì 31 dicembre 2021

Ricalcola il percorso...

Ringrazio l'amica Cristina che - quale fan della celebre Lucrezia uscita dalla fantasia e dai fumetti di Silvia Ziche - ha pubblicato su Facebook la vignetta che vedete. Una figura simpatica quella di Lucrezia, fatta di ironia e disincanto, ma non per questo priva di uno sguardo concreto sulle cose e di una sua saggezza.

Mi ha colpito perchè, proprio ieri, in macchina con mio marito nella fitta nebbia padana, per orientarci su strade che in realtà conosciamo come le nostre tasche, abbiamo dovuto usare il navigatore. Confesso che per questo strumento di bordo ho sempre nutrito una proverbiale allergia anche quando parla con suadente voce femminile. Tuttavia, devo riconoscere che ci ha portato alla destinazione giusta perchè, ogni volta che con tono soave diceva una cosa mentre noi ingannati dalla nebbia ne facevamo un'altra, rimodulava prontamente l'itinerario.
È stato allora che la frase con la quale dava l'ordine - "Ricalcola il
percorso" - mi è risuonata dentro in modo nuovo, quasi potesse rivestire un senso capace di andare al di là della necessità momentanea. 

Ricalcolare il percorso in effetti può significare tante cose: far fronte a un imprevisto, optare per un cambiamento, esercitare una forma di autocritica, ma anche ridefinire scopi e mete da raggiungere valutando equipaggiamento, tempi, risorse e limiti del viaggio.
Ricalcolare il percorso può anche indurre a scelte non facili e forse è un esercizio che abbiamo già compiuto altre volte. Ma se capita che ci si
perda per strada, o si proceda nella nebbia, o che tanti sogni debbano essere ridimensionati come sta accadendo da quasi due anni a questa parte, il navigatore continua a suggerirci che la strada per arrivare alla nostra meta può essere ancora ricalcolata. C'è speranza insomma!
Poi, tornata a casa, ho scoperto la vignetta di Silvia Ziche pubblicata dalla mia
amica. Coincidenze? Forse. Così ora sono qui a condividerla con voi in questo scorcio di fine anno come augurio per quello nuovo.

E per sottolineare in musica questo passaggio, ho scelto un brano corale che ho nel cuore da tempo. Si tratta del mottetto a quattro voci "Exultate justi in Domino" di Ludovico Grossi da Viadana (1564 - 1627), compositore spesso ricordato col solo nome del suo luogo di nascita.
A dire il vero, il canto - che riprende i versetti iniziali del Salmo 33 - è spesso eseguito in occasione della festa dei Santi e, ad essere
rigorosi, non è adatto a una fine d'anno per la quale sarebbe più consono un "Te Deum".
Ma, ricalcolando appunto il percorso, ho deciso di variare l'itinerario musicale
concedendomi una piccola trasgressione: allora eccolo qua.
Il mottetto è vivace e animato come una danza e, con la sua bellezza, ci suggerisce la
meta su cui fissare l'attenzione e verso la quale orientare il cammino. Affascinante il modo in cui le voci si avvicendano e s'intrecciano gioiose, nell'invito a cantare e suonare moltiplicando la lode a Dio.
Un brano capace di far fiorire in noi il sorriso e, magari, di indicare la strada per il futuro radioso cercato dalla Lucrezia della vignetta, e certo anche da tanti di noi.

Buon ascolto e Buon ANNO!

(La foto è presa dal web)

 

sabato 25 dicembre 2021

Buon Natale!!!



















Federico Barocci (1535 - 1612) : "Natività" - Madrid, Museo del Prado.

Johann Sebastian Bach (1685 - 1750) : "Gloria sei dir gesungen" dalla Cantata BWV 140.

mercoledì 22 dicembre 2021

Inverni

Giunti alle soglie dell' inverno, anche se meteorologicamente il freddo è già arrivato da giorni, oggi mi piace ricordare alcune composizioni musicali dedicate proprio a questa stagione.

Se numerose sono le emozioni che, di tempo in tempo, la musica ci ha regalato e svariati i temi in cui si è addentrata, la descrizione della natura è uno di quelli che hanno suscitato più volte l'interesse dei compositori.
C'è infatti un filo che, dal Rinascimento in
poi, attraversa i secoli arrivando fino al Novecento.
È un'attenzione ai fenomeni e ai suoni della natura in un primo momento
riprodotti solo per onomatopea - come fa nel Cinquecento Clément Janequin con "Le chant des oiseaux" - poi ricreati con maggiore ampiezza descrittiva e infine colti nei loro effetti emotivi ed evocativi.
Penso - solo per citarne alcuni - a diversi brani di Vivaldi o di Haendel; al
temporale nella Sinfonia "Pastorale" di Beethoven o all'incanto della sua Sonata "Al chiaro di luna"; allo scorrere dell'acqua ne "La Moldava" di Smetana e in certi brani di Debussy e Ravel; alla "Sinfonia delle Alpi" di Richard Strauss e via dicendo. Brani diversi fra loro proprio per l'intento dei vari compositori ora di descrivere, ora di evocare, ora di tradurre in note la realtà esterna, ora invece di riprodurne l'eco e le risonanze interiori.

Ma l'attenzione alla natura ha preso spesso in considerazione anche il succedersi delle stagioni con gli eventi meteorologici che le contraddistinguono. Celeberrimi a questo riguardo, i quattro Concerti di Vivaldi, esempio di musica a programma in cui, sulla traccia dei sonetti dedicati appunto alle varie stagioni, il compositore ne ha descritto in note i caratteri.
Tuttavia, se pure è il più famoso, Vivaldi non è il solo ad aver affrontato
l'argomento. Ricordiamo dopo di lui Haydn con l'Oratorio "Le stagioni" per soli, coro e orchestra; Tchaikovsky con i dodici brani per pianoforte dedicati ai mesi che portano appunto il titolo di "Stagioni op.37"; e su su fino ad Astor Piazzolla con la suite "Cuatro Estaciones portenas", opera di atmosfera molto diversa dalle precedenti e ispirata al tango argentino.

Oggi però, all' interno di questo tema, desidero soffermarmi in particolare sull'inverno. Ricordiamo a questo proposito Purcell con l'aria "Now Winter comes slowly"; ancora Tchaikovsky con la Sinfonia n.1 intitolata "Sogni d'inverno"; poi l'esuberante "Valzer dei pattinatori" di Waldteufeld fino a una composizione dal clima del tutto differente che è appunto "Invierno porteno" del già citato Piazzolla.
In tali brani, ora è il carattere complessivo della stagione ad essere messo in luce,
ora un singolo aspetto: il ghiaccio, il freddo tempestoso, la neve, il calore del fuoco o l'atmosfera di sogno. A questo proposito, non possiamo dimenticare l'incanto assoluto del "Largo" dell'Inverno di Vivaldi che potete trovare qui, dove il pizzicato dei violini descrive mirabilmente le gocce di pioggia, mentre la melodia ci restituisce un'aura di contemplazione e intimità.

Il brano di oggi, tuttavia, è in netto contrasto con il "Largo" vivaldiano non solo per il differente contesto cronologico e musicale in cui si ambienta, ma anche per la sua tempestosa irruenza. Si tratta dello "Studio in la minore n.11 op.25" di Chopin, chiamato "Winter wind" - Vento d'inverno - che qui ho pubblicato nella magica interpretazione di Maurizio Pollini.
Nati come esercizi per la destrezza, la resistenza e la velocità delle mani, in realtà
gli Studi del compositore polacco - sia dell'op.10 che dell'op.25 - si caratterizzano per la fusione di ardite sfide tecniche da un lato e intensa musicalità dall'altro, cosa che li ha resi subito a pieno diritto veri e propri pezzi da concerto.
Questo che vi propongo è un brano di vertiginosa difficoltà, non solo per la
velocità che - a parte le prime quattro battute - la sua esecuzione richiede, ma per la necessità che, nell'inarrestabile cascata di note, le mani lavorino in modo pressoché indipendente. Dopo le prime quattro lentissime battute, la melodia irrompe impetuosa proprio come un vento sferzante, una tempesta che non dà tregua; e mentre la destra si produce in una sequenza ininterrotta di scale e arpeggi, la sinistra con i suoi accordi riprende il tema delle battute iniziali costruendo la melodia.
Un pezzo di Chopin ricco di impeto romantico e capace di trasformare il virtuosismo in vero linguaggio artistico.

Buon ascolto!

(La foto, presa dal web, riproduce il dipinto di F.Goya intitolato "L'inverno" o "La tempesta di neve", conservato al Museo del Prado, a Madrid). 

 

mercoledì 15 dicembre 2021

In cerca di leggerezza - 12








Giunta a dicembre, e così pure alla fine di questa serie di post in tema di leggerezza, mi piace regalarvi un' immagine un po' fiabesca che mi affascina da tempo. Ma la sua luce, i colori, il modo con cui è disegnato il paesaggio e il fatto che sia il dettaglio di un dipinto che raffigura una Madonna, mi hanno indotto ad aspettare la vicinanza del Natale.
Tuttavia, anche se la Vergine è col Bambino, non si tratta di una Natività, ma di
una splendida tavola di Giovanni di Paolo (1398ca. - 1482), intitolata "Madonna dell'Umiltà" e conservata presso la Pinacoteca nazionale di Siena.

L'artista, esponente della scuola senese e al tempo stesso vicino allo stile del Gotico internazionale, ci offre raffinatissime opere nelle quali caratteri ancora tipici della pittura del Medioevo si fondono con le prime novità prospettiche del Quattrocento. E il dipinto che vedete, databile intorno al 1435, si pone in questa linea.

Come potete osservare dalla foto qui
accanto, Maria, chiusa in un manto scuro dalle linee sinuose ed eleganti, i capelli raccolti in un'elaborata acconciatura che va confondendosi con l'aureola, siede nel mezzo di un giardino.
Il riferimento all'umiltà è legato proprio al
fatto che non è in trono, ma sul terreno - humus, appunto - anche se appoggiata su di un panno che sembra riccamente decorato. Intorno, la circonda un piccolo frutteto - classico esempio di hortus conclusus che nell'arte sacra simboleggia la verginità - mentre, nel paesaggio retrostante, si scorgono due castelli fortificati e un corso d'acqua. Sullo sfondo, infine, a contrastare col colore scuro che caratterizza il resto della rappresentazione, campi coltivati e colline chiare si stagliano contro un cielo dalle tinte sognanti e piene di luce.

È stato quest'ultimo particolare di paesaggio a incantarmi, proprio per la commistione tra realtà e sogno.
Da un lato la concretezza degli
appezzamenti di terreno ben definiti e disegnati in modo da creare una profondità; poi gli alberelli scuri e gli stormi di uccelli - ci sono, ci sono, ingrandite la foto! - che popolano il cielo; ma dall'altro la fantasiosa raffigurazione di quelle collinette coniche tutte uguali e un po' stilizzate che sembrano uscite da un libro di favole. Tentativi di impostazione prospettica, certo, tuttavia ancora incerti e che nell'insieme ci riportano indietro nel tempo, alla fiabesca inventiva dei miniatori medioevali.
Del resto, Giovanni di Paolo non è nuovo a questo tipo di rappresentazione: un
paesaggio simile troviamo infatti anche nello sfondo di una celebre "Adorazione dei Magi" dipinta successivamente che potete ritrovare qui.

Ma nella "Madonna dell'Umiltà", dietro il paesaggio collinare, ad affascinarmi più di ogni altro aspetto è il cielo con i suoi colori digradanti dal blu cobalto al celeste, fino a una sfumatura più chiara, lievemente più calda e quasi rosata.
Un dettaglio di assoluto incanto, un particolare in cui affondare gli occhi e il cuore per lasciarsi pervadere dallo splendore di queste tinte smaltate e dalla leggerezza della rappresentazione.

Un paesaggio terreno e paradisiaco
insieme, che mi fa tornare con la memoria a certe immagini dei libri della mia infanzia.

Ma osservando le fasce orizzontali che vanno progressivamente schiarendosi dall'alto fino all'orizzonte, mi vengono in mente anche altri riferimenti, uno più antico e l'altro più recente. Il primo è quel "dolce color d'orïental zaffiro" di cui parla Dante nel I Canto del Purgatorio quando, dopo essere uscito dall' aura morta infernale, rivede finalmente il cielo di una tonalità tanto trasparente e luminosa da ricordare una preziosa gemma orientale.
Il secondo richiamo ci porta invece al Novecento perchè - prese a sè - le fasce
orizzontali di colore potrebbero aver ispirato, chissà!, anche certo espressionismo astratto presente, ad esempio, nei dipinti di Mark Rothko.

E per passare alla musica, torno a un brano che ho già pubblicato qui tra i primi, la bellezza di undici anni fa. Ma non posso non condividerlo ancora perchè - a mio avviso - in fatto di gioia e di leggerezza è uno dei pezzi più significativi che l'intero panorama musicale ci possa offrire.
Si tratta del celeberrimo coro "For unto us a Child is born" dal "Messiah HWV 56" di
Georg Friedrich Haendel (1685 - 1759), nel quale il compositore ha messo in musica i versetti del profeta Isaia al cap.9, che prefigurano la nascita di Cristo. Qui, le varie voci che si inseguono ora con delicata freschezza, ora con grandiosa solennità ci conducono davvero in un'atmosfera d' impagabile gioia.
Interessante il fatto che l'aria non sia originale, ma appartenga a questo  Duetto 
intitolato "No, di voi non vo' fidarmi" che lo stesso Haendel aveva scritto in precedenza e che, insieme ad altre melodie, ha riutilizzato all'interno del "Messiah". La cosa non deve stupire perchè, nell'epoca barocca, era prassi abbastanza consueta che un musicista riproponesse altrove arie che in precedenza avevano avuto successo. E non dimentichiamo che Haendel aveva composto il celebre Oratorio nell'arco di poche settimane.

Detto questo, vi lascio alle due clip video. Due perchè la prima è l'esecuzione della London Symphony Orchestra diretta da Sir Colin Davis che avevo proposto a suo tempo; la seconda invece è un' interpretazione dal ritmo più veloce - forse anche troppo - ma che ho apprezzato per l'entusiasmo e la gioiosa leggerezza con cui il direttore, Anthony Walker, guida il coro.
Non sapendo quale scegliere - la più scandita e misurata o la più 
trascinante? - le ho pubblicate entrambe anche perchè, sia nella prima che nella seconda, alcuni coristi sorridono e il direttore canta con loro.
Ma - e qui sta il bello!- lo splendore della musica è tale che, alla fine, ci ritroviamo a sorridere di cuore anche noi!

Buona visione e buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

mercoledì 8 dicembre 2021

"Le regole del pianoforte"

Uscito lo scorso ottobre per i tipi dell'editrice Solferino, "Le regole del pianoforte" è il settimo libro del compositore Giovanni Allevi.
Tuttavia il titolo non deve trarre in inganno il lettore,
inducendolo a pensare che si tratti di un testo tecnico rivolto solo agli addetti ai lavori.
Sono regole, certo, trentatré regole illustrate in
altrettanti capitoli, ma - come precisa il sottotitolo - finalizzate a una vita fuori dall'ordinario.
E se rispetto ad alcuni dei precedenti libri del musicista
- cito i più recenti: "L'equilibrio della lucertola" (2018) e "Revoluzione" (2020) - la struttura narrativa qui è differente, sempre intensi sono tuttavia i riferimenti esistenziali e filosofici.

Il testo si apre con svariate indicazioni pratiche sul modo di accostarsi al pianoforte, ma il pensiero del compositore spazia poi sul significato dell'essere artisti e su quanto lo strumento possa divenire specchio per conoscere se stessi. Di ogni regola infatti Allevi indaga il senso profondo, lo spessore e la valenza esistenziale, perchè una musica che non voglia essere semplice intrattenimento nasce sempre da vertiginosi abissi.
E se da un lato suonare esige che ci si metta in gioco perchè le dita siano
espressione dell'anima, dall'altro il pianoforte ci pone di fronte alle nostre fragilità, a quella parte oscura di noi che non possiamo ignorare. Essere artisti è dunque atto rivoluzionario e coraggioso.

Interessante il fatto che il libro sia stato pensato ancora una volta in tempo di pandemia, per l'esigenza del compositore di sintetizzare i cardini della propria esperienza trentennale a tu per tu col pianoforte, in un periodo in cui l'emergenza lo ha tenuto lontano dal palco.
Ma il senso del testo sta anche nel suo offrire indicazioni per una disciplina
interiore cui tenersi legati nei momenti difficili, nei quali il rischio - oltre al virus - è quello dell'omologazione o della scelta di ciò che appare più facile e più immediato. Proprio a questo proposito, a mio avviso sarebbe importante che il libro fosse letto anche dagli adolescenti perchè, nel segno del pianoforte, Allevi ha disegnato in realtà un percorso di crescita che valorizza l'unicità di ciascuno. E una vita fuori dall'ordinario, oggi, è proprio quella di chi cerca il proprio talento - qualunque esso sia - e vi resta fedele senza cedere alle lusinghe della facilità o dell'immediatezza.
Nel capitolo intitolato "Cerca il tuo suono" si legge infatti:

"Tu hai potenzialmente il tuo suono perchè nessuno ha vissuto i tuoi amori, le tue gioie, le delusioni, i momenti di incertezza. Nessuno ha il timbro della tua voce, le pause, le grida e i sussurri. Nessuno ha il tuo modo di porsi nei confronti del mondo, il tuo essere timido o estroverso, intellettuale o fisico. Nessuno ha il peso del tuo braccio, la leggerezza o la pressione delle tue dita. (...) Cerca allora il tuo suono a partire dalla tua voce parlata e dai tumulti dell'anima" (pagg.55 - 56). 

È muovendo dunque dalle ombre del cuore che ciascuno è incoraggiato a scrivere la propria musica per cercare luce e colmare la distanza fra cielo e terra, come ogni artista - secondo Allevi - è chiamato a fare. E basta leggere i titoli dei vari capitoli per notare che non sono semplici enunciati, ma ardenti esortazioni proprio in questo senso: "Sii un guerriero", "Guarda in faccia le tue paure", "Sii rivoluzionario!", "Tocca il tuo abisso"...fino alla regola finale "Fai della tua vita un'opera d'arte!". Esortazioni in cui brilla un fuoco che - a pag. 12 del testo - fa dire al compositore: "...grazie alla musica ritroviamo noi stessi e facciamo esperienza del divino in fondo alla nostra anima".

Proprio quest'ultima osservazione mi suggerisce il brano da associare al libro. Tratto dal recentissimo album "Estasi", s'intitola "Mindfulness", termine che sottolinea la piena attenzione al presente e la consapevolezza di sè.
Qui Allevi ha creato un pezzo intensamente meditativo, costruito su di una ritmica
di arpeggi ininterrotti che vanno esplorando armonie di grande respiro.
Un brano sostenuto e insieme delicato ascoltando e riascoltando il quale,
intrecciata alle sue note, si avverte l'onda segreta del celebre preludio bachiano che apre il I Libro del "Clavicembalo ben temperato".
Un'onda che scompare e riappare simile a un fiume sotterraneo, un preludio che
Allevi sembra aver interiorizzato al punto da farlo riaffiorare liberamente fuso alle sua musica, reinterpretandone ritmi, accenti e armonie alla luce della propria sensibilità e della propria inventiva.

Ma le suggestioni che "Mindfulness" ci regala vanno oltre il riferimento a Bach.

La voce del pianoforte ci presenta infatti sonorità energiche e profonde sulle ottave p
basse della tastiera, che vanno a sciogliersi in incantati pianissimo su quelle più alte. È proprio qui che il compositore ha creato i passaggi più delicati e sommessi: note lievissime e sussurrate che aprono squarci di sognante intimità. E possono suggerire la dolcezza di certe sere invernali, la magìa della neve, lo stupore di uno sguardo di bambino o il silenzio intatto della notte.
Immagini che la musica evoca riportandoci nel profondo di noi stessi e al tempo
stesso in una dimensione metafisica. Un po' come ci suggerisce la copertina del libro nella sua grafica, con i tasti che finiscono per librarsi in volo.

Buon ascolto! 

martedì 30 novembre 2021

Dipendenze

Oggi torno a un vecchio amore, non  esattamente di gioventù, ma insomma...
È un compositore ascoltando il quale ho capito in prima persona quanto l
a musica possa dare dipendenza!
La cosa interessante però è che non si tratta
di Bach o di Mozart o di qualcuno degli autori più famosi, ma di un musicista che - per quanto sia conosciuto dagli organisti - non mi sembra noto al grande pubblico al pari di tanti altri.

Sto parlando di Johann Georg Albrechtsberger (1736 - 1809), compositore austriaco che ho scoperto anni fa su di un libro di spartiti per organo, la mia prima passione. Contemporaneo di Haydn e Mozart, insegnante di Beethoven e Kapellmeister nella cattedrale di Vienna, Albrechtsberger conta nella sua produzione numerosi concerti, sonate, la bellezza di 240 fughe, ma anche trattati sull'armonia e il contrappunto.
Una curiosità: ha scritto pure due concerti per archi e jews arp, espressione tradotta con arpa
ebraica, mentre in realtà non ha nulla a che vedere con la cultura del mondo ebraico ma è una sorta di scacciapensieri.

Dicevo che l'ho scoperto anni fa quando mi dilettavo a suonicchiare qualche brano organistico trascritto per esecuzione solo manuale e qui, fra Bach, Haendel, Corelli, Zipoli e affini, ho trovato Albrechtsberger del quale era riportata un'unica composizione.
Una sola, ma è bastata a farmi innamorare creandomi per un certo periodo - come scrivevo
- una sorta di dipendenza, un desiderio tormentoso di tornare a inoltrarmi nelle sue note.
Si tratta della "Fuga in mi minore" della quale ho riportato nella foto la prima pagina. Il fatto è che l'amore folle per un brano, se nasce ascoltandolo, quando lo si suona può diventare poi vera ebbrezza, meraviglia che ci
consente di entrare in quelle note percependone la fisicità, cogliendone più intensamente le sfumature, lo splendore in certe dissonanze o la grandiosità di alcuni finali.
Qui, ad incantarmi è stato il successivo sovrapporsi delle voci insieme al modo in
cui il tema si snoda tra tonalità maggiori e minori, talora in drammatiche zone d'ombra ma anche in successive sorprendenti aperture. Un susseguirsi di armonie sempre diverse che sfociano poi nella sorridente vivacità della conclusione in Mi maggiore. Purtroppo però, per quanto lo abbia cercato in lungo e in largo, del brano su youtube non esiste proprio alcuna esecuzione.

"E allora perchè mai ce ne parli?..." forse dirà qualcuno.
Abbiate pazienza, ma i vecchi amori non si scordano tanto facilmente!
Però, dello stesso autore oggi vi offro un altro pezzo che, se pure non è per organo, ha
comunque a mio avviso un grande fascino.
Si tratta del secondo movimento, "Adagio un poco", dalla "Partita per arpa e
orchestra in Fa maggiore" laddove - la precisazione è d'obbligo - l'arpa non è lo scacciapensieri di cui sopra, ma il classico strumento che tutti conosciamo.

Il brano ha altro stile e altra atmosfera rispetto alla Fuga che citavo, il che dimostra la versatilità del compositore che - musicalmente parlando - si muove tra il Barocco e il Classicismo.
Il pezzo mi ha preso non solo per la particolare delicata soavità dello strumento
solista, ma per l'andamento tranquillo e il garbo dell'insieme, dolce e solenne ad un tempo prima nel suo esordio e poi nel dialogo tra arpa e orchestra. Il tema di note ascendenti con cui si apre ci accompagna infatti lungo tutto il suo sviluppo, conducendoci pacato in un clima di serena cantabilità che ricorda certe creazioni mozartiane.
In effetti, il riferimento a Mozart non è fuori dalla realtà se pensiamo che i due musicisti non
sono stati semplicemente contemporanei, ma pare anche amici e, ascoltando varie musiche di Albrechtsberger, si ravvisano qua e là somiglianze e rimandi come se davvero un filo sotterraneo collegasse i due compositori.
Ma qui si apre un altro discorso sul quale avrò la gioia di tornare in futuro.

Buon ascolto!

 

lunedì 22 novembre 2021

Pare brutto...

Questo post si potrebbe intitolare "Breve storia triste" e vi spiego subito il perchè.
Santa Cecilia della quale oggi ricorreva
la festa - e uso l'imperfetto perchè la giornata volge ormai al termine - mi perdonerà. Già me ne deve perdonare tante di cose che si è perso il conto. Quindi, mi sono detta, una più o una meno...

Il fatto è che ce l'avevo messa tutta per celebrarla degnamente. Da giorni, tra le varie composizioni scritte in suo onore, avevo cercato qualche brano adatto alla festa e che non fosse uno dei tanti - da Haendel ad Haydn - che ho già pubblicato. Così, avevo adocchiato un pezzo di Purcell che mi pareva davvero sontuoso e solenne.
Però - chissà perchè! - più si avvicinava il 22 novembre e più qualcosa non mi
convinceva. Non che non fosse bello, per carità!, ma festeggiare la Santa patrona della musica significa farlo con un brano che sentiamo profondamente nostro e verso il quale avvertiamo uno scatto interiore, e non con una composizione certo pregevole, ma magari un po' rituale.
Ho pensato allora di dedicarle una melodia non necessariamente scritta in suo onore, ma
che in compenso a me piacesse proprio tanto: che so?, un preludio di Bach, un'aria di Mozart, uno studio di Chopin...
Poi però mi sono detta: e se cronologicamente tornassimo più vicino a noi? L
a Santa in fondo è protettrice di tutti i musicisti, indipendentemente dallo stile e dall'epoca in cui sono vissuti. Così, ho trovato un pezzo delizioso, frizzante, sincopato e ballabile in un arrangiamento che lo valorizza in modo stupendo.

Si tratta del celebre brano di Scott Joplin (1868 ca. - 1917) intitolato "The Ragtime Dance", qui rivisitato da due interpreti di eccezione: Itzhak Perlman al violino e Bruno Canino al pianoforte. Una rivisitazione che non solo esalta la vivace ritmica del pezzo, ma che nella parte finale ci offre un glissando quasi nello stile di Paganini.
Ma il bello della clip è anche il video, un filmato del 1977
in cui mani e viso dei due solisti esprimono divertimento e una perfetta intesa reciproca. Insomma, una vera chicca che pregustavo di condividere con voi.

Invece che è successo? Sorpresa dell'ultimo minuto: prima ancora che lo pubblicassi, il video mi è stato oscurato! Dite che alla Santa non piaceva, forse lo ha trovato dissacrante e la reazione in alto loco non si è fatta aspettare?...

In realtà, resta sempre la possibilità di vederlo cliccando sul riquadro "Guarda su youtube", ma pubblicare una clip nera con la scritta "Video non disponibile" - come avrebbe detto la buonanima di mia zia - pare brutto! Se l'avessero oscurato in seguito, e purtroppo accade, pazienza! Ma postarlo già così, francamente pare brutto anche a me. Esistono peraltro altri due video con lo stesso filmato, ma la qualità non è buona.

Che fare allora? Come sapete, sono testarda. Cambiare brano non mi andava perchè avrei dovuto togliere anche la foto coi gattacci randagi che fanno il jazz: ricordate gli Aristogatti? Ma è troppo bella e - Santa Cecilia mi perdoni! - non ho avuto cuore di sostituirla.
Così, alla fine ho deciso di pubblicare una clip di solo audio con al piano André Previn e al violino sempre Itzhak Perlman, mentre -
youtube permettendo - di quello oscurato vi riporto qui il link. Et voilà!!!

https://www.youtube.com/watch?v=gpQouEAox44&list=RDgpQouEAox44&start_radio=1 

Nella speranza che tutto si apra e funzioni, vi esorto a osservare le mani di Bruno Canino che vibrano con leggerezza sulla tastiera, mentre Perlman ci rallegra con la sua espressione sorridente, la vivacità irresistibile e il delizioso pizzicato del suo violino. Insomma, un brano che, più ascolto, più trovo entusiasmante.

Mi resta solo un dubbio: dite proprio che Santa Cecilia avrebbe preferito una composizione più solenne e ieratica? Che musiche ascoltano i Santi in Paradiso? Si dilettano solo con l'armonia delle sfere celesti e dei cori angelici o qualche volta buttano l'occhio - meglio, l'orecchio - sulla terra?
Chissà! Aspetto segnali dall'alto.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

lunedì 15 novembre 2021

In cerca di leggerezza - 11

Giuseppe De Nittis : "Passa un treno" 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi ha preso a prima vista il dipinto che vedete. Così, non ho potuto non pubblicarlo subito seguendo un impulso del cuore, sia per il suo indubbio fascino che per i differenti piani della sua leggerezza.
Si tratta dell'opera intitolata "Passa un treno" di Giuseppe De Nittis (1846 - 1884), conservata a Barletta nella Pinacoteca a lui dedicata.

Amo da anni questo artista per le sue atmosfere ricche di intensità, i suoi cieli plumbei e le sue nubi cariche di pioggia - come per esempio in "Paesaggio lacustre nei pressi di Napoli" che potete ritrovare qui - ma anche per i tanti quadri in cui, data la sua vicinanza agli Impressionisti, protagonista è la luce. Ricordo a questo proposito, solo per citarne due dei più tappresentativi, "Colazione in giardino" e "Nel grano".

Quello del treno non è un tema nuovo nell'arte figurativa e nella letteratura del secondo Ottocento, ma riflette le tante trasformazioni di quegli anni.
Lo troviamo nella pittura di Turner
che già nel 1844 anticipa tale tendenza, poi in alcune novelle del Verga, in diverse poesie del Carducci e successivamente nel Futurismo che - nel Novecento - ne farà un simbolo di dinamismo e velocità. Ma se vogliamo tornare alla musica, possiamo ricordare il celebre "Pacific 231" di Honegger.
Tuttavia, l'opera di De Nittis a mio avviso si colloca su di un altro piano, a cominciare
dal titolo che non è genericamente Il treno, ma Passa un treno, il che ci riporta ad un'azione presente, come se quella scia di fumo chiaro che irrompe improvvisa nella campagna si snodasse leggera anche per noi, tanto corre in primo piano davanti allo spettatore.

In questo dipinto, forse ideato durante uno dei viaggi dell'artista da Barletta - sua città natale - fino a Parigi e Londra, la lunga nuvola di fumo biancastro che s'inanella dietro un convoglio e una locomotiva che non vediamo, ci porta via con sè e ci fa sognare.

E la leggerezza che vi colgo - oltre al
biancore che attraversa il quadro trasversalmente divenendone il protagonista - sta proprio in quella corsa, in quella velocità che per qualche momento attraversa il verde circostante e la brughiera solitaria. Una velocità resa con grande efficacia prospettica dalla nuvola di fumo che va man mano a rimpicciolirsi verso l'orizzonte per scomparire chissà dove, mentre il suo irrompere improvviso contrasta con la calma immota della campagna intorno. Una natura solitaria, dicevo, ad eccezione delle due donne chine forse a raccogliere arbusti e - almeno in apparenza - incuranti di ciò che accade accanto a loro. Ma poi chissà!...

Quel treno è forse un sogno di ciò che potrebbe essere e non è, mentre passa con la velocità di una meteora e si allontana verso l'ignoto lasciando dietro di sè il suo impalpabile fumo chiaro.
Ma è insieme un evento improvviso che, simile a un soffio, per qualche
istante può allargare l'orizzonte facendoci percepire l'esistenza di altra vita e altri mondi. Un respiro che si apre, uno sguardo che si spalanca e ci conduce - anche solo con la fantasia - al di là dello spazio presente verso universi sconosciuti come in una sorta di infinito leopardiano.

Al tempo stesso, tuttavia, l'immagine mi suggerisce un senso di caducità, una differente dimensione di leggerezza che mi rimanda a ciò che è fugace e transitorio.
C'è infatti un contrasto tra la campagna ferma
sotto un livido cielo incombente e la velocità di quel fumo attorto che la taglia in due mentre il treno fugge in una corsa inesorabile, metafora forse del rapporto tra l'eterno e il tempo.
A sottolineare tale sensazione è proprio il fascino dei
colori cupi del paesaggio: dal verde scuro della vegetazione, all'indefinito biancore del fumo, fino al grigio di quel cielo disfatto verso il quale si protendono sottili e spogli rami di betulla.
Un dipinto in cui affondare gli occhi e il cuore,
un'immagine che ci parla svegliando in noi altra vita insieme all'inquietudine del tempo che passa.

Così, vi ho associato una musica che mi sembra riflettere la malinconia del paesaggio e insieme il fremito che lo percorre improvviso.
Si tratta di un brano di Jean Sibelius (1865 - 1957) intitolato "The spruce"
(L'abete rosso), ultimo dei "Cinque pezzi per pianoforte op.75", composizioni brevi, di lieve cantabilità ognuna della quali è dedicata a un albero.
Nonostante il titolo poco abbia a che vedere con il tema del dipinto, la musica
mi sembra adatta all'atmosfera che vi si respira. Una melodia intima e nostalgica che, se all'inizio esordisce lenta, poi nella parte centrale si anima d'un tratto in una cascata di arpeggi che irrompono ariosi e "risoluti" - recita proprio così l'indicazione agogica - muovendo dalla chiave di basso a quella di violino.
E come il treno di De Nittis passa via sparendo all'orizzonte e lasciando di sè solo sognanti nuvole chiare, così la musica riprende dolcemente il tema iniziale per teminare lenta e scandita da note profondissime.

Buon ascolto!

(Tutte le foto sono prese dal web)

 

lunedì 8 novembre 2021

Piccoli gioielli

Un brano brevissimo quello di oggi, e molto conosciuto soprattutto da chi ha studiato un po' di pianoforte. Sì, anche
solo un po'.
Questo pezzo infatti è tra quelli che
vengono proposti a quanti cominciano ad avvicinarsi al vastissimo panorama bachiano - ebbene sì...è Bach! - insieme a composizioni non molto impegnative come i suoi preludi, le fughette e qualche invenzione a due voci.

Ma per quanto semplice possa essere l'approccio ad un brano simile - facile sì, ma non facilissimo! - ci sono sempre mille modi per eseguirlo, da quello di un principiante a quello di un pianista fatto e finito capace di renderlo quel gioiellino che è. Così, quando ho scoperto l'interpretazione di Murray Perahia, non ho resistito al desiderio di condividerla qui perchè il tocco misurato del pianista ce ne restituisce in pieno il garbo e il ritmo.
Si tratta infatti di una danza, in particolare della "Gavotta" inserita come quarto
tempo nella "Suite francese in Sol maggiore n.5 BWV 816", pezzo bachiano di grande leggiadrìa nel suo movimento moderato ed elegante.
Ma mi ha colpito anche perchè di questo piccolo brano ho un ricordo un po'
particolare che risale a tanti e tanti anni fa.

Sono in vacanza con un'amica nel mio paesetto di montagna e una sera andiamo a un concerto, un evento gratuito che si tiene nella chiesa parrocchiale. Talora ci sono giovani interpreti, talaltra gruppi corali del posto, ma stasera è la volta di un organista che viene da fuori, un signore anziano dalla chioma grigia e disordinata che gli dà un'aria vagamente bohémienne.
La chiesa è piena, il pubblico attento, ma il grande organo a canne sopra
l'ingresso è dietro di noi, quindi possiamo solo ascoltare senza vedere.

Così, non riusciamo a capire perchè, a concerto iniziato, inframmezzato alle note musicali si senta uno strano tramestìo, come se il nostro organista stesse furiosamente litigando con qualcosa. Forse la pedaliera? Forse un tasto che si pianta e non vuol saperne di tornar su? Forse i registri organistici che sono vecchi e funzionano male? La musica continua, e insieme il tramestio.
Una certa inquietudine si diffonde tra il pubblico, ci si guarda un po' straniti...ma
che razza di concerto è questo? Va bene, è Bach...ma povero Bach, anche perchè ogni tanto si avverte qualche stonatura o qualche accordo a dire il vero un po' troppo dissonante!
Così, sorge un dubbio: che i registri non c'entrino e il difetto stia proprio nell'organista?...
Comunque, in qualche modo si arriva al gran finale dove il pezzo forte è appunto la nostra "Gavotta".

Nell'enfasi del brano conclusivo, il brav'uomo - poveretto! - ce la mette tutta suonando a registri spiegati e producendo, più che musica, una sorta di fracasso: sonorità fortissime ma sconnesse dove intonazione e ritmo si perdono tra lo sconcerto del pubblico. Nella panca davanti alla mia c'è un signore che alloggia nel mio stesso albergo: è un musicista appassionato di strumenti antichi, un intenditore insomma, che ha anche fondato un piccolo ensemble per suonare musica barocca. Me lo vedo davanti ancora adesso, mentre si volta indietro puntando verso l'organista uno sguardo feroce che trasuda indignazione mentre a me - francamente - scappa solo da ridere.  

Il mio ricordo finisce qui, così torno a quella "Gavotta" che oggi Murray Perahia mi restituisce scandendo invece le note con dolcezza e garbo.
Un brano semplice dicevo, come tanti altri pezzi di Bach brevissimi, ma non per
questo privi di un' aura di splendore e perfezione.
E mi sembra significativo che tale perfezione possa essere cercata e realizzata non
solo nelle composizioni grandiose e altisonanti, ma anche nel piccolo pezzo da esercizio quotidiano per farne, a suo modo, un gioiellino.

Buon ascolto!

(La foto in alto è presa dal web)

 

domenica 31 ottobre 2021

Un Haendel più che mai festoso

Non sono abituata a rileggermi dopo aver pubblicato un post.
Lo faccio prima invece e ripetutamente, perchè l'esperienza mi insegna che c'è sempre qualche errore di battitura che sfugge, qualche
svista in agguato.
Ma dopo basta: una volta pubblicato, lo lascio al suo destino perchè - al contrario dei brani musicali che riascolto spesso - è come se una sorta di pudore mi trattenesse dal ritornare su ciò che ho scritto.

Succede però che lo faccia magari a distanza di parecchio tempo. Talora rileggo qualche articolo a caso per rispolverarmi la memoria dato che - incredibile ma vero! - questo blog ha la bellezza di undici anni; ma insieme mi piace controllare se, per usare un'espressione musicale, tiene ancora la nota. 

Così, oltre a svariati post nei quali mi ritrovo, ho notato invece che ce ne sono altri - i più vecchi - un po' troppo sommari, forse perchè all'inizio, se pure ero partita con la gioiosa intenzione di condividere musica, non avevo un'idea precisa di come farlo. In realtà, alcuni aspetti si sono andati configurando negli anni, man mano che la mia passione per questo angoletto di web si faceva più viva, come capita per tante attività che si modificano nel tempo sulla base delle esigenze che via via emergono.

E rivedendo appunto i post più vecchi, mi sono accorta che il più sbrigativo è proprio quello dedicato a un brano che - invece - adoro da sempre e ancora oggi mi parla. Si tratta del celebre "Arrivo della Regina di Saba" dall' Oratorio "Solomon HWV 67" di Georg Friederich Haendel (1685 - 1759) che avevo pubblicato qui...Un po' brevino, vero? Era giusto una giornata di fine ottobre anche allora e alla musica chiedevo di rischiararne l'atmosfera.
Così, contravvenendo alla mia abitudine di non ripetermi - ma anche per farmi
perdonare dal suo autore! - oggi ho deciso di riproporvelo, con qualche piccola considerazione in più sulla sua bellezza.

Il pezzo apre il terzo atto dell'Oratorio "Solomon" ed è una Sinfonia per oboe e archi. Va precisato che qui il termine Sinfonia - proprio in italiano, come tanta terminologia musicale - ha il significato di brano orchestrale posto ad introdurre opere e cantate, come accadeva nel periodo barocco. Sarà solo più tardi, infatti, che passerà a indicare quelle composizioni autonome, di solito in quattro movimenti di ampio respiro, che tutti conosciamo.

È la festosa vivacità del ritmo, scintillante e a mio avviso modernissimo, la caratteristica precipua di questo brano. Un Haendel di stupefacente leggerezza, talora persino ammiccante quasi giocasse a nascondino, che commenta in note un evento narrato dalla Bibbia, ma riportato anche da altre fonti e reso famoso da numerose opere d'arte. Basti ricordare i dipinti di Piero della Francesca ad Arezzo, le formelle del Ghiberti sulla Porta del Paradiso a Firenze, insieme ad altre creazioni di artisti italiani e stranieri.
Il pezzo ha avuto nel tempo immensa fortuna quasi al pari del celeberrimo Hallelujah, tanto da uscire dal contesto
per il quale era nato ed entrare - come ricordavo a suo tempo - nella colonna sonora di diversi film e nelle musiche delle celebrazioni nuziali, motivo per cui è stato oggetto di svariate trascrizioni.
Insieme alla versione
orchestrale, allora, ve ne riporto una per organo che mi pare particolarmente pregevole. E se le due esecuzioni ci offrono sonorità differenti, in entrambi i casi affiora da esse la mirabile energia di Haendel in uno dei brani più gioiosi e brillanti di tutta la sua produzione.

Buon ascolto! 

(Le foto, prese dal web, riportano nell'ordine le seguenti opere:

- Konrad Witz : "Re Salomone e la Regina di Saba" - Gemaldegalerie, Berlino.
- Piero della Francesca : "Incontro tra Salomone e la Regina di Saba", particolare degli affreschi sulle "Storie della Vera Croce" - Chiesa di San Francesco, Arezzo.
- Lorenzo Ghiberti : "Salomone incontra la Regina di Saba", particolare della Porta del Paradiso - Museo dell'Opera del Duomo, Firenze.)

 

sabato 23 ottobre 2021

Preziosa quotidianità

Un pomeriggio impegnato che si trasforma in uno spazio di riposante respiro.
Una lezione di musica che, dalla mia preoccupazione iniziale - non ho studiato abbastanza, di sicuro sbaglierò e lamentazioni varie! - si fa sempre più coinvolgente e serena sull'onda di un brano suonato a quattro mani, nel
sorriso dell'amicizia.
Poi la gioia che mi afferra a contatto
con strumenti nuovi a scoprirne le sonorità, mentre il desiderio di provare altri pezzi per due pianoforti si fa più vivo.
Infine, la sensazione impagabile di essere
dentro la musica!

Ringrazio la mia giovane e bravissima insegnante che, col suo rigore attento e la sua gioiosa energia, sempre un passo più avanti ad esplorare possibilità nuove, mi aiuta da anni a superare incertezze regalandomi entusiasmo.
Sì perchè, anche se lei ha tante e ancora tante primavere meno di me, qui
l'allieva sono io! Ed è bellissimo questo capovolgimento di ruoli e prospettive per me che - praticamente per una vita - nella scuola sono stata, diciamo così, dall'altra parte della barricata, senza contare il fatto che trovarmi alla mia età nella condizione di chi può imparare, è una ricchezza senza fine.

Ma non c'è solo questo. Il bello è anche uscire dalla lezione con l'animo leggero, percorrere senza fretta le vie del centro di una cittadina che - benchè non ci abiti - frequento da anni e ogni volta mi restituisce angoli e atmosfere in cui mi ritrovo. È il cotto delle sue chiese antiche che si fa dorato nella luce dei pomeriggi di ottobre, come in questa mia foto di qualche anno fa; ma sono anche le piazze tranquille e le vie piene di negozietti davanti ai quali è riposante indugiare mentre, con calma, vado a prendere il mio treno.

Abitudini di altri tempi, squarci di preziosa quotidianità che, forse, durante questo
lungo periodo di pandemia avevo dimenticato, come se l'esperienza del Covid avesse tracciato una linea di demarcazione tra un prima e un poi inevitabilmente diversi. E - a pensarci bene - è proprio così, perchè in qualche modo gli eventi ci hanno cambiato e talora è ingannevole voler ritrovare ad ogni costo certe atmosfere del passato.
Tuttavia, il senso di disorientamento che magari ci ha colto in questo
periodo peraltro non ancora concluso, può dissolversi se la musica - o un luogo che portiamo dentro - ci aiuta ad attingere a quel nucleo segreto in cui vive, intatta, una parte di noi stessi. E io sento spesso di appartenere ai luoghi.

Allora, per celebrare quel pomeriggio di serenità, oggi vi regalo proprio un pezzo per due pianoforti...No, non quello che ho provato con la mia insegnante, ma un altro che lei mi ha proposto di suonare e che magari in futuro - chissà! - riusciremo a mettere insieme.
Si tratta del primo dei "Sei Studi in forma di canone op.56" composti da Robert
Schumann (1810 - 1856) inizialmente per pianoforte con pedaliera - tanto che vengono eseguiti spesso anche all'organo - ma poi trascritti nella versione a quattro mani e due pianoforti.

Sono brani di atmosfera diversa che ci conducono in mondi molto differenti tra loro: alcuni più movimentati e accesi, altri più malinconici e meditativi, ma tutti accomunati dalla struttura a canone, antico modulo compositivo tipico della polifonia che qui Schumann riprende fondendo il rigore della tradizione alla sua morbida creatività.
Lo Studio N.1 che ho scelto di pubblicare è uno di quelli in cui la struttura
contrappuntistica risulta subito evidente. Bellissime le due voci che si inseguono vivaci e splendido il caleidoscopio di sfumature con cui s' intreccia la tonalità di Do Maggiore, a iniziare dal Do basso iniziale che la sinistra suona per cinque battute sostenendo il tema della destra anche quando l'armonia cambia.
Ma insieme a tale rigore che ci riporta indietro nel tempo, Schumann fa fiorire
una gioia fresca e scorrevole che mi restituisce la serenità di una lezione di musica e di un tranquillo giro in città, nella dolcezza di un pomeriggio di ottobre.

Buon ascolto!

 

venerdì 15 ottobre 2021

In cerca di leggerezza - 10

O. Rosai: "Via San Leonardo" (1948)  - collezione privata.



















Da mesi ho in computer le immagini che vedete e che riproducono alcuni dipinti di un artista del quale - anni fa - avevo parlato brevemente qui, pubblicando tre delle sue opere più conosciute: "Via Toscanella", "Vicolo" e "Case nel sole".
Lo avrete già indovinato: si tratta del fiorentino Ottone Rosai (1895 - 1957)
che, oltre a una nutrita serie di ritratti di amici e personaggi di primo piano nella cultura del suo tempo, nella sua produzione ha rappresentato più volte le vie della Firenze nella quale abitava ed aveva lo studio.
Desideravo da tempo ritornare
sulle sue opere, ma mi ha trattenuto la difficoltà di reperire il luogo in cui sono conservate. Parecchie infatti, risultano nei cataloghi di varie case d'asta o di mostre temporanee, ma spesso manca la collocazione attuale. Così è anche per quelle che vedete e suppongo quindi che - come il quadro riportato qui in alto - facciano parte di collezioni private.

Sono molti i motivi per cui è interessante la figura artistica di Rosai e già in passato ricordavo alcuni caratteri del suo stile, primo fra i quali la semplicità che affonda le radici nella tradizione pittorica toscana, a partire prima da Giotto e poi da Masaccio.
Uno stile semplice e insieme
corposo che - risalendo nel tempo - può avvicinare l'artista per certi aspetti a Cézanne, al cubismo e successivamente a Carrà.

C'è infatti nelle sue opere una particolare
attenzione ai volumi e agli incastri architettonici, a un accostamento di elementi rettilinei e curvilinei per cui case e muretti sono assimilabili a una nitida geometria dalle tinte ora più ombrose, ora più luminose. E la muratura continua degli edifici, privi di decorazioni o di aperture, ci offre - a mio avviso - un senso di pace.
Rosai si sofferma infatti su scorci tranquilli, angoli della Firenze minore degli anni
Cinquanta, dove protagonisti sono vicoli e strade di periferia, a cominciare dalle tante versioni di Via San Leonardo, segnate da una dolce alternanza di luci e ombre a sottolineare spazi e volumi.
Sono brevi percorsi affondati tra due muriccioli dai quali sporgono spesso ulivi e cipressi, in un accostamento di colori sfumati e in una solitudine che rende intima la rappresentazione.

Come osservavo in passato, da queste immagini mi è difficile ipotizzare nel gesto pittorico dell'artista quell'ansia o quel pessimismo di cui parlano i critici, motivandolo col suo carattere aspro o come riflesso degli eventi talora drammatici della sua vita.
Mi pare al contrario di cogliervi uno sguardo
che si posa pacato sulla realtà e mi regala un respiro di profonda leggerezza.
Quello che il pittore raffigura è infatti un
mondo di solitudine e di essenzialità dove, in pacificante contemplazione, possiamo entrare a percorrere vicoli dei quali - peraltro - non vediamo il prosieguo, ma solo
una svolta. Sempre. E anche questo aspetto, cui nel vecchio post avevo dedicato solo un cenno, mi pare cosa non trascurabile.

Come infatti accade che in diversi pittori vi siano elementi ricorrenti a caratterizzare i loro dipinti - pensiamo al trenino all'orizzonte nei quadri di De Chirico o al monte Sante-Victoire in Cézanne - così i vicoli di Rosai finiscono sempre in curva.
Forse è solo un modo di riprodurre l'andamento
delle strade sui colli toscani, o forse altro: una curva leggera verso la fine del percorso che ci impedisce di vedere oltre. Ma non di sognare.
E nel silenzio immobile dei suoi paesaggi, simili tra loro e al
tempo stesso differenti, l'artista sembra condurci altrove, verso una sorta di Infinito leopardiano in cui è dolce naufragare, così come è rasserenante perdersi tra case chiare, ulivi grigi e muriccioli protettivi quasi ci si muovesse su sentieri di fiaba.

Al tempo stesso, però, la strada della quale non vediamo la fine, nè possiamo intuire le sorprese che ci riserva dietro la curva, è affascinante per le sue risonanze esistenziali.
C'è infatti una leggerezza anche nel non affannarsi a conoscere
cosa porti il domani, nell'abbandono che consente di attraversare in serenità la condizione presente con i suoi cieli ora azzurri, ora cupi, e con l'alternarsi di ombra e luce come nella versione di "Via San Leonardo" riportata in grande.
Un panorama che - a mio avviso più ancora di altri -
con i suoi colori e i suoi tratti sfumati appaga i sensi, regalandoci la percezione di essere immersi in un luogo di sogno dalla pace lungamente desiderata.

Altrettanto sognante mi pare il brano che ho associato ai dipinti: la "Sarabanda" dalla "Holberg Suite per archi op.40" di Edvard Grieg (1843 - 1907), della quale - tempo fa - avevo pubblicato il vivacissimo "Preludio".

Questa è invece una composizione di carattere più tranquillo, un "Andante" di tono raccolto e in taluni passaggi anche solenne, che si anima solo nella seconda parte.
Bellissimo il lieve pizzicato dei violoncelli sullo sfondo, che ci accompagna col passo
lento e ritmato tipico della Sarabanda, danza di origine barocca così come appartiene al periodo barocco la struttura stessa della Suite. In effetti, Grieg aveva esplicitamente dichiarato di averla scritta proprio "in stile antico".
Tuttavia, sia nella versione originale per pianoforte, che
in quella per archi che ho scelto di pubblicare qui, si avverte intensamente il fascino espressivo del compositore norvegese, fatto di garbo, leggerezza descrittiva e di un senso di riposante armonia simile a quello delle pacate immagini di Rosai.

Buon ascolto!

(Tutte le foto sono prese dal web. I dipinti riportati all'interno dell'articolo sono nell'ordine : "Via San Leonardo" (1955) - "Strada fra due muri" - "Via San Leonardo" (1952) - "Paesaggio" - "Strada con case")

giovedì 7 ottobre 2021

Trame e orditi

Strana questa foto, vero?
Penso che abbiate riconosciuto subito  l'inconfondibile profilo di Monteriggioni, l'antico borgo medioevale dalle mura turrite, situato nella splendida campagna senese e qui immerso in una vegetazione dai caldi colori autunnali.

Ma perchè mai questo velo grigio e ombroso che offusca il panorama, come se tra esso e il nostro sguardo si fosse interposto qualcosa ?
Perchè si tratta di un'immagine del mio
calendario che ho fotografato così come la vedo al mattino, col primo sole che filtra dalla finestra della cucina e vi riflette trama, ordito ed altri particolari delle mie tende. È possibile infatti scorgere con chiarezza una serie di trafori, insieme ad alcuni fili più grossi che qua e là punteggiano la struttura del tessuto. E mi sembra una piccola, affascinante immagine di quotidianità.

Come ho scritto anche in passato sempre a proposito del mio calendario, la luce del sole che lo illumina sul muro in alto, vicino alla finestra, esalta i dettagli dei vari panorami e me li fa scoprire meglio regalandomi ombre e riflessi che talora mi incantano.
Un po' come questa foto del mese di ottobre i cui particolari
ci consentono di cogliere i colori dorati delle vigne e degli alberi in primo piano, insieme al verde argenteo degli ulivi, quasi fossero le tinte sfumate di un dipinto, filtrate come sono dal velo della tenda. E se da un lato essa sembra offuscare il panorama, dall'altro il sole che dalla finestra ora occhieggia, ora illumina più ampiamente il paesaggio e la nuvolaglia all'orizzonte, ci offre un respiro d'incomparabile bellezza.

Non è infatti la classica cartolina, ma un'immagine che - pur nella sua casalinga semplicità - ha un che di sognante: da un lato più ridente, dall'altro più cupa e quasi plumbea, ma per me sempre ricca di suggestione.
È quella percezione di intimità che si avverte quando si contempla il mondo esterno dal tessuto segreto del proprio cuore - anch'esso fatto di una trama e di un ordito - magari nella magia di un momento di silenzio o nel baluginare di luci ed ombre del dormiveglia.

Ma l'immagine mi regala anche una
luminosa sintonia con quella bellezza antica che talora il vivo seme di un ricordo fa germogliare in noi prima ancora che da una veduta esterna. Sono stata due volte a Monteriggioni: una in tempi recenti, mentre la prima si perde nella mia fantasia di adolescente, quando ogni angolo di mondo è una scoperta incantata. E forse è là che mi riconduce questo paesaggio velato dalla tenda, facendo rifiorire in me un inesausto desiderio di bellezza.

Proprio sull'onda di tale suggestione, allora, oggi torno a Georg Friederich Haendel (1685 - 1759) per proporvi il mirabile "Adagio" iniziale della "Suite n.2 in Fa Maggiore HWV 427" della quale poco tempo fa ho pubblicato il vivace "Allegro - Fuga" conclusivo.

Si tratta di un brano raffinatissimo per la dolcezza della melodia, il ritmo lento segnato dalla mano sinistra e - affidati alla destra - i numerosi abbellimenti che fanno fiorire il tema con eleganza.
Il pezzo si apre con tratti di sorridente luminosità, ma si fa poi più meditativo,
come uno sguardo che si apre anche su di un panorama interiore, a somiglianza di chi - con passo lieve - attraversa ombre e luci di un paesaggio ma al tempo stesso della propria anima. Me lo suggeriscono alcuni passaggi della melodia dal tono sempre più intimo, sottolineati da un' interpretazione attenta a rendere con delicatezza ed efficacia tale intimità.
Un Haendel pacatissimo, una musica simile a una tenda leggera, a velare di sogno
un paesaggio antico.

Devi allontanare tutte le tue preoccupazioni,
chiedendoti come le tue pene sono state alleviate
e disdegnando di compiacerti
finché Aletto liberi i morti dalle loro catene eterne,
finchè i serpenti cadano dalla sua testa
e la frusta dalle sue mani.
https://lyricstranslate.com
Devi allontanare tutte le tue preoccupazioni,
chiedendoti come le tue pene sono state alleviate
e disdegnando di compiacerti
finché Aletto liberi i morti dalle loro catene eterne,
finchè i serpenti cadano dalla sua testa
e la frusta dalle sue mani.
https://lyricstranslate.com

Musica per un po'.

Devi allontanare tutte le tue preoccupazioni,
chiedendoti come le tue pene sono state alleviate
e disdegnando di compiacerti
finché Aletto liberi i morti dalle loro catene eterne,
finchè i serpenti cadano dalla sua testa
e la frusta dalle sue mani.
https://lyricstranslate.com

Musica per un po'.

Devi allontanare tutte le tue preoccupazioni,
chiedendoti come le tue pene sono state alleviate
e disdegnando di compiacerti
finché Aletto liberi i morti dalle loro catene eterne,
finchè i serpenti cadano dalla sua testa
e la frusta dalle sue mani.
https://lyricstranslate.com

Musica per un po'.

Devi allontanare tutte le tue preoccupazioni,
chiedendoti come le tue pene sono state alleviate
e disdegnando di compiacerti
finché Aletto liberi i morti dalle loro catene eterne,
finchè i serpenti cadano dalla sua testa
e la frusta dalle sue mani.
https://lyricstranslate.
Devi allontanare tutte le tue preoccupazioni,
chiedendoti come le tue pene sono state alleviate
e disdegnando di compiacerti
finché Aletto liberi i morti dalle loro catene eterne,
finchè i serpenti cadano dalla sua testa
e la frusta dalle sue mani.
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Buon ascolto!