martedì 31 dicembre 2019

Armoniche scomposizioni

(Foto presa dal web)
Giunta a fine anno, nel ripercorrere viaggi o eventi particolarmente significativi, desidero ricordare qui una bella mostra allestita al Palazzo Reale di Milano che ho avuto occasione di visitare all'inizio di novembre.
Mi riferisco ai dipinti della "Collezione Thannhauser" - proveniente dal Museo Guggenheim di New York - che annovera una cinquantina di opere tra pittori impressionisti, post-impressionisti ed esponenti delle avanguardie del primo Novecento. 
Un percorso molto vario tra Monet, Renoir, Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Picasso e altri ancora.

Confesso che, se da un lato amo profondamente alcuni di questi artisti, dall'altro mi hanno spesso lasciato perplessa certi caratteri astratti e informali dell'arte contemporanea, soprattutto se sono al limite di un' immediata comprensione, la mia perlomeno.
Tuttavia, nel corso del tempo, mi ha affascinato il Cubismo così come lo ritrovo in alcune opere di Picasso e di Braque. La scomposizione della figura, la molteplicità dei punti di vista e una marcata sottolineatura dei volumi sono infatti elementi che mi hanno colpito per la loro capacità di condurci all'interno dell'oggetto rappresentato, come a sviscerarne un nucleo portante, a svelarci i pezzi di un ingranaggio al di là delle sue apparenze. Quasi una ricerca di essenzialità, una volontà di cogliere il cuore delle cose, andando oltre la loro superficie senza tuttavia dimenticarla.

Sarà forse per questo che, nel percorso della mostra, il mio interesse è stato letteralmente catturato dal dipinto che vedete: "Paesaggio a Céret" di Pablo Picasso (1881 - 1973), magnifico esempio di pittura cubista che risale al 1911.
In esso si realizza la visione totale e simultanea dell'oggetto - in questo caso il panorama di una cittadina spagnola - smontato, per così dire, nelle sue parti e ridotto a forme geometriche.
Una visione nuova che ci consente di entrare nel paesaggio attraverso il gioco di mille sfaccettature e prospettive inusitate, quasi in una sorta di tridimensionalità. 
Uno splendido e accattivante tentativo di guardare dentro e oltre l'oggetto in sè, in cui Picasso - sia pure con esiti differenti - in certo qual modo precorre il lavoro di altri artisti e di alcune future avanguardie.

Ma al di là di queste osservazioni, due aspetti in particolare hanno destato il mio interesse.
Il primo è la disposizione di linee e proporzioni, di distanze e di colori che crea   una profonda armonia, così come il giallo ocra, il grigio e il nero - tinte terrose tipiche del Cubismo analitico - si alternano con grande equilibrio. Nonostante la sua frammentazione, infatti, e pur aprendoci a una dimensione sconosciuta, il dipinto a mio avviso non risulta caotico.
Il secondo aspetto è la scoperta di scorci del consueto paesaggio cittadino non subito evidenti a un primo sguardo, ma che appaiono e riappaiono, seminascosti nel complesso della scomposizione geometrica che fonde spazio e oggetti.
Sono archi grandi e piccoli, scale e scalette, balconi e terrazze, finestre, tende e passaggi, inframmezzati da alberelli o vegetazione che occhieggia qua e là. 
Così pure, ci sono tetti, muri ed edifici squadrati, superfici e volumi che riemergono sconnessi tra loro, ma riconnessi dall'insieme: quasi un mondo fantasioso che il pittore ricrea, facendolo affiorare tra linee rette e spezzate, curve e oblique, parallelepipedi e altre figure solide.
Un mondo che si vorrebbe, se non abitare, perlomeno scoprire, con la gioia con cui ci si perde in un'avventura o in un sogno, come se, nel cuore della scomposizione della realtà, Picasso ci conducesse a vedere - per brevi scorci - il mondo di fiaba che in essa vive.

Così, ad accompagnarci in questo percorso, ho scelto un brano dal secondo libro del "Clavicembalo ben temperato". 
Picasso e Bach???...Sento l'eco di un certo stupore. 
Lo so, c'è una grossa sfasatura cronologica tra loro, ma dopo aver ascoltato vari pezzi di musica contemporanea al pittore spagnolo - compresa quella atonale e non ultimo Schoenberg - sono tornata a Bach, e in particolare a un brano che adoro da tempo.
Si tratta del "Preludio in la minore n.20 BWV 889", composizione di grande fascino che si dipana piano ma sostenuta, melanconica ma non priva di qualche apertura luminosa, simile a un cammino esistenziale che si snoda lento e costante, eppure continuamente variato. 
Il suo tema si basa infatti su di una cellula melodica che si ripete in mille modi alternati tra la mano destra e la sinistra, in un incastro e un andirivieni di note ricchissime di cromatismi che vanno aprendo prospettive sempre diverse. 
Un fascino che - a mio avviso - si fa ancora più intenso nella seconda parte, con l'inversione del tema che, se prima scendeva, ora sale e sembra aprire davanti a noi un paesaggio inusitato, straniante e al tempo stesso meraviglioso.
E mi pare che queste note, nella misurata interpretazione di András Schiff, ci possano davvero guidare all'interno del dipinto di Picasso, nelle armoniche geometrie del suo mondo disgregato e insieme ricomposto. 
Un brano a mio avviso modernissimo, in cui il consueto rigore bachiano si carica di suggestioni nuove e ci apre più che mai alla percezione di universi sconosciuti dentro e fuori di noi.

Buon ascolto e Buon Anno!

mercoledì 25 dicembre 2019

Buon Natale!!!






































Anonimo del XV sec.: "Natività", miniatura in tempera e oro da un Libro d'Ore di Bésançon, conservata presso il Fitzwilliam Museum di Cambridge.


 

Mykola Leontovych (1877 - 1921): "Shchedryk" (Canto delle campane).

venerdì 20 dicembre 2019

Gioiosa sintonia

Paolo Veronese (1528 - 1588): "Le nozze di Cana" (particolare)
Come scegli i brani da pubblicare?
Quale criterio segui, visto che non sono in ordine cronologico? 
Pensi prima alla musica e da quella prendi spunto per scrivere il post o scegli invece un'immagine e solo dopo colleghi ad essa il pezzo?
Decidi d'impulso o ci impieghi parecchio tempo?

Sono domande che più di un lettore di questo blog mi ha posto nel corso degli anni. Ma devo dire che non ho una risposta precisa perchè - tranne alcuni casi o determinate ricorrenze - mi muovo senza programmare troppo, ma cogliendo l'ispirazione del momento.
A volte, se in lista di attesa ho già una provvista di brani che mi preme pubblicare, inizio dalla musica, ma talora - soprattutto se ho in mente un'immagine che mi affascina come, per esempio, un bel dipinto - parto da quella e il brano verrà di conseguenza.
Ma capita spesso che l'ispirazione - oddio che parolona! - arrivi anche dalle parole di un testo, dalle sequenze di un film o da qualche particolare di vita quotidiana colto al volo, dettagli talora molto piccoli che tuttavia mi restano nel cuore e che, per così dire, lo lavorano in silenzio. 
Condizione necessaria per potermi mettere a scrivere è, in ogni caso, la percezione di uno scatto interiore, una sorta di innamoramento insomma: che parta dalle note o che ci arrivi dopo, in fondo, è secondario. Essenziale è che protagonista resti la musica.
Ma anche il tempo speso nella scelta dei brani varia di volta in volta. 
Talora so perfettamente quale composizione associare a un determinato discorso, talatra invece sono molto più incerta perchè si tratta di decidere tra bellezza...e bellezza, il che non è sempre facile.

Ed è proprio il caso del pezzo di oggi. Stavolta, ho avuto davvero l'imbarazzo della scelta fra tre incantevoli brani dello stesso autore. Ma come decidersi tra lo splendore melodioso di un'arpa solista, le ricche e profonde sonorità dell'organo o il delicato tocco degli archi?
Infine, dopo ripetuti ascolti, ho scelto il pezzo riportato da una bellissima registrazione dal vivo. Essa ci restituisce infatti l'impagabile gioia di chi suona gustando la magia delle note e insieme ci consente di cogliere l'intesa che dai solisti si allarga a tutti gli orchestrali, fino a coinvolgere noi che guardiamo.

Si tratta del quarto movimento, "Allegro", del "Concerto grosso in Sol maggiore op.6 n.1 HWV 319" di Georg Friederich Haendel (1685 - 1759), eseguito dalla "Tafelmusik Baroque Orchestra", ensemble canadese specializzato nel repertorio antico. L'espressione Tafelmusik - musica da tavola - indica i brani composti nel tempo proprio per allietare un banchetto, come avveniva presso le corti soprattutto dal periodo rinascimentale in poi.
La cosa ci suggerisce subito che si tratta di una composizione ricca di serenità e di leggiadrìa che, se pure ha come scopo il semplice intrattenimento, non per questo è meno affascinante di altre. Delle innumerevoli sfaccettature dell'ispirazione di Haendel - ora intima, ora festosa, ora solenne - qui prevale infatti quella più leggera e galante, segnata da una vivacità a volte sostenuta e altrove più vicina a un passo di danza.

Ma osserviamo gli interpreti mentre suonano. C'è in loro la gioiosa leggerezza di chi vive la musica dal suo interno: un piacere che si esprime nel sorriso, un impulso che affiora lieve e garbato come garbate sono le note del Concerto, e che dai due solisti si comunica, battuta per battuta, a tutto il gruppo degli esecutori. Un suonare - ma anche un dirigere - fatto di sguardi attenti e di un'armonia che certo non s'improvvisa, ma richiede perizia e prove su prove, perchè ciascuno diventi una cosa sola con gli altri, ma soprattutto col testo musicale.
Una gioiosa sintonia che cogliamo dal dialogo dei due violini solisti nell'esordio fugato del brano, fino alla delicatissima, splendida conclusione: una breve pausa e - leggera come l'aria - una dolce fioritura di note.

Buona visione e buon ascolto!

sabato 14 dicembre 2019

Il tempo che porta via

(Foto presa dal web)
Sarà che invecchio, ma ho sempre più bisogno di lentezza.
Mi occorre parecchio tempo non tanto per fare, quanto per assimilare cose, metabolizzare discorsi, eventi, novità che a volte restano lì, come un boccone che si ferma in gola e non vuole andar giù. 
Fatico a scrollarmi di dosso certi accadimenti che non scorrono più via come una volta, simili ad acqua fresca, ma mi si attaccano addosso con un'azione persistente ed erosiva e, prima che li abbia focalizzati e rielaborati, ce ne vuole.

Ma talora accade il contrario con gli eventi positivi. Se certi problemi restano troppo a lungo a erodere l'anima, d'altra parte ciò che di bello la quotidianità ci offre viene spazzato via in fretta da un turbine di pensieri invadenti, mentre richiederebbe un tempo più tranquillo per essere trattenuto e gustato fino a radicarsi in noi e germogliare in un sorriso.
Il risultato è che a volte ho la sensazione di aver lasciato indietro pezzi di me, di essere avanti con la testa e indietro col cuore, quasi che una parte fosse rimasta nel passato, ferma a quanto ho visto, vissuto, detto ieri o l'altroieri, e un'altra proiettata in un futuro che non esiste ancora. 
Forse capita a tanti, e ne deriva un tempo ansioso che ci porta via da noi stessi, un continuo fluire privo di un punto fermo nel quale finisce per dissolversi anche il presente. C'è qualcosa di sotterraneo infatti che, nella fuga dei giorni, talora ci strattona in direzioni opposte e ci divide interiormente.
E mi tornano in mente i versi drammatici di un famoso sonetto del Petrarca:

"La vita fugge e non s'arresta un'ora
e la morte vien dietro a gran giornate
e le cose presenti e le passate
mi danno guerra e le future ancora...".

Sento qualcuno che - sia pure sottovoce - protesta: ma perchè ci rattristi con queste considerazioni, proprio adesso che siamo quasi a Natale? 
No, amici, spero di non rattristare nessuno, ma resta vero che certe sensazioni - mie, ma non solo - vengono acuite dalla concitazione del periodo prenatalizio, affascinante per certi versi, ma sconnesso e dispersivo per altri. 
Un tempo che pure adoro, ma che può rischiare di frantumarci in mille pezzi.

Mi piace allora pubblicare un brano del compositore irlandese Charles Villiers Stanford (1852 - 1924), il cui testo mi ha particolarmente colpito.
Si tratta di un mottetto a sei voci miste intitolato "Beati quorum via" e ispirato al primo versetto del Salmo 119 che recita appunto:
"Beati quelli che sono integri nelle loro vie, e camminano nella legge del Signore".
A parte la bellezza della musica e la splendida interpretazione dell'ensemble Voces8 - gruppo britannico specializzato in canti a cappella, con un repertorio che va dal Rinascimento ai giorni nostri - ad attirare la mia attenzione è stata una parola del testo latino: "Beati quorum via INTEGRA est".  
Integra, appunto: termine che rimanda prima di tutto a un'idea di correttezza. Di solito infatti, definiamo così una persona onesta, incorrotta, pura e osservante delle leggi. 
Ma proprio per questo, occorre ricordare che integro significa anche intero, non spezzato, non frantumato, non disperso insomma, e può certo riferirsi all'unità interiore di chi è se stesso in tutto ciò che fa. A tale condizione, tanti e diversi possono essere i sentieri che ogni giorno ci si trova a percorrere, ma senza mai perdere di vista quel centro che ci anima dal profondo.
Un esordio, questo del Salmo, che mi suona particolarmente significativo, soprattutto se il tempo, col suo concitato susseguirsi di eventi, rischia di portarci via da noi stessi, rendendoci simili a un puzzle le cui tessere non s'incastrano più, come lamenta - nella foto in alto - il nostro amico Snoopy.

Ma al di là delle parole, è anche la soavità della musica di Stanford, insieme alla straordinaria purezza vocale del coro, a raggiungerci con intensità. 
Mi pare infatti che queste note - come accade in ogni esperienza di bellezza - ci conducano verso una pacificante attitudine contemplativa, capace di ricomporre gradatamente i nostri pezzi e di farli, finalmente, combaciare.

Buon ascolto! 

 

sabato 7 dicembre 2019

Effetto note

(Foto presa dal web)
Non so perchè ma, quando sono nervosa, canto. Anzi, canticchio.
E a dire il vero, lo faccio anche nei momenti in cui ho premura, oppure mi trovo in coda a uno sportello, o al freddo ad aspettare un treno che non arriva mai, come mi è accaduto ieri.

Di canticchiare per strada mi capitava spesso soprattutto negli anni dell'università, quando al mattino dovevo andare in stazione e ogni volta - sempre di fretta com'ero - mi scaraventavo di corsa giù dalle scale di casa: cinque piani, per intenderci.
Ma ai tuoi tempi non esisteva l'ascensore? - mi direte. 
Certo che esisteva! Ma prima dovevi chiamarlo sperando che non fosse occupato, poi aspettare che salisse per cinque piani e compagnia bella...insomma per paura di perdere il treno, preferivo scendere a piedi.
Però, appena uscivo in strada - voilà! - come per magìa, insieme al mio passo di carica verso la stazione, partiva automaticamente la musica.
Quella dell'ipod? - penserete. Eh no, gente mia, qui vi sbagliate! Qui mi riferisco a tempi antichi, tecnologicamente parlando oserei dire preistorici, almeno rispetto ad oggi. E se pure l'ascensore - quello sì, tranquilli! - già esisteva, certi altri aggeggi non erano ancora neanche nella mente del Padreterno.
La musica, dunque, partiva dentro di me, nella mia testa, per la precisione col Bach dei Brandeburghesi che mi canticchiavo gioiosamente e col quale entravo in un'atmosfera tutta mia a propiziarmi la giornata.

Ma torniamo al presente: il treno, dicevo.
Anche ieri, aspettandone uno dal ritardo sempre crescente e con tutto il bieco nervosismo che me ne è derivato, a un certo punto ho iniziato a canticchiare. A mezza voce, s'intende, per non indurre chi attendeva intorno a me a chiamare i soccorsi nel caso fossi impazzita.
Il mio è stato un impulso del tutto involontario, scattato in automatico come un ingranaggio che si mette in moto da solo e va a ruota libera, tanto che me ne sono resa conto solo dopo un po'. I brani infatti affioravano dalla mia mente senza che neanche li pensassi e soprattutto senza alcun nesso logico tra loro, ma così, in assoluta libertà!

Ho iniziato con la Pastorale di Beethoven nel pezzo del temporale - e qui, dato il mio umor nero, penso che Freud avrebbe avuto qualcosina da osservare - per proseguire subito con Mozart di cui mi è uscito l'inizio della Jupiter, seguito, non so proprio perchè, dall'ultimo movimento dell' Eine kleine Nachtmusic.  
Poi, quando il ritardo del treno ha raggiunto i novanta minuti, dico 90 - e lo scrivo anche in cifre! - con buona pace di Rachmaninov mi è partito addirittura l'esordio del suo Terzo Concerto, il famosissimo Rach 3. E siccome non uso mai espressioni come tarara, dududu, trallallà e cacofonie varie, ma - dove riesco - preferisco le note, mi sono messa a canticchiare: re, fa mi re, do# re mi re...con tanto di do diesis, appunto.
Ma quando finalmente il treno è arrivato, il sollievo è stato tale che in testa mi è letteralmente esploso Rossini con una delle sue più famose Ouvertures.  
A questo punto, tirato un gran respiro, ho iniziato pian piano a rasserenarmi riuscendo - guarda un po' - anche a sorridere, mentre dentro di me il ritmo del convoglio si sposava con la vivacità del pezzo rossiniano.
In conclusione, la musica mi ha accompagnato per tutta l'attesa e nel corso del viaggio, ora come valvola di sfogo, ora come terapia distensiva, simile a una sorta di effetto note - certo, con una T sola, note musicali! - proprio come dice il titolo. E confessi chi, leggendolo a prima vista, ha pensato: ma questa si è mangiata una doppia...!!!

Allora godiamoci la trascinante esuberanza di Gioacchino Rossini nella celebre "Ouverture" de "Il Barbiere di Siviglia", pezzo di straordinaria felicità compositiva, ora più concitato e fragoroso, ora più lieve, ma non privo di tocchi di ammiccante ironia e ricco di una scorrevolezza che rasserena e alleggerisce il cuore.
Vi lascio quindi a queste note e mi scuso se il post oggi è venuto un po' così...
A dire il vero, ne avevo già preparato un altro, serio, serissimo e molto più a modo. Ma ieri il mio treno era in ritardo...e allora - che volete farci? - mi è partita la musica!

Buon ascolto!