sabato 28 gennaio 2023

Se la musica è voce

Tengo da parte da parecchio tempo il video di oggi, ma non avevo mai trovato il coraggio di pubblicarlo. 
Si tratta della magistrale e drammatica
interpretazione del "Preludio in do minore n.20 op.28" di Fréderich Chopin, che troviamo nel cd intitolato "The 12th Room" del compianto Maestro Ezio Bosso. 

L'indicazione del brano è "Largo", ma potrebbe anche essere definito "Adagio doloroso" per il suo andamento lento, malinconico e fortemente scandito che lo rende più simile ad una marcia funebre. Un' austera e solenne sequenza di accordi che possono ricordare un corale sacro - prima fortissimi, poi ripetuti in modo molto più sommesso - con uno sviluppo decisamente breve: il preludio si compone infatti di sole tredici battute.
Ma in esse Chopin sembra aver profuso con luminosa intuizione quella toccante
espressività che ha reso il pezzo straordinariamente celebre. Non a caso è stato ripreso da Rachmaninov nelle sue splendide "Variazioni su di un tema di Chopin op.22", e il musicologo Gastone Belotti lo ha definito "una di quelle rare gemme che riescono a condensare in un pugno di misure tutto il dolore e la mestizia dell'umanità".

Parlavo prima di drammaticità a proposito dell' interpretazione di Ezio Bosso, per i segni della sofferenza così evidenti nel suo corpo, segni attraverso i quali possiamo intuire la fatica fisica dell'esecuzione insieme alla ferrea volontà del Maestro di trarre da questa musica il massimo dell'espressività e della passione. È con tale intento che enfatizza i contrasti del brano rendendo il fortissimo e il pianissimo ancora più accentuati, sentiti e vissuti. Sono note, ma insieme grido e lamento, urlo e accorata preghiera, carezza e agonia, dove Bosso fonde e fa sue le infinite sfaccettature del genio di Chopin e del dolore umano, conferendo alla musica una dimensione di sacralità.

Non avevo mai pubblicato questo video perchè - nonostante fosse da tempo su youtube - mi pareva di violare in qualche modo un'intimità, di camminare sulla sofferenza degli altri che è sempre terreno sul quale muoversi con pudore e delicatezza. Tuttavia, lo faccio ora sulla scorta della citazione di Belotti e del suo riferimento a un dolore universale. Mi sembra infatti che il brano e la sua interpretazione possano entrare in sintonia anche con la memoria delle vittime della Shoah, celebrata ieri ma indimenticabile.

E se la musica può farsi voce - di questa come di ogni altra sofferenza - qui, attraverso il Maestro Bosso, quella di Chopin risuona per tutti.

Buon ascolto!

(La foto scattata ad Auschwitz-Birkenau è mia)

 

sabato 21 gennaio 2023

Le mie città - 1









Credo di aver detto in diverse occasioni quanto sento di appartenere ai luoghi: case, quartieri, stazioni, paesi o città in cui vive qualcosa di me che ritrovo ogni volta che vi ritorno. Ambienti che mi hanno colpito per il loro fascino, ma anche perchè spesso hanno segnato episodi della mia vita o stati d'animo che custodisco nel cuore e che li hanno resi indissolubilmente miei.
È così per tanti luoghi visti dal vivo, per altri ammirati solo in qualche dipinto, o
talora anche inesistenti e nati dalla fantasia di un artista. Tuttavia, anche in questo caso riescono ugualmente a suscitarmi un sussulto di emozioni come se davvero fossi vissuta lì in un tempo lontano, o in un'altra vita.

Così, oggi inauguro una serie di città che sento mie con le immagini che, nel tempo, mi hanno più toccato. Lo faccio prima di tutto andando in Toscana, una regione alla quale - pur non avendo radici familiari - mi sento legata come se nel profilo delle sue colline, nei colori caldi della sua terra o nell'impianto medioevale di tanti suoi centri, abitasse da sempre una parte di me.
E torno a Siena che ho visitato diverse volte ma che, prima ancora che ci andassi, mi ha
suggestionato con il fascino di due celebri dipinti di Ambrogio Lorenzetti (1290 - 1348). Si tratta degli "Effetti del Buon Governo in città e in campagna", sezioni diverse del ciclo di affreschi conservato nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena e intitolato appunto "Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo".

L'opera è molto ampia e dettagliata, animata da un intento didascalico col quale l'artista ha illustrato le conseguenze di un governo illuminato, o al contrario tirannico, con descrizioni minuziose fatte di figure simboliche e di immagini ora di felicità operosa, ora di rovina.
Tuttavia, qui non intendo parlare dell'intero
ciclo nei suoi svariati riferimenti. M' interessa invece fermarmi sulla rappresentazione di Siena e della campagna circostante negli "Effetti del Buon Governo", perchè ha sempre avuto su di me un forte impatto.

Questa che l'artista ha raffigurato non è una città nata dalla sua fantasia, e anche se può aver lavorato d'immaginazione, Ambrogio Lorenzetti ha descritto comunque la Siena della sua epoca con i suoi tratti architettonici e il suo impianto urbanistico.
Avrete certo riconosciuto nella foto qui a lato uno scorcio del Duomo con la cupola e il campanile a fasce marmoree chiare e scure.
Poi le tante case alte e addossate l'una all'altra,
la severa eleganza delle bifore alte e sottili, così come delle cornici sopra i tetti, delle altane e della cinta muraria.
E poi i colori tra i quali spicca il cotto di tanti palazzi, le torri, le vie interne che
non vediamo ma possiamo intuire strette e tortuose per seguire l'andamento delle colline, rompere l'urto del vento e al tempo stesso rendere difficoltosa un'invasione nemica. Ma tipici dell'architettura senese sono anche i tanti archi a tutto sesto sormontati da altri a ogiva che potete osservare nella foto poco più in alto, ancora oggi visibili in molti edifici del centro storico della città.

Un colpo d'occhio dal quale cogliamo una Siena ricca e operosa come quella del periodo comunale: un fervore di attività e insieme di piacevolezza del vivere testimoniati da un lato dai muratori che lavorano in cima a un tetto e dall'altro da quelle splendide fanciulle che danzano mollemente in cerchio. Ma anche da particolari come i vasi alle finestre, una gabbia per gli uccellini, fino al movimento di scambi commerciali tra campagna e città.
Indimenticabile, a questo riguardo, proprio
l'immagine della campagna che si stende a perdita d'occhio. Qui infatti l'artista non solo ci ha regalato un magnifico esempio di paesaggio agrario della Toscana medioevale, ma vi ha anche riprodotto in una splendida visione d'insieme i terreni coltivati, la dolcezza delle ondulazioni collinari e i casali sparsi qua e là.

Ma al di sopra di tutto, ad affascinarmi è sempre stato lo stile: la fusione di romanico e gotico, di solidità e raffinatezza, di sapienti incastri di muratura e insieme di linee morbide e sottili, ricche dell'eleganza tipica di tanta arte senese del Trecento. Basta osservare la complessità architettonica con cui Lorenzetti ha realizzato la città, ma anche la sinuosa leggerezza dei panneggi delle fanciulle danzanti. Immagini che per me hanno sempre avuto un che di fiabesco, a somiglianza delle illustrazioni di certe enciclopedie per bambini che mi erano rimaste dentro dall' infanzia come ricordi di un mondo di sogno a cui riandare.

Ho visitato Siena per la prima volta a diciassette anni in gita scolastica.
Ma se da una parte è stato
ritrovare i tratti di un luogo conosciuto almeno nelle immagini, dall'altra di quel viaggio ricordo i ritmi più che mai serrati, la stanchezza e le scale...oddio quante scale! Per andare alla Pinacoteca Nazionale, al Palazzo Pubblico, per salire sulla Torre del Mangia...il Facciatone no, forse ci era stato risparmiato! Ma insomma, scale ovunque.
E poi il freddo. Era un aprile gelido: un
pomeriggio da Siena eravamo andati a Pienza e mentre la nostra insegnante di Storia dell'Arte davanti a Palazzo Piccolomini ancora spiegava - ed era ormai sera - si era messo a nevicare...

Gite bellissime, intendiamoci, professori per i quali ho sempre nutrito stima e profonda gratitudine, ma nei periodo dell'adolescenza non sempre sapevo apprezzare tutta la bellezza che avevo intorno e che la scuola ci insegnava a cogliere con un addestramento a dir poco rigoroso.
Sono tornata poi, negli anni successivi, a ripercorrere più volte - prima per conto
mio, poi facendo da guida ad altri - gli stessi itinerari delle gite scolastiche con una passione che mai avrei immaginato. Ho capito allora l'importanza della semina: quel lavoro paziente che non vede subito i risultati, ma che i nostri insegnanti avevano perseguito ostinatamente, senza lasciarsi scoraggiare dalla stupidera della nostra età, fiduciosi che - un giorno - quel seme sarebbe fiorito.

Siena per me è anche questo: una città fiabesca e severa, bellissima e aspra, legata indissolubilmente a ricordi di splendore e di fatica. Per quale motivo poi le sue pietre romaniche e gotiche abbiano trovato in me una consonanza così viva da risvegliare qualcosa di profondamente mio, resta un po' un mistero. Lo stesso mistero che ci porta ad apprezzare uno stile, un dipinto, un testo poetico, un brano di musica al di sopra di un altro e che - pur non escludendo affatto il valore di espressioni differenti - ci fa abitare in esso quasi vi ritrovassimo i pilastri segreti della nostra casa interiore.

Allora torno a Bach che non è italiano, tantomeno senese e neppure contemporaneo del Lorenzetti. Ma chi mi legge ormai mi conosce un pochino e sa quanto una musica debba suscitarmi uno scatto emotivo perchè la scelga, al di là della sua bellezza o della rispondenza a un contesto. Così sono stata molto indecisa ascoltando varie carole e ballate. Alla fine, avevo quasi optato per una delle "Antiche danze e arie per liuto" di Respighi dove il compositore rielabora dolci melodie medioevali. Tuttavia, si sarebbero accordate bene al cerchio delle fanciulle danzanti, ma non all'impronta di energia e vitalità che il dipinto mi aveva lasciato.
Non solo, ma al tempo in cui - appena diciassettenne - avevo visitato Siena,
ero già innamorata di Bach, studiavo ascoltando Toccate e Invenzioni, mangiavo pane e Brandeburghesi e la sua musica andava a legarsi con le mie giornate divenendo una sorta di filtro attraverso cui vivevo esperienze ed eventi, un po' come capita a tutti con i brani che amiamo.

Per questo, davanti a Siena torno ancora a Bach con una delle sue più celebri composizioni: il primo tempo, "Ouverture", della "Suite n.4 in Re maggiore BWV 1069". All'inizio solenne, grandioso ed energico, poi vivace e ritmato in terzine come una danza, nel suo concretissimo Re Maggiore il brano mi regala una suggestione simile a quella che mi offrono gli affreschi del Lorenzetti. Anche questa musica, infatti, ha un'architettura articolata e complessa, solida e raffinata, leggera e insieme profonda, e uno splendore che supera i secoli, capace di condurci per scale ripide o cammini scoscesi.
Da ultimo, mi piace ricordare che la Suite è stata scritta in tre versioni, una delle
quali Bach ha inserito nella "Cantata BWV 110" intitolata "Unser Mund sei voll Lachens" che significa "la nostra bocca sia colma di sorriso".
E anche questa mi pare una bella cosa.

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

sabato 14 gennaio 2023

Movenze d'anima

Devo proprio dire GRAZIE allo spettacolo di Roberto Bolle intitolato "Danza con me", andato in onda la sera del primo gennaio se - oltre a performances fatte di abilità e leggiadria insieme a splendide musiche - ho ritrovato un brano di Chopin che non risentivo da una vita ma che mi porto dentro dall'infanzia.

È stato infatti sulle note del compositore polacco che Bolle - affiancato da due stelle della danza contemporanea come Casia Vengoechea e Toon Lobach, e accompagnato al pianoforte da Mzia Bachtouridze - si è esibito nel "Passo a tre" intitolato "SENTieri", creato dal coreografo, già solista dell'Aterballetto, Philippe Kratz.
Uno spettacolo affascinante centrato sulla suggestione delle
sensazioni che ci riportano all'infanzia e che su di me ha sortito proprio questo effetto.

È stato l'incedere piano e ritmato della "Berceuse in Re bemolle maggiore op. 57", a metà strada tra una barcarola e una ninna nanna, a riportarmi di colpo indietro nel tempo, suscitandomi il ricordo di quelle note e delle lezioni di pianoforte che avevo cominciato a prendere da un'amica di famiglia quando facevo le elementari.
Non so a voi, ma a me certe melodie imparate negli anni dell'infanzia si sono
stampate dentro. Non ero una bambina molto studiosa, devo ammetterlo, l'amore viscerale per la musica sarebbe esploso più avanti, dai sedici anni in poi. Ma avevo orecchio, memoria e non mi era difficile ritrovare sui tasti del pianoforte un'aria sentita anche solo per poco.

Così Chopin mi ha riportato subito là, a quella melodia che riaffiorava dal passato e che, nonostante sia in tonalità maggiore, al mio animo infantile era sempre parsa malinconica e un po' monotona. Ora invece, ne stavo riscoprendo tutto l'incanto non solo perchè - a suo tempo - avevo ovviamente suonato una versione molto più breve e facilitata rispetto all'originale, ma anche perchè ne riuscivo a cogliere l'afflato di modernità che la sostiene conducendoci ben oltre il periodo romantico in cui è stata creata.
Roberto Bolle mi perdonerà quindi se, a un certo punto, pur seguendo la bellissima
danza, la mia testa si è letteralmente persa dietro quelle note segnate da quattordici incantevoli varianti.

Varianti sì, e non variazioni che sono invece piccoli pezzi a sè stanti, ciascuno dei quali presenta di solito alcune modifiche del tema, spesso rielaborato nell'impianto armonico, nel ritmo, o tradotto in altre forme musicali tanto da divenire talora quasi irriconoscibile.
Qui invece Chopin, con estrema libertà compositiva, scrive una musica
assolutamente fluida nella quale tema e ornamenti si fondono in una serie di sognanti arabeschi che si susseguono senza pause, cesure o interruzioni. Resta sempre uguale per tutto il corso del brano l'accompagnamento della mano sinistra - una sorta di ostinato dal ritmo di 6/8 - mentre la destra si produce in un susseguirsi di varianti che ci offrono suggestioni sempre diverse.
Un "Andante" incantevole nel quale, superata la tecnica, la musica si fa sogno e
poesia, anticipando la tessitura timbrica dei compositori impressionisti fatta di dissonanze ma soprattutto di colori. Tra l'altro Varianti era proprio il titolo originario del brano, cambiato poi con Berceuse.

Facciamoci cullare allora da questa ninna nanna dolce e malinconica insieme, lasciando fluire i pensieri in libere divagazioni, e seguendo le suggestive movenze d'anima che Chopin ha espresso con fantasiose e leggiadre fioriture di note.

Qui trovate anche il video della danza.

Buona visione e buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

sabato 7 gennaio 2023

Potenza di un titolo

Sono giorni che il titolo di questo libro m'insegue di sito in sito ogni volta che mi collego al web.
Dico proprio il titolo perchè - francamente -
non ho ancora avuto modo di leggere il testo, se si eccettua qualche stralcio e la trama riportata nelle varie recensioni. Ma mi è bastata una breve sintesi perchè subito in me si sguinzagliasse - vedrete che il verbo è azzeccato - la fantasia. 

Si tratta de "La gioia di correre in salita" di Mark T. James, londinese classe 1981, qui alla sua prima pubblicazione.
La vicenda è autobiografica ed è la
storia di una rinascita, anticipata dal bel sottotitolo: "Come un cane nero ha illuminato ogni cosa".

Un cane??? Certo!!! Del resto, non sono mancati in questi ultimi anni testi che elogiano l'arte di correre - Murakami docet - o quella di possedere un cane, e se uniamo le due cose, troviamo davvero il segreto della felicità.

In sintesi, Mark T. James, ad un certo punto della propria vita per certi aspetti soddisfacente, priva di difficoltà ma in realtà molto piatta, entra in crisi e decide di prendersi un periodo di pausa da tutto, lavoro, relazioni ecc. per ritrovare se stesso. Da Londra si trasferisce in Italia, nelle Langhe dove, insieme a ritmi quotidiani più lenti e a misura d'uomo, a restituire senso al suo vivere sarà inaspettatamente lo splendido labrador nero che gli verrà affidato. Sarà appunto il cane che lo costringerà a muoversi tra i saliscendi delle colline piemontesi dove, prima con evidente fatica, poi con la percezione di una gioia sempre più sorprendente, Mark riacquisterà consapevolezza del proprio corpo e dello splendore della natura, oltre che energia e spirito di iniziativa.

Ma anche senza entrare nei particolari del libro, è bastato il titolo a stimolare la mia riflessione. Da un lato, perchè contraddice le sacre istruzioni che ti danno in montagna: a correre sono solo i runner che vantano una preparazione atletica, ma i comuni mortali, se vogliono arrivare alla meta senza scoppiare, in salita devono andare piano! Dall'altro, per la leggerezza che un titolo simile mi comunica, ricordandomi un'abitudine e un'abilità che ho perso da tempo.
Correre? Sì, ricordo di aver corso all'impazzata neanche molto tempo fa nella
stazione Centrale di Milano per non perdere una coincidenza, e di essermi poi ingenuamente complimentata con me stessa per avere tanta agilità, senza immaginare il mal di gambe del giorno dopo...
In salita? Un tempo forse, sulle mie amate montagne. Oggi, pur camminando
volentieri anche per chilometri, preferisco sentieri piani o comunque non troppo ripidi. Per gli altri non ho l'età.

Ciò non mi impedisce tuttavia di trovare quel titolo stimolante per vari motivi.
Il primo è un ricordo che risale a quando avevo dodici anni. La mia famiglia
quell'estate era andata in villeggiatura nel bergamasco: era la prima volta che facevo una vera vacanza in montagna e sul sentiero che percorrevamo di solito - in verità una passeggiata da pensionati! - c'era una collinetta sulla quale mi arrampicavo ogni giorno con incredibile velocità. Il sentiero in piano curvava, ma io tagliavo di corsa su per quella montagnola e poi scendevo dalla parte opposta arrivando alla meta ancor prima degli altri: un percorso che mi dava un senso di libertà e di respiro impagabile quasi non avvertissi il peso del corpo, ma solo leggerezza, esattamente la gioia di correre in salita.

Il secondo motivo è che di questa gioia ho bisogno oggi che i sentieri esistenziali si sono fatti più ripidi per tutti e non tanto per motivi anagrafici.
Serve infatti un respiro, una riserva di fiato e di agilità interiore che consenta di non
cedere al pessimismo, alla pigrizia, all'abitudine, e di fronteggiare le difficoltà con destrezza, meglio ancora se stimolati da chi ci costringe a uscire dalla nostra comfort zone. In ogni caso non è facile, perchè la gioia di correre in salita è anche allargare lo sguardo cercando ostinatamente la bellezza in un mondo che talora non la ama. Ma può essere un modo gagliardo di affrontare la ripida quotidianità, risvegliando risorse talora dimenticate o solo addormentate.

E certamente, oltre a un amico a quattro zampe, ci può aiutare la musica: così, ad accompagnarci nella salita materiale o metaforica del nostro vivere, oggi è Georg Friedrich Haendel (1685 - 1759) col terzo tempo, "Aria con variazioni", dalla "Suite n.1 in Si bemolle maggiore HWV 434".
Mentre l'esposizione del tema ha un andamento tranquillo, fiorito da
vari abbellimenti, con le successive cinque variazioni inizia la vera e propria corsa. Qui, insieme alla vivacità, sentiamo il ritmo scandito dalle quartine ora della destra, ora della sinistra, così come avvertiamo i cambiamenti di tempo.
Le prime due variazioni e la quinta sono infatti in 4/4, mentre la terza e la quarta
in 12/8, come se a un tratto il passo musicale si facesse più giocoso, danzante come una giga e, superata la fatica, a prevalere fosse solo una sensazione di gioiosa leggerezza.

 Buon ascolto e Buon Anno!

(La foto è presa dal web)