lunedì 30 settembre 2019

Una dedica appassionata

(Foto presa dal web)
Da cosa nasce cosa e dai canti ortodossi - che ho appena pubblicato - ai compositori russi il passo è breve, come pure da questi agli interpreti delle loro musiche.
Così oggi - di brano in brano - sono arrivata a uno splendido e giovane artista russo che i lettori di questo blog dovrebbero ricordare per averlo già ascoltato in un pezzo di Chopin: precisamente qui.

Si tratta di Daniil Trifonov, classe 1991, brillante pianista nonchè compositore, già affermato a livello internazionale e distintosi per aver vinto numerosi concorsi. Il suo repertorio spazia da Chopin a Tchaikovsky, da Prokofiev a Skrjabin, ma quello che vi propongo oggi nella sua interpretazione è un brano di Robert Schumann (1810 - 1856), nella rielaborazione fatta da Franz Liszt (1811 - 1886).
S'intitola "Widmung" ("Dedica"), Lied su testo del poeta Friedric Rückert e primo brano della raccolta "Myrthen op.25" composta dal musicista per l'adorata Clara Wieck. Ed è proprio un'appassionata dedica d'amore alla donna, dolcissimo omaggio di Schumann in occasione del loro matrimonio celebrato nel 1840, dopo anni di contrasti tra il musicista e il padre di lei.
Il pezzo, scritto originariamente per voce e pianoforte, verrà in seguito arrangiato per piano solo da Liszt che, se pure nella prima parte ne lascerà intatto il tono di raccolta intimità, in alcuni passaggi ne amplierà le sonorità pianistiche superando la destinazione familiare per cui era nato e facendone invece un brano da concerto.

Si tratta certo di una pagina che - soprattutto nella successiva rielaborazione - consente agli interpreti di mettere in luce le proprie doti di virtuosi.
Tuttavia, il pezzo non è apprezzabile soltanto sul piano tecnico, ma è anche uno dei testi in cui, forse più di altri, l'ispirazione di Schumann si fa tenera e al tempo stesso appassionata nel segno di un intenso romanticismo. E mi pare che siano proprio queste dimensioni ad essere colte, sottolineate e mirabilmente espresse dalla sensibilità di Trifonov.
A parte la straordinaria leggerezza con cui le sue mani si muovono sulla tastiera, è evidentissima la partecipazione emotiva del solista che ci offre una performance ricca di freschezza e insieme di grinta, dove le svariate riprese del tema suonano prima più intime, poi sempre più impetuose e veementi.
Siamo ad un livello in cui la pura tecnica viene ormai superata ed affiora la spontaneità del cuore: non rigido perfezionismo, ma morbidezza e abbandono dell'anima all'incanto della musica, in un moto trascinante che coinvolge anche noi che ascoltiamo.
E nonostante la giovane età, quella di Trifonov mi sembra già la naturalezza dei grandi.

Buon ascolto!

martedì 24 settembre 2019

Splendore polifonico di un rito

(Foto presa dal web)
Non mi è facile proseguire dopo aver pubblicato il brano della volta scorsa, non perchè non esistano musiche altrettanto sublimi, ma perchè fatico a staccarmi da una melodia di così grande intensità come quell'inno ortodosso.
Ma è anche perchè sono convinta che alle note di quel canto, nel loro profondo vibrare, non sia estranea una forte e rara valenza terapeutica.

Lo so, l' argomento è vasto e vi ho fatto cenno in passato in altri post, ma è un dato che mi sento di richiamare ancora una volta e a maggior ragione ora, dopo avere ascoltato a lungo quelle voci che ci attraversano l'anima per condurci alle soglie dell'infinito.
Per questo mi auguro che chi - anche solo per qualche momento - insieme alle immagini riportate nel post si è lasciato catturare dalla musica, ne abbia sperimentato il dono impagabile: un sorriso che nasce dal profondo. 
In quelle note, così come in quelle voci delicate e insieme robuste, abitano infatti una potenza e una concretezza che, se pure ci conducono in un paradiso dall'atmosfera rarefatta, non dimenticano la terra da cui proveniamo. E a mio avviso proprio qui sta il bello, perchè ci regalano la luminosa percezione che cielo e terra siano indissolubilmente fusi in un legame che supera ogni nostra capacità di immaginare.

Allora, prima di voltar pagina e passare ad altro, mi piace indugiare ancora per qualche momento su questi canti dall'aura così profonda e suggestiva.
La mia scelta di oggi si orienta su Piotr Ilic Tchaikovsky con un brano tratto dalla "Liturgia di San Giovanni Crisostomo op.41", liturgia eucaristica di rito bizantino - la cosiddetta messa ortodossa - diffusa nella Chiesa russa e celebrata nella maggior parte dei giorni dell'anno.

Il pezzo che ascolterete - il n.10 - si intitola "To Thee we sing", (A Te inneggiamo) e coincide col momento più alto del rito, quando viene invocato lo Spirito Santo sul pane e sul vino per la consacrazione.
Si tratta di un coro a cappella che ci immerge fin dall'inizio in un' intensa e ardente atmosfera di contemplazione che fa del canto non un'aggiunta facoltativa, ma una vera e propria parte integrante del rito. E la sua soavità, in alcuni passaggi, ricorda l'ancor più famoso "Inno dei Cherubini" - che potete ritrovare qui - scritto da Tchaikovsky per la medesima liturgia.
Singolare poi la fusione delle voci e l'armonia grandiosa e solenne che ne deriva, con tratti dall'ampiezza e complessità quasi orchestrale soprattutto nei vari passaggi di tonalità. Altrettanto singolare è la percezione d'infinito che questa musica ci offre attraverso dissonanze che accentuano il riverbero di ogni nota.
Ma affascinante anche il lunghissimo accordo finale che sfuma gradatamente  nella fusione delle diverse voci, alle quali si aggiunge poi - pacatissimo - il basso profondo.

Buon ascolto!

lunedì 16 settembre 2019

Finestre sull'invisibile

Monastero di Sucevita: "Scala delle virtù" (decorazione esterna, part.)



















È con un certo tremore che mi accingo a condividere le immagini che vedete e che riproducono i dipinti di alcuni fra i più famosi monasteri ortodossi rumeni che ho visitato non molti giorni fa. 
Sì, ne scrivo con un certo tremore: ci sono infatti esperienze, sensazioni o emozioni difficili da comunicare poichè le parole, a volte, mostrano tutto il loro limite e possono solo adombrare l'impatto con la realtà.
Monastero di Voronet: esterno (part.)
E se pure in certi casi arrivano a cogliere il nucleo caldo di una determinata esperienza, lo fanno per brevi illuminazioni, talora per folgorazioni come accade ai poeti, ma non di più.

Per questo - e più ancora che per gli altri post del blog - trovo che qui la musica abbia un ruolo significativo non solo per commentare o descrivere una serie di immagini, ma per consentirci di entrare per così dire in esse, cogliendone più a fondo tutta l'intensità comunicativa. 
Monastero di Moldovita: interno (part.)
È una dimensione nella quale la musica si fa poesia, in quanto non ci restituisce solo la generica atmosfera di un luogo, ma riesce a ricreare (il termine greco poiesis significa proprio creazione) un vissuto che le parole - e in questo caso anche le mie foto con i loro limiti - non possono esprimere pienamente. 
Così, ancor più di un semplice discorso, le note arrivano a toccare corde profonde e a suscitare emozioni più immediate e vive.
 
Monastero di Moldovita: esterno (part.)
Da tempo desideravo visitare i monasteri rumeni, da quando - cinque anni fa in Russia - avevo visto alcune chiese ortodosse e lo splendore dei loro dipinti e delle icone mi era rimasto nel cuore. 
Tuttavia, i monasteri della Bucovina, una delle regioni più settentrionali della Romania, hanno superato le mie aspettative. 
Si tratta di edifici costruiti intorno al XVI sec. e subito circondati da mura fortificate per la necessità di difesa dagli attacchi dell'Impero ottomano.
Allo stesso periodo risale anche la decorazione pittorica esterna talora ben conservata, ma altrove deteriorata dagli agenti atmosferici. 
I cicli di affreschi interni sono invece successivi e tutto l'insieme rappresenta storie dell'Antico e del Nuovo Testamento, ritratti di santi e talora anche eventi storici. Attualmente, i monasteri sono ancora abitati da alcune comunità di monache ortodosse.

Monastero di Moldovita: iconostasi
La visita - come dicevo - ha superato le mie aspettative. 
A colpirmi non è stata infatti solo la struttura architettonica dei vari edifici, peraltro molto simili tra loro, o la vivacità dei colori della decorazione esterna - dal celebre azzurro di Voronet la cui composizione chimica è ancora un mistero, alle tinte talora più calde del monastero di Moldovita - ma anche il fascino degli ambienti e della decorazione interna. 
Sono infatti spazi di dimensioni limitate che ci introducono progressivamente nel luogo in cui sostare in preghiera, davanti alle immagini e alla preziosa iconostasi dietro la quale il sacerdote celebra la liturgia.
Ed è come dirigersi verso un cuore, un nucleo sempre più intimo di cui la ricca decorazione al soffitto e alle pareti ci suggerisce la sacralità. Una sacralità che si avverte intensamente quasi che l'aura di preghiera di chi lì - nel corso del tempo - ha invocato, cantato, celebrato o lavorato alla decorazione pittorica, si potesse ancora cogliere e ci avvolgesse come un manto protettivo. E desta sempre un profondo stupore vedere quanto un'intensa religiosità si traduca, quasi naturalmente, in bellezza.

Monastero di Voronet:"Giudizio universale"(part. facciata)
L'impressione non è nuova e ci sono tanti altri luoghi nell'Occidente europeo - dalle cattedrali gotiche alle basiliche ravennati, dagli Scrovegni alla Cappella Sistina, solo per fare qualche esempio - che sanno condurci alle soglie del sublime.
Ma a mio modesto avviso, nei monasteri rumeni la sensazione è ancor più coinvolgente e intensa.
Infatti, non si tratta solo di contemplare la bellezza, ma di esserne pervasi come se l'afflato di fede della miriade di santi che ci guardano dall'alto degli affreschi o delle icone, e dei tanti pittori che vi hanno lavorato, si potesse respirare attraverso le loro opere e fosse vivo, ancora oggi, per il visitatore.
Monastero di Sucevita: interno (part.)
Al tempo stesso, i dipinti ci riportano ad un ambiente greco-ortodosso che ha radici e riferimenti lontani. 
Un esempio su tutti: la foto grande in alto che riproduce un particolare della "Scala delle virtù", opera di un gruppo di artisti diretti dai fratelli Sofronie e Ioan di Pângărați.
Si tratta di un affresco che è di fatto la trasposizione iconografica di un'opera di Giovanni detto Climaco, monaco del VII secolo, autore di un trattato intitolato "La scala del Paradiso", da cui il suo soprannome (climax infatti in greco significa scala).
Monastero di Voronet: interno (part.)
In esso si descrive il cammino di ascesi del monaco verso Dio, attraverso trenta gradini che rappresentano la lotta contro i vizi e il conseguimento delle virtù in un progressivo itinerario di purificazione. Lotta non facile tra il bene e il male, simboleggiati dagli angeli e i demoni ai due lati della scala.
Un mondo segnato quindi da una forte spiritualità contemplativa e, per certi aspetti, lontano da quello occidentale più volto all'azione, ma forse proprio per questo affascinante nel il suo intenso richiamo all'interiorità e al silenzio.

Ma, come scrivevo in apertura, è solo la musica che può introdurci efficacemente nel clima spirituale di questi monasteri, e in particolare un canto ortodosso, una melodia da ascoltare piano e da far risuonare in noi nella sua soavità e insieme nella sua forza.
Monastero di Moldovita : "Albero di Jesse" (part.)
Per questo, ci affidiamo a un brano del compositore russo Grigory Lvovsky (1830-1894), intitolato "Now the Powers of Heaven"
Si tratta di un inno che veniva cantato durante la liturgia quaresimale dei doni presantificati - una delle più suggestive liturgie della chiesa cristiana ortodossa - e che probabilmente affonda le sue radici in una composizione musicale di tradizione più antica alla quale Lvovsky ha fatto riferimento.
Il testo recita:
"Ora i poteri del cielo servono invisibilmente con noi. Ecco, entra il re della gloria. Ecco, il sacrificio mistico è portato avanti, realizzato. Avviciniamoci con fede e amore e diventiamo comunicatori della vita eterna. Alleluia, Alleluia, Alleluia."
Monastero di Moldovita : interno (part.)
L'inno viene cantato per quattro volte consecutive: prima dolcemente e sottovoce, poi con intensità sempre crescente e una solennità sempre più grandiosa. Il canto ci consente così di vivere questa musica nella sua dimensione di soavità, ma anche nella sua gioiosa potenza. 
E le voci del Coro del Monastero Sretensky di Mosca - dalle più alte al basso profondo, ora lievissime, ora decisamente più robuste - nella loro esortazione sembrano rendere vivo per noi l'afflato di fede che lo splendore artistico di questi monasteri ci testimonia con forza. 
E come le loro icone, anche la musica è qui una finestra aperta sull'invisibile.

Buon ascolto!


lunedì 9 settembre 2019

Solitudine amica

(Foto presa dal web)
Ritorno qui dopo una piccola pausa e, per prima cosa, desidero ringraziare l'amico blogger Bruno Pernice - del sito dtdc (di testa, di cuore) - che col suo ultimo post mi ha offerto lo spunto per il mio articoletto di oggi.
Nel suo simpatico racconto, cita infatti un pezzo di musica che da qualche anno non mi era più capitato di sentire e che sono andata prontamente a riascoltare, ritrovandovi tutto il fascino che mi aveva catturato a suo tempo.

Si tratta della "Cavatina" di Stanley Myers (1930 - 1993), compositore inglese conosciuto per le sue colonne sonore e in particolare per questo brano, divenuto famoso come commento musicale del film "Il cacciatore"
La pellicola, che certo ricorderete, racconta una drammatica e cruda vicenda di guerra, ma anche una struggente storia di amicizia in cui s'intrecciano sogni, delusioni e nostalgie che la "Cavatina" - tema portante della colonna sonora - ci restituisce con intensità.
Ma, come accade per tante altre musiche, spesso la loro bellezza non resta legata al contesto che ne ha segnato l'origine, ma - soprattutto a distanza di tempo - va oltre e ci accompagna altrove, lungo strade diverse e tutte nostre.
Così, al di là delle vicende del film che esso commenta, questo brano si è ammantato per me di un fascino nuovo. Vi ho colto in realtà una grande pace, una dolcezza che induce a un respiro più calmo, insieme a un'aura meditativa che pacatamente ci guida in una dimensione di solitudine amica.

Composto originariamente da Myers per pianoforte e poi trascritto per chitarra da John Williams, il pezzo è stato oggetto di altre numerose trascrizioni tra cui una cui sono state aggiunte le parole. 
Qui tuttavia, ho scelto ancora la versione per piano solo perchè - a mio avviso - ne mette maggiormente in luce l'intensità e, più di altre, sembra riecheggiare qualche tema caro alla musica classica. Del resto, anche il termine "cavatina" - breve aria di entrata in scena di un personaggio, tipica del melodramma dal XVIII sec. in poi - trae origine dal passato. Senza azzardare troppi paragoni, questo di Myers potrebbe essere un nostalgico Sogno d'amore dei nostri giorni cui abbandonarsi con dolcezza, come ci si lascia portare da una ninna-nanna o da una danza che segua lieve i ritmi dell'anima.
La melodia infatti si dipana lenta sulla base di semplicissimi arpeggi che le conferiscono calma e continuità. Essa si snoda ora luminosa, ora vagamente malinconica, con uno splendore che possiamo cogliere anche grazie all'esecuzione che alterna tocchi più nitidi ad altri dove il tema sfuma leggero. Un pezzo ricco di un'intimità che va facendosi sempre più intensa e, attraverso le note più basse e i progressivi passaggi di tono, sembra davvero scavare nel profondo.
Ultima precisazione: contrariamente allo spartito della "Cavatina" che vedete in foto e che riporta la tonalità originaria di Mi maggiore, la versione che ascolterete è in Mi bemolle maggiore, con un risultato che - a mio modesto avviso - non altera, ma sottolinea il fascino del brano.

Buon ascolto!