giovedì 26 maggio 2022

Gelsomini

Una mattina di maggio in giro per Milano: aria tersa, sole non ancora rovente e "quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello...".
Una mattina di maggio e la sorpresa di
avere del tempo per me: un paio d'ore tutte mie a incantarmi davanti allo splendore della città.

Un improvviso senso di distensione mi avvolge
a calmare il respiro, alleggerire i pensieri e indurmi a una riposante lentezza che mi consente di guardarmi intorno pacificata.
Mi muovo con passo tranquillo, senza affanno, lasciando che la bellezza di un luogo da sempre amato mi invada insieme a ricordi lontani, ma tanto intensi quasi ancora vi abitasse - vivissima - una parte di me. Così, con questa calma, percorro vie appartate e ariose: uno sguardo al chiostro di Santa Maria delle Grazie sul quale troneggia la splendida abside della chiesa, un altro alla signorilità dei tanti cortili ombrosi e discreti, come pure al sontuoso liberty di certe facciate.

Ma non manca neppure un' antica cartoleria dove, in
un'atmosfera d'altri tempi, torno bambina mentre mi soffermo ad ammirare scatole e album decorati con meravigliose carte a fiori.
È la bellezza che mi viene incontro e mi accorgo che sto già sorridendo dal profondo. Poi mi inoltro nel verde rigoglioso di viali e piazze, mentre pareti di gelsomini lungo le cancellate mi inebriano con il loro profumo.

Non è la prima volta che maggio mi regala spalliere di gelsomini a incorniciare portoni o a tappezzare i muri delle case anche qui dove abito: sono fiori che in questa stagione adornano giardini e verande un po' ovunque.
Ma ritrovarli nel cuore di una metropoli famosa per i
grattacieli, il traffico, le folle in movimento e la congestione di mille attività, mi regala una gioia ancora più viva. Esiste infatti una Milano d'altri tempi sempre incantevole che, in questo come in altri quartieri, svela la sua grazia con discrezione e che nulla ha da invidiare alle torri avveneristiche - e pure belle - che svettano nel disegno del suo skyline.
Essere dentro questa città, percorrendone le vie e respirandone - per così dire
- il fascino, mi riporta indietro nel tempo ai miei anni universitari e a lontane suggestioni che la mattinata milanese mi restituisce intatte.
Avverto spesso la sensazione di appartenere ai luoghi, come se il mio vissuto vi
restasse inciso al punto che ogni volta lo ritrovo con acuta e toccante intensità. Ed è il motivo per cui sono certa che la Milano che conosco e frequento dalla giovinezza, da oggi mi parlerà anche con lo splendore e il profumo dei gelsomini di una rasserenante mattina di maggio.

Così, all'incanto di una giornata sorprendente ho scelto di associare Mozart con il secondo movimento - "Andante cantabile con espressione" - della "Sonata n.8 in la minore K.310".
Scritta dal compositore a ventidue anni, durante un viaggio in Europa mentre
sostava a Parigi dopo la morte della madre, la Sonata nel suo insieme risente della sofferenza del momento sia per il lutto improvviso che per la delusione della fredda accoglienza parigina. Lo dimostra in particolare la tonalità minore del primo tempo - cosa peraltro molto rara in Mozart - e di quello conclusivo, insieme all'andamento decisamente ansioso del pezzo.

Il secondo movimento, invece, ci offre una parentesi di delicatissima serenità, una pausa di sollievo nella quale i toni ombrosi e drammatici riemergono solo nella parte centrale. Il brano si compone di tre sezioni: la prima dolcissima, in pieno stile galante, la seconda più animata e non priva di passaggi dissonanti, e la terza costruita di nuovo sul delicato tema iniziale anche se in altra tonalità. Notevole la ricchezza di abbellimenti e arpeggi che contribuiscono a farne un pezzo di grande leggiadrìa.
Anche l'indicazione di "Andante cantabile" ci suggerisce l'emergere di quella
serenità tipicamente mozartiana, fatta di dolcezza venata di nostalgia che qui l'interpretazione di Mitsuko Uchida mette particolarmente in luce.

Buon ascolto!

 

mercoledì 18 maggio 2022

Stanze - 5

È una stanza un po' particolare questa sulla quale ho scelto di fermare la mia attenzione oggi: un'immagine che mi ha affascinato subito per l' atmosfera pacata e ariosa, così come per i suoi colori.
A colpirmi, infatti, è stata
la gamma di tinte che vanno dal chiaro allo scuro passando per diverse e delicate sfumature di beige. Ma mi hanno preso anche quelle leggerissime tende mosse forse dal vento che, attraversate dalla luce chiara della finestra, conferiscono all'insieme un'atmosfera di sognante levità.

Si tratta dell'opera del pittore statunitense Andrew Wyeth (1917 - 2009) intitolata "Chambered Nautilus" e conservata presso la Collezione Wadsworth ad Hartford nel Connecticut.
Esponente del realismo pittorico americano, l'artista ha dipinto soprattutto
figure femminili e paesaggi del mondo rurale, riscuotendo apprezzamento da parte del pubblico, ma non sempre dalla critica che lo riteneva invece fuori moda, in un periodo in cui si stava già affermando l'espressionismo astratto.

Il dipinto, realizzato nel 1956, rappresenta probabilmente la madre del pittore ormai invalida e forse - come riportano alcune notizie biografiche - vicina alla fine.
Lo confermerebbe la presenza del "Nautilus con camera"
conchiglia che dà appunto il titolo all'opera, poggiata ai piedi del letto su di una cassa di legno scuro.

Tuttavia, non trovo nell'immagine quel
funereo presagio di morte o quella cupezza che alcuni osservano, e se pure certi dati la possono giustificare, l'atmosfera che vi colgo mi conduce oltre, verso un arioso afflato di rinascita.
Me lo dice la conchiglia stessa, da sempre
simbolo di resurrezione, e in particolare questo splendido esempio di Nautilus.
Ma soprattutto me lo suggeriscono la
finestra chiara e le delicatissime tende che fanno da baldacchino al letto, mentre a destra sembrano mosse da un soffio di vita. Elementi questi che meritano una sottolineatura anche perchè li ritroviamo in numerose altre opere di Wyeth. Osserviamo infatti lo stesso effetto di leggerezza in "Wind from the sea" e in "The day of Pentecost" solo per citarne alcune, così come la finestra è un dato ricorrente in parecchi dipinti.
Allo stesso modo, la donna invalida è un altro tema al quale l'artista ha dedicato la
propria attenzione a cominciare dal quadro che lo ha reso più celebre, intitolato "Christina's World", nel quale ha rappresentato una ragazza poliomielitica sua vicina di casa.

Come dicevo, la composizione ci offre un'immagine pacata: una stanza spoglia di altri mobili oltre al letto, ma arredata in realtà dalla grande finestra che esalta il bianco dei tendaggi e delle lenzuola.
Sono stoffe dalla trama sottile e leggera che
la luce, in certe pieghe, rende quasi trasparenti. Ora hanno la consistenza del lino, ora della seta, e un che di antico negli orli ricamati e nelle frange come fosse biancheria semplice e preziosa ad un tempo, uscita dai bauli di famiglia. E sembra quasi che il pittore abbia giocato a ricreare una particolare tonalità di colore, tra il bianco e un beige vagamente rosato, in differenti tessuti e materiali fino alla superficie madreperlacea della conchiglia.

La donna è seduta nel letto, tranquilla, appoggiata a un cuscino, ma non ne scorgiamo il viso rivolto alla finestra; ne possiamo tuttavia intuire i pensieri, le nostalgie, i ricordi, la malinconia, forse i sogni insieme al senso di attesa di un futuro sconosciuto.

È quest'ultimo dato che ha spinto i critici a
far derivare certi spunti iconografici di Wyeth da Hopper, altro esponente del realismo americano nelle cui opere troviamo spesso figure femminili colte proprio in tale atteggiamento.
Tuttavia, se le attese di Hopper sono
spesso intrise di tensione o di angosciosa solitudine, qui non colgo lo stesso clima, ma l'immagine nel suo insieme mi pare più serena.
Così pure, i particolari che Wyeth ha
raffigurato in essa - dal cesto coi libri alla conchiglia - ci parlano di quella poesia del quotidiano che solleva il realismo dalla pura e semplice rappresentazione dell'oggetto, conducendolo a scandagliare lo splendore dell'esistenza nelle sue dimensioni più nascoste.

Per questo, la mia scelta della musica è caduta su di un brano che, pur essendo talora malinconico, presenta squarci di luminosità: la "Gnossienne n.5 in Sol maggiore" di Erik Satie (1866 - 1925).
Come scrivevo in passato a proposito del compositore francese, la sua è stata definita spesso musica d'ambiente, ma non mi pare possa restare solo in secondo piano come sottofondo, quasi fosse priva di un suo carattere e una sua autonomia. In effetti, oggi è sempre più apprezzata. Il suo stile va certo creando particolari atmosfere attraverso la lentezza del ritmo, la ripetitività e il potere ipnotico che, talora, esercita sull'ascoltatore. Tuttavia, più ci accostiamo alle sue note, più ne avvertiamo il fascino.

Anche il brano che vi propongo ha un che di ipnotico e insieme evocativo di mondi sconosciuti: è la malinconia dell'ignoto da attraversare, ma al tempo stesso la percezione sorprendente di un universo arioso che ci si può aprire davanti come il vento che muove le tende del dipinto. Ce lo suggerisce il luminosissimo esordio, che ci afferra subito con un tema ripreso poi lungo il brano in modo più pacato e nostalgico, ma sempre ricco dell'intensità di un ricordo o di una speranza.
Un pezzo non molto difficile sul piano tecnico, ma più che altro affidato alle doti
interpretative dei vari esecutori perchè ne facciano affiorare tutta la bellezza. Souple et expressif è infatti l' indicazione del compositore: morbido ed espressivo, proprio come questo che sentirete.

Buon ascolto!

martedì 10 maggio 2022

Voltare pagina...

Oggi, faccio riferimento al post della volta scorsa sul primo tempo del "Preludio, Fuga e Allegro BWV 998" di Bach e - se non vi dispiace - vado subito avanti.

Parliamo allora del secondo
movimento, una fuga in realtà molto singolare.
Si compone infatti di tre parti: la prima e la terza
perfettamente identiche, mentre la seconda - che risulta inclusa tra queste come fosse il vero e proprio cuore del brano - è ben diversa, ma francamente struttura di fuga non ha.  

Che cos'è allora? Un intermezzo? Una sorta di variazione? Non saprei bene come definirla, ma mi piace moltissimo per il suo andamento dolcemente mosso dopo il rigore della prima parte. Il brano si apre infatti sulle note lente e severe di un tema enunciato dalle prime due battute della mano destra - come potete vedere dalla foto - e ripreso più avanti dalla sinistra proprio come in un pezzo fugato. E via così in un intreccio sempre più complesso.

Ma poi? Come dicevo, nella parte centrale le cose cambiano e nella composizione si viene a respirare un'atmosfera del tutto differente come se, a un tratto, Bach voltasse pagina dando di ciò che ha dentro una lettura diversa. Così, se all'inizio il tono era serio ed austero, poi diviene leggero e quasi danzante. E non vi dico il piacere che si prova suonando questa sezione al pianoforte - sia pure con i limiti della sottoscritta - perchè sono note che vi cantano dentro e aiutano davvero a voltare pagina e a rasserenare lo sguardo se per caso il momento non fosse dei migliori.
Scorrevolezza e discorsività potrebbero essere i termini adatti ad esprimere
almeno in parte il carattere di questo pezzo, e mi rendo conto che tante volte, anche in passato, mi è occorso di paragonare il linguaggio della musica - e in particolare quello di Bach - a un discorso con una sua struttura sintattica fatta di principali e secondarie, di pause, incisi e via dicendo.

Ma c'è di più. Ad attirare la mia attenzione su questa parte del brano, oltre alla sua bellezza, è stato un particolare riferimento.
Verso la fine, la continuità delle note affidate alla mano destra
viene intervallata da coppie di accordi ben scanditi che chi ha un pochino di familiarità col compositore ricorderà certo di aver già sentito.
Su passaggi simili, infatti, è strutturato il celebre "Preludio n.12 in fa minore BWV
881" del secondo Libro del Clavicembalo ben temperato che - se volete - potete ascoltare qui nientemeno che dalle mani di Andras Schiff. Non trovate anche voi che ci sia una chiara somiglianza?

Se tuttavia finora ho fatto riferimento al pianoforte, l'interpretazione che pubblico della "Fuga BWV 998" non è per questo strumento, bensì per chitarra. Ho ascoltato e confrontato a lungo le numerosissime esecuzioni che youtube offre e ho scelto infine quella di Ana Vidovic. Mi è parsa infatti pregevole non solo dal punto di vista tecnico, ma decisamente migliore di altre anche a livello interpretativo per la naturalezza con cui la Vidovic suona e il risalto che sa dare alle varie dinamiche del pezzo. Parliamo del resto di un' interprete di fama internazionale. Così, nonostante la registrazione live sia un po' disturbata, mi perdonerete se ho deciso di pubblicarla ugualmente.

Poi - lo so - qualcuno penserà che, al prossimo post, di questa composizione bachiana vi ammannirò di certo anche il terzo movimento, l' Allegro.
Francamente non ho deciso: è vivace, veloce, spigliato, ma ancora non so. Magari in un secondo
tempo. Intanto ci penso.

Buon ascolto!

 

martedì 3 maggio 2022

Bachiana versatilità

Come cambia il carattere di un brano di musica - e quanto muta la nostra percezione - se lo ascoltiamo interpretato da strumenti diversi dalla versione originale?
Quale differente fisionomia assume un
pezzo nato magari per pianoforte ed eseguito invece al violoncello o al flauto? O viceversa?  

Mai sentiti i Notturni di Chopin suonati col violino? O alcuni suoi Valzer splendidamente arrangiati per fisarmonica da Richard Galliano che li colora di una suggestiva atmosfera da musette francese? Per non parlare delle Suites per violoncello di Bach nella versione per marimba.
Spesso, musicisti di ieri e di oggi si sono sbizzarriti ad interpretare un pezzo su
strumenti diversi dall'originale, a volte per curiosità o per gioco, ma più di frequente per farne affiorare dimensioni nascoste e nuove.
Senza andare a cercare arrangiamenti più recenti in chiave jazz o rock, basti ricordare che lo stess
o Bach aveva trascritto per tastiera diversi concerti vivaldiani nati per archi. E, al contrario, le sue "Variazioni Goldberg" composte per clavicembalo sono state talora adattate per trio o quartetto d'archi, il che ci consente di apprezzare ancora meglio la struttura polifonica di alcuni pezzi.

Immagino che siano osservazioni e confronti che tanti avranno avuto modo di fare chissà quante volte, notando differenze di timbro, di colore e di sonorità. Tutti sappiamo quanto la voce del pianoforte differisca da quella del clavicembalo e ancor più dall'organo, e così l'arpa dalla chitarra e dal liuto, e il discorso potrebbe continuare anche per gli altri strumenti.

Ma l'ascolto, per quanto possa essere coinvolgente, non è tutto. Ciò che ci offre la possibilità di gustare a fondo una musica è suonarla, addentrandoci con le mani e con l'anima nella sua struttura, osservandone tonalità, temi e sviluppo, cogliendone il ritmo, gli accenti, assaporandone il fascino che possiamo sottolineare magari azzardando una nostra personale interpretazione.
Mi è occorso altre volte di osservare quanto è bello entrare nel linguaggio di un
compositore, riconoscendo i tratti salienti della sua - se si può dire - poetica musicale, perchè, quando lo si frequenta con una certa assiduità, uno spartito si apre davanti ai nostri occhi come il profilo di un amico di vecchia data col quale poter dialogare.

Tutto questo discorsino per dire che giorni fa, navigando su youtube, mi sono imbattuta nel "Preludio, Fuga e Allegro BWV 998" di Bach e me ne sono innamorata al punto da volermi cimentare a suonarlo. Ma mentre lo eseguivo, mi è riecheggiato dentro come cosa non nuova e mi sono ricordata che di questa composizione avevo già pubblicato il "Preludio" la bellezza di undici anni fa, senza tuttavia soffermarmi su di esso in modo particolare.
Ora invece, il tentativo di suonarlo me lo ha fatto entrare davvero nel cuore, così ho
deciso di ripubblicarlo.

Si tratta di un pezzo nato per liuto o per cembalo - come recita l'intestazione del manoscritto bachiano - ma interpretato nel tempo anche al pianoforte, più spesso alla chitarra e talora all'organo.
Osservate sullo spartito com'è bello l'andamento delle sue prime battute! Ha il ritmo del tempo composto
di 12/8, la luminosità del MI bemolle, la dolcezza sempre variata delle terzine che si muovono inanellando il tema in tonalità diverse, mentre le note della sinistra scandiscono il cammino con rigore. Bellissimo quel Mi basso ripetuto quattro volte come nota base sulla quale la destra dipana la sua melodia, simile a un sentiero variato di luci ed ombre! Vi si riconoscono i moduli tipici dello stile bachiano e al tempo stesso ne emergono tratti di meravigliosa intimità.

Così, ad esemplificare il discorsino iniziale, ve lo riporto qui in due versioni differenti: la prima - quella che avevo già pubblicato - per liuto, e la seconda per organo. Emerge subito l'atmosfera diversa che i due strumenti creano: quanto dolce, melodiosa e ricca di sfumature è quella per liuto, tanto grandiosa e potente è la versione organistica con le note della pedaliera scandite in modo incisivo. Quanto la prima risulta intima, tanto la seconda è solenne.
E ancora una volta ne emerge la versatilità del genio bachiano che sa parlarci
attraverso voci e suggestioni diverse. 

 Buon ascolto!