mercoledì 30 settembre 2020

"Lo sguardo dritto sui fiori"

Ha un titolo un po' singolare l'ultimo libro di Giovanni Allevi,
il sesto per l'esattezza: un saggio autobiografico e insieme filosofico pubblicato a fine agosto dall'editrice Solferino. "Revoluzione" è infatti una parola che indica volontà di cambiamento, fondendo in sè termini dalle sfaccettature diverse e un pizzico di follìa. Ma essa ci suggerisce inoltre che un'autentica crescita sia umana che culturale non può ignorare le radici del passato. Quella "E" che, in copertina, è rivolta all'indietro, sembra proprio simboleggiare che non esiste movimento realmente innovativo senza un ritorno all'antico e alla consapevolezza dei sogni più profondi, così come delle fragilità che ci caratterizzano.
Ma di che cosa si parla esattamente nel testo? 
Incentrato sui temi della creatività e dell'innovazione, il saggio ne tocca vari aspetti: da ciò che è innovativo in musica, fino al rapporto tra ispirazione e tecnica e alle problematiche poste dall'Intelligenza Artificiale applicata alla composizione; dagli equivoci cui oggi può portare un'esasperata ricerca del consenso, alla necessità di non far dipendere da esso il valore della nostra identità e del nostro agire. Ma ricorrente è anche il riferimento all'ansia che il compositore vive, segno ambivalente del desiderio di cambiare le situazioni che ci rendono infelici e al tempo stesso della paura che talora ci blocca.

Non è nuovo Allevi a questo tipo di considerazioni e - come in passato ma qui, mi pare, in modo ancor più efficace - fonde la dimensione autobiografica, fatta di introspezione e racconti di vita quotidiana, con un'intensa riflessione filosofica. Un testo impegnativo, da leggere e rileggere per coglierne in pieno ogni sfaccettatura, ma non per questo pesante.
La nitida scrittura del compositore coniuga infatti profondità e leggerezza, guidandoci in un percorso ricco di voli dell'immaginazione e di musica, dove rumori e voci intorno a noi si traducono immediatamente in note.
  
Il libro prende le mosse da alcune drammatiche esperienze. 
Un improvviso tremore alle mani durante un concerto e uno stato di ansia tormentosa cui si aggiungerà poi lo sconvolgimento causato dalla pandemia, sono gli eventi sui quali Allevi inizia a riflettere per tentare di rispondere agli interrogativi che tali accadimenti portano con sè.
Chi avesse letto il suo precedente saggio intitolato "L'equilibrio della lucertola" - di cui ho parlato tempo fa qui - osserverà che "Revoluzione" ne ricalca lo schema: momento di crisi, bisogno di isolamento, necessità di ricorrere a una guida spirituale e cammino introspettivo verso una risoluzione. E tuttavia, a mio avviso va oltre perchè, nel momento più drammatico della narrazione, qui il musicista individua il cammino per una rinascita interiore nell'apertura a ciò che è "altro da sè".
"Accudiscimi" è infatti l'invito che riceve in modo misterioso da un alberello ormai secco di bouganville. E il suo prendersi cura, con attenzione quotidiana e garbo da innamorato, di questa pianticella arida fino a quando essa non rifiorirà, lo condurrà a ritrovare gradatamente in se stesso la percezione di una rinascita e il coraggio della speranza in un tempo difficile come quello attuale. Sarà proprio la bouganville cui Allevi vorrà dare anche un nome - Maddalena - a iniziare con lui un dialogo facendogli da guida nell'intreccio delle sue ansie e dei suoi interrogativi: splendida metafora del fatto che accudire un altro essere vivente, sia esso persona o elemento della natura, è un far rifiorire anche la nostra anima.
  
Da qui in poi, sia pure nella problematicità dei temi trattati, il testo si vena di una positività sempre più intensa e convinta. Prendersi cura di Maddalena diventa inoltre il simbolo di un ritorno al silenzio, alla natura e al senso del sacro che essa porta con sè. Ma tante sono nel testo le considerazioni degne di nota, come l'esortazione a ritrovare in noi la tormentosa nostalgia di infinito che abita nel profondo di ciascuno e che è alla radice di ogni gesto artistico, così come la necessità di ricercare il sublime anche nel quotidiano.
Ma che cos'è per Allevi il sublime?  
Nell'ultima pagina del libro si legge:
"Tutti camminiamo sospesi sopra l'inferno. Il difficile è mantenere lo sguardo dritto sui fiori." 
Eccolo, il sublime: lo sguardo dritto sui fiori! La capacità di non distogliere gli occhi dalla bellezza anche in mezzo allo sfascio, la caparbia trasgressione di ricercare dentro di noi lo spessore del mistero contro quella logica che vorrebbe ridurci a numeri.

E a questo libro in cui il musicista si mette in gioco con disarmante sincerità, mi piace associare uno dei suoi brani più celebri e amati dal pubblico, intitolato appunto "Come sei veramente", tratto dal cd "No concept" (2005). Non si pensi però che il titolo abbia un significato sentimentale. Come ha talora spiegato Allevi stesso, l'ispirazione per questa sua musica è nata dal fascino di un'affermazione di Sant' Agostino: "Si conosce solo ciò che si ama". Una frase del filosofo che ha abbracciato e scandagliato la propria inquietudine come cifra della nostalgia d'infinito dell'uomo, collegando un'autentica conoscenza degli altri - e di se stessi - a uno sguardo di amore. E solo a quello.

Buon ascolto!

martedì 22 settembre 2020

"Oh, che armonico fracasso!"

A. Longhi: "Ritratto di Domenico Cimarosa" (Foto presa dal web)

Se vi piacciono gli ossimori, oggi eccone qua uno bellissimo e per giunta musicale!
È proprio l'espressione "armonico fracasso" che trovate nel titolo e che associa due elementi contrapposti: da un lato la luminosa e ordinata positività dell'armonia creata da piacevoli consonanze, e dall'altro quell'insieme di rumori forti, assordanti e confusi che definiamo appunto fraca
sso. Insomma, una contraddizione in termini!
Ma dove troviamo questa espressione e a che cosa è riferita?

Per rispondere, dobbiamo tornare indietro nel tempo, esattamente alla seconda metà del Settecento, e andare a scoprire un compositore nuovo per questo blog.
Si tratta di Domenico Cimarosa (1749 - 1801), esponente di spicco della scuola musicale napoletana e autore di un gran numero di opere comiche.
Ricordiamo prima di tutto "Il matrimonio segreto", certo la sua composizione più famosa: un dramma giocoso - ossimoro anche questo, direi! - che ebbe a suo tempo strepitoso successo e che lo ha reso celebre in mezza Europa. 
Ma la produzione del musicista comprende parecchie altre opere i cui titoli  - come "La villana riconosciuta", "Il vecchio burlato", "Le astuzie femminili", "Le nozze in garbuglio", "I finti nobili", "Il matrimonio per raggiro" solo per citarne alcuni - ci rivelano il gusto per la farsa, l'intrigo e il sotterfugio.

Feconda è la sua vena creativa, come la fresca e vivace immediatezza di tante sue arie, insieme al fatto che - pur prendendo spunto per i suoi personaggi dalla commedia dell'arte - ne ridisegna e ne approfondisce i caratteri a somiglianza di ciò che aveva fatto il Goldoni nelle sue opere teatrali. Proprio su di un libretto del commediografo veneziano, infatti, Cimarosa comporrà "La vanità delusa" e forse non è un caso che alla fine della sua vita si rechi a Venezia.

Tuttavia, il brano da cui è tratto l'ossimoro del titolo non è una vera e propria opera buffa, ma un semplice "Intermezzo" la cui genesi è incerta - Cimarosa doveva forse ampliare una composizione precedente? - e ignoto l'autore del libretto. S'intitola "Il Maestro di cappella" e la sua singolarità sta nel fatto che, insieme all'orchestra, c'è un solo personaggio in scena, protagonista di un monologo comico: una vivace e simpatica parodia del tipico compositore settecentesco - il Maestro di cappella, appunto - filone teatrale che vantava già i suoi precedenti con Mozart e Haydn.

Ma come si svolge? 

Dopo un recitativo in cui il protagonista presenta il brano che dovrà essere eseguito sotto la sua direzione, iniziano le prove che si rivelano però disastrose: gli orchestrali suonano in modo disordinato e non intervengono al momento giusto. Così il Maestro è costretto a canticchiare la parte di ciascuno strumento imitandone il suono con una serie di divertenti onomatopee, finchè gli esecutori non risponderanno correttamente ai suoi dettami. Una parte molto gustosa e ricca di armonia imitativa, in cui si passa in rassegna la varietà dei timbri presenti in un insieme orchestrale verso la fine del Settecento. 

Ma oltre alla musica, coinvolgenti anche la mimica e la gestualità dell'interprete - il bravissimo Enzo Dara - che col suo tono ora burbero, ora bonario, ma sempre enfatico, sottolinea l'intento parodistico della scena suscitando negli ascoltatori un sorriso.

Buona visione e buon ascolto!

lunedì 14 settembre 2020

Donne col libro - 9

"Hotel sulla ferrovia" (coll. privata)




















"Donne col libro: solitudini in un interno".
Stavolta il sottotitolo di questo post potrebbe suonare proprio così.
Se infatti nei vari dipinti pubblicati finora, oltre ad essere fonte di riflessione o di svago, la lettura era vista come arricchimento culturale e strumento di emancipazione femminile, non sempre - tuttavia - le composizioni pittoriche che associano donne e libri hanno avuto questo intento. 
"Scompartimento C carrozza 293" - New York IBM Collection
E l'atto del leggere, così come talora significa vivo desiderio di apprendere o ricerca di uno spazio di silenziosa meditazione, altre volte può rappresentare anche un bisogno di fuga dalla realtà o un indizio di profonda solitudine.

È a questo riguardo che mi hanno colpito alcuni dipinti di un pittore di cui ho già parlato qui tempo fa, e che ha rappresentato in modo emblematico ansie, attese e in particolare solitudini della società del suo tempo: lo statunitense Edward Hopper (1882 - 1967).
 
"Vagone" - New York (coll. privata)
Non sono molte le composizioni in cui l'artista raffigura donne impegnate nella lettura, ma in ognuna di esse le protagoniste risultano prive di un minimo scatto di interesse o di un movimento di emozioni, ma sono invece chiuse in se stesse in un'attenzione al testo piuttosto asettica. 
Dai loro volti e dalle loro posture, infatti, non emerge altro che una compostezza ordinata e tuttavia inespressiva, quasi la lettura non fosse un elemento capace di modificarne il sentire, ma solo uno spazio in cui rinchiudersi per non dare adito alla comunicazione o perchè essa, forse, è divenuta impossibile.

"Hotel Lobby" - Indianapolis, Museum of Art
Si trovano tutte in un interno le lettrici qui rappresentate, tante e tali sono le stanze in cui Hopper le raffigura: in genere camere d'albergo, scompartimenti di treno o anticamere di hotel. 
Ma si tratta di spazi anonimi, luoghi di passaggio privi del calore che si respira abitualmente in una casa.
In tutti questi ambienti, infatti, manca la vivacità di un clima familiare, mentre avvertiamo un'atmosfera di freddezza talora accompagnata forse da una sottile ansia, l'ansia dell'attesa.

Certo, è difficile che in uno scompartimento di treno si possa avvertire la stessa aria di casa.
E tuttavia, rappresentare uno spazio così squadrato geometricamente, con una ripetitiva successione di finestre  come nel dipinto intitolato "Vagone", non fa che sottolinearne la freddezza.
Sono gelide simmetrie che vanno ad acuire il vuoto della solitudine, lo smarrimento dato da quel senso di provvisorietà che a volte ci coglie improvviso e che, invece di muoverci verso gli altri, talora ci blocca in un atteggiamento di sostanziale chiusura e incomunicabilità.
Non c'è movimento infatti nelle immagini di Hopper, non c'è dialogo, nè si guardano in viso le figure rappresentate. E, a questo proposito, mi pare emblematico il dipinto nel riquadro in alto, intitolato "Hotel sulla ferrovia" dove, in una camera d'albergo, l'uomo volge le spalle alla donna che legge e - in atteggiamento svagato o di voluta disattenzione - è intento a fumare.

Possiamo allora immaginare quanto il contenuto di un libro, con le vicende e i sentimenti che esso a volte offre, possa da un lato costituire un rifugio alla solitudine, ma dall'altro risultare talora interiormente esplosivo, se confrontato al silenzio esteriore.

Per questo, a commento musicale dei dipinti di Hopper ho scelto un brano di Bach: il "Preludio n.10 in mi minore BWV 855" dal I libro del "Clavicembalo ben temperato", in un celebre arrangiamento del pianista russo Alexander Siloti che ha anche apportato al testo bachiano alcune modifiche. Lo ha trasposto infatti in si minore, e ha scambiato alcune figurazioni tra la mano sinistra e la destra.
 
Si tratta di un pezzo tristissimo e drammatico, qui nella magistrale interpretazione del compianto Ezio Bosso che proprio ieri avrebbe compiuto 49 anni.  
Ma, sia pure nella malinconia che lo caratterizza, il brano presenta un andamento progressivamente più concitato che sembra proprio esprimere il non detto, il fermento che talora ribolle in cuore nei momenti di solitudine e che, a volte, anche il contenuto di un libro può far emergere in tutta la sua veemenza. 
Le frequenti ripetizioni della frase musicale che costituisce il tema - ora in tonalità minore, ora maggiore - scandagliate in ogni possibile variazione melodica, se ascoltate alla luce dei dipinti possono infatti sembrare parole che vadano a riempire il silenzio degli ambienti disegnati da Hopper. Battute di un discorso che riecheggiano prima sommesse, poi con intensità sempre più dolorosa e vibrante quasi nel tentativo di infrangere un muro di incomunicabilità. 
Ma dopo una lunghissima pausa, l'affascinante accordo finale in maggiore apre forse alla comunicazione un lieve spiraglio.

Buon ascolto!

martedì 8 settembre 2020

Musica dal passato al presente

Foto prese dal web
Mi piace riprendere in mano questo blog e iniziare l'anno - diciamo così - di lavoro, con uno splendido brano di Ennio Morricone, insieme a un grintosissimo pezzo di Bach che - a dire il vero - avevo già pubblicato qui anni fa nella trascrizione per pianoforte.
Quelle bachiane sono note che risuonano dal passato al presente oltrepassando il tempo, ma oggi desidero offrirvele sia nella versione originale per organo, che in un arrangiamento orchestrale a mio avviso straordinario, come solo può esserlo una colonna sonora del Maestro Morricone.

L'accostamento di questi due grandi però non è mio, ma me lo ha offerto una lettera al "Corriere della Sera" del 7 luglio scorso - giorno successivo alla morte del compositore - nella quale si ricordava quanto Morricone nei suoi brani si sia ispirato a Bach e, in uno in particolare, al "Preludio in la minore BWV 543". 

È quindi allo sconosciuto autore della lettera che si firma "Guglielmo di Sens" che devo il mio grazie, per aver sollecitato la mia curiosità offrendomi insieme lo spunto per questo post.
Immagino che dietro un nome così altisonante si celi un architetto, dato che Guglielmo di Sens, vissuto nel XII secolo, è stato uno dei più celebri costruttori del suo tempo, artefice - tra l'altro - del coro della cattedrale di Canterbury. 
E mi piace questo accostamento tra architettura e musica di Bach perchè ogni brano del compositore tedesco, dai più semplici fino alle monumentali fughe, è strutturato con matematica precisione e al tempo stesso con un'armonia simile a quella di un'antica, mirabile costruzione slanciata verso l'alto.

Ma torniamo a Morricone. La colonna sonora in cui - come ricordava il nostro sconosciuto architetto - si è ispirato a Bach, è quella del film "Il Clan dei Siciliani": pellicola del 1969 per la regia di Henry Verneuil, interpretata fra gli altri da Jean Gabin, Alain Delon, Lino Ventura e Amedeo Nazzari.

Si tratta di una musica che intreccia temi diversi più volte ripresi e variati, che ci coinvolgono fin dall'inizio - e poi sempre più intensamente - in un' atmosfera languida ma molto accattivante.  
Il pezzo si apre con una lenta frase musicale: un malinconico passaggio discendente che parte dal la minore e qui ritorna, con sole quattro note: do - si - si bemolle - la. In apparenza un'introduzione, ma in realtà esso va ripetendosi simile a un mesto ritornello che fa da sottofondo al tema principale.
È proprio quest'ultimo a ispirarsi al "Preludio BWV 543", brano vibrante e acceso, costruito sulla pratica dell'antico ricercare e - a mio modesto avviso - non inferiore per bellezza e profondità alla celeberrima "Toccata e fuga in re minore BWV 565"

Del Preludio Morricone riprende l'esordio, la - do - la - mi, mantenendo la stessa tonalità della versione originale. Subito dopo tuttavia, ne intreccia il tema a quello precedente scambiandone i ruoli mentre, in una suggestiva fusione di passato e presente, fa riecheggiare anche le successive battute del pezzo bachiano. E sapientemente rielaborata da strumenti diversi man mano che l'organico orchestrale si amplia, affiora un'aria nostalgica che va a innestarsi su tutto l'insieme. 
Un pezzo chiaramente ispirato a quello bachiano, sul quale tuttavia Morricone costruisce mondi e atmosfere molto differenti.
Ne deriva una linea melodica essenziale eppure sempre nuova, dove - nel passaggio dall'energico rigore barocco ad un clima malinconico e un po' noir - Bach sembra mutarsi in un sommesso ritmo di tango e, intensa e struggente, ancora una volta la musica ci rapisce l'anima.

Buon ascolto!