"Gioire in Musica" è un piccolo spazio per condividere lo splendore della musica classica e le emozioni che essa suscita in noi; ma anche un luogo in cui raccontare quanto ogni musica nata dal profondo si intrecci alla nostra esistenza nutrendo il cuore e infondendoci vita, sorriso e limpidezza di sguardi.
Niccolo di Pietro Gerini (1340 - 1414) : "Dormitio Virginis". Parma, Museo della Pilotta.
Sulle note di un antico inno a Maria e con questa tavola di Niccolò di Pietro Gerini, auguro a tutti voi buona Festa dell'Assunzione, buon ascolto e buone ferie! Anche questo blog va in vacanza per qualche settimana. Arrivederci!
Giaches de Wert (1535 - 1596) : "Virgo Maria hodie ad caelum assumpta est".
S'intitola "Giorno d'estate" il dipinto che vedete e, in teoria, non potrebbe esserci tema più adatto a questi giorni agostani. Il quadro, conservato presso la National Gallery di Londra, è opera di Berthe Morisot (1841 - 1895) una tra le pittrici più celebri e rappresentative dell'Impressionismo insieme a Marie Brocquemond, Mary Cassat ed Eva Gonzales che ho preso in considerazione nei mesi scorsi. Dopo aver frequentato l'atelier di Corot, l'artista si avvicina a Manet e alla pitturaen plein air tipica dello stile impressionista. E come per le altre sue colleghe, i temi delle sue opere spaziano da raffigurazioni familiari e domestiche - tra le più celebri "La culla" - e scene di vita all'aperto a contatto con la natura.
Che cosa mi affascina in questo dipinto? Non solo la coincidenza stagionale del titolo che, di primo acchito, ci fa confrontare l'immagine col clima torrido di questi giorni - ah, le estati di una volta! vien da pensare vedendo le due protagoniste in soprabito e maniche lunghe - ma insieme una serie di elementi che indicano quella delicata attenzione femminile alla quale non sfuggono certi dettagli.
La pittrice ritrae due donne su di una barca nel laghetto del Bois de Boulogne, colte in una pausa di tranquillità, durante una passeggiata o una giornata di svago. Alcuni critici sottolineano la spensieratezza che il quadro ci comunica con le sue tinte chiare, la pennellata veloce e leggera dall' andamento a zig zag teso a imitare il lieve movimento delle onde e i riflessi di luce. Certo, il tratto pittorico della Morisot è impalpabile e insieme efficacissimo: basti confrontare l'azzurro chiaro dell'acqua con quello del vestito della figuretta centrale per vedere come sfumature diverse e materiali differenti siano stati resi con una delicatezza senza pari. Ma interessante osservare anche la maestria con cui sono state realizzate le anatrelle che nuotano confondendosi letteralmente con la superficie del laghetto nel quale si specchia la vegetazione circostante.
Così pure, l'abbigliamento delle due donne rivela l'eleganza della buona borghesia francese del secondo Ottocento - spesso raffigurata anche da Monet, Manet o Renoir - fatta di cappellini di paglia col fiocco, guanti, ombrellini parasole e graziose ruches che sporgono dai colli delle giacche. Un mondo di dettagli piacevoli e vezzosi che davvero fanno pensare a un momento di serena distensione in mezzo alla natura.
Tuttavia...Tuttavia, a ben guardare, non so se si possa parlare di totale spensieratezza, soprattutto in riferimento ai volti e agli atteggiamenti delle due figure. La giovane donna al centro del quadro infatti non sorride, è seria, ha un'espressione attonita e gli occhi tradiscono una preoccupazione quasi avesse ricevuto una cattiva notizia o confidato un peso sul cuore all'amica la quale - se ci fate caso - si piega leggermente verso di lei come per dedicarle tutta la sua attenzione. Anche i dolci tratti del suo viso e la mano appoggiata sull'orlo della barca testimoniano un moto di vicinanza, di ascolto o forse incoraggiamento. L'estate cui si fa cenno nel titolo è intorno, ma non nel cuore di questa scena.
Sto esagerando? Non lo so. Senza scomodare troppo la fantasia, si potrebbe anche ipotizzare che la donna a sinistra stia semplicemente guardando le anatrelle, mentre l'amica si annoia. La realtà è talora più banale dei nostri arzigogoli...pardon, dei miei. Voi che dite? In ogni caso, il dipinto rivela la grande abilità della Morisot nell'indagare l'animo dei suoi personaggi e insieme nel rappresentare un natura bellissima e vibrante come lo sfondo di questo quadro.
E quale potrebbe essere la sua colonna sonora? La presenza dell'acqua e lo stile impressionista mi suggerirebbero Debussy, ma come talora mi capita, ho fatto una scelta diversa. Infatti, non ho seguito la suggestione del paesaggio e della tranquillità di una giornata estiva, ma ho perseverato nella mia prima impressione, quella di un velo di tristezza nella figura centrale, una sorta di non detto che traspare però dai visi e dai gesti.
Così, sono approdata a Felix Mendelssohn Bartholdy (1809 - 1847) e al brano che apre i suoi "Charakterstücke op.7" per piano solo. Si tratta di una raccolta di sette pezzi in cui possiamo ravvisare reminiscenze bachiane, sia dal Clavicembaloben temperato che dalle Variazioni Goldberg. Ma stavolta non è stato l'amore per Bach a guidarmi nella scelta, bensì la sottile malinconia che aleggia proprio nel primo brano, un Andante in mi minore. Vi ho ritrovato infatti una struttura che può quasi ricordare un dialogo: mano destra e mano sinistra si alternano in quello che può sembrare un parlare da un lato e un prestare attenzione dall'altro. Ci
sono infatti brevi passaggi drammatici insieme a una melodia che
talora ritorna su stessa quasi a reiterare una confidenza o un moto di
comprensione, simile alla cura e alla delicata sollecitudine che una persona può avere verso un'amica che le abbia confidato la sua pena.
Tutte le mattine o quasi, quando il tempo lo consente, dall'alto del mio nido montano scendo a bere il caffè in un angoletto isolato fuori dal paese, in fondo ai prati, in mezzo all'abetaia. È un piccolo lusso che mi concedo da diverso tempo, da quando l'ho scoperto anni fa, al ritorno da una passeggiata. Scoperto non significa che non lo conoscessi e non ci fossi mai stata. Al contrario! Ma non mi era mai capitato di andarci a fine stagione, verso il tramonto, nell'ora in cui il giardino della baita, spesso brulicante di turisti, si spopola lasciando spazio a una solitudine incantata.
Ne avevo percepito il fascino in un tardo pomeriggio di agosto, tornando da un'escursione attraverso una bellissima pedonale che, purtroppo, l'alluvione dello scorso anno si è portata via. Avevo sete e mi ero fermata a bere qualcosa nello spazio esterno alla baita, a quell'ora totalmente vuoto e ormai in ombra. Era stato allora che, seduta in perfetta solitudine in un angolo raccolto e riparato dal vento, col fragore del torrente che scorre proprio lì accanto, ero stata presa da quell'atmosfera. Era una sensazione del tutto particolare e totalmente mia. In realtà, qui intorno ci sono diversi altri luoghi più aperti di questo e molto più panoramici che pure amo ed apprezzo. Ma lì qualcosa aveva fatto la differenza: insieme alla solitudine, era stato il suono del torrente nel silenzio circostante a entrarmi nell'anima con un senso di assoluta distensione, tanto che mi ero detta: io qui voglio venire tutte le mattine a iniziare la giornata!
La stagione ormai declinava ed ero prossima al rientro, ma così ho fatto negli anni successivi e, quando mi è possibile, ancora oggi scendo dal mio nido prima delle 8.30 per arrivare lì quando nel giardinetto tra gli abeti non c'è nessuno. Il mio primo, e unico, caffè della giornata diventa così un momento di impagabile tranquillità nel quale lasciar vagare la mente con calma, un po' come quando sono in treno e mi faccio portar via dal panorama fuori dal finestrino. Solo che mentre là la mente si appaga di ciò che vede a volte in mezzo al rumore o alla confusione, qui domina il silenzio e le sensazioni sono diverse: il refolo del vento, il sole che va facendosi gradatamente più caldo sulla pelle, ma soprattutto il fragore del torrente che diventa colonna sonora del paesaggio che ho intorno.
Comincio ad avvertirlo mentre ancora sto attraversando i prati come un rumore di sottofondo sordo e lontano. Poi, superata una piccola ondulazione del terreno arrivo in vista del ponte e, mentre scendo, il suono dell'acqua inizia a farsi sempre più distinto e scrosciante. A volte, mi viene in mente Renzo ne "I promessi sposi", quando fugge da Milano verso l'Adda pensando tra sè che il fiume ha buona voce e ne riconoscerà subito lo scorrere. Certo, nel romanzo la scena si svolge di notte - cosa non trascurabile! - mentre qui è giorno, ma la percezione è quella e non posso non ricordare la celebre gradazione usata dal Manzoni per descrivere le fasi in cui il giovane ode, prima più generico e poi sempre più chiaro, il suono del corso d'acqua: un rumore, un mormorìo, un mormorìo d'acqua corrente.
È esattamente questo l'effetto che avverto anch'io finchè, man mano che mi avvicino, il lieve mormorio si fa vero e proprio fragore, naturalmente in rapporto alla stagione, al tempo e alla portata del torrente. Ci sono giorni in cui, dopo un temporale, l'acqua è limacciosa, o altri in cui lo scioglimento dei ghiacciai convoglia a valle una piena di detriti che la rendono più scura. Ma di solito è trasparente e scivola cristallina sulle rupi che ne costellano il fondo, mentre il suo scroscio diventa familiare come i suoni che fanno parte della nostra vita al punto che tutto, anche il paesaggio, in qualche modo si umanizza. Il Manzoni parla infatti di voce dell'Adda.
E per celebrare la voce del mio torrente, ho scelto un brano in apparenza lontano da questo argomento. Non è uno dei vari giochi d'acqua scritti da diversi compositori e neppure si riferisce a un fiume. Ma nemmeno mi sono lasciata tentare dal bel pezzo di Sibelius per piano solo intitolato "Le Sapin", che sarebbe stato anche adatto perchè il mio baretto immerso nel verde si chiama proprio "La Sapinière" : l'abetaia. Ho dato invece la preferenza all' "Impromptu in Si bemolle minore op.12 n.2" di Alexander Skrjabin (1872 - 1915) che ho scelto per un certo suo andamento discontinuo che mi pare possa riflettere lo scorrere dell'acqua in un alveo talora costellato di sassi, rupi di dimensioni diverse e dislivelli da superare. Se infatti, nelle battute iniziali, più regolare è l'andamento degli accordi della mano sinistra, più viva e differenziata è invece la melodia che ci presenta la destra. Siamo nel tempo di 4/4 certo, ma il susseguirsi delle terzine - e qui spero di non far inorridire gli esperti! - ce lo fa somigliare quasi a un 12/8. È questo il nodo della discontinuità che avverto e che ha motivato la mia scelta, oltre naturalmente al fascino del pezzo. Infatti, attraverso passaggi che talora possono ricordare Chopin, dopo un esordio più lento la musica va subito animandosi, riprendendo il tema con vitalità irrequieta simile all'andamento impetuoso delle acque di un torrente.
Dal mio nido d'altura in vista del Gran Paradiso, osservo le nuvole che scorrono lentamente sulle cime formando e dissolvendo piano figurazioni fantastiche.
Mi piace - quando non sono in giro - stare sul balconcino che guarda l'ampio panorama di ghiacciai, rocce e fitte abetaie, osservando come la luce del pomeriggio che avanza muti prospettive e colori, rendendo più sfolgorante il sereno della piena estate o facendo presagire talora in largo anticipo l'approssimarsi dell'autunno. È il silenzio a regnare spesso in questo mio angolo arroccato sui monti. E se il vento, le cicale, il latrato di un cane o a volte voci di bambini sembrano spezzarlo, in realtà non ne sminuiscono l'incanto: un'atmosfera riposante fatta di suoni che ormai conosco e gesti quotidiani scanditi dall'orologio del campanile con lenti rintocchi che mi sono abituata ad attendere.
C'è per esempio una nonna che, fuori dalla casetta qui sotto, all'ora di pranzo e di cena fa risuonare ripetutamente il suo richiamo ogni volta più perentorio e imperioso: "Tazio!!!...Tazioooo!!!". All'inizio, dal mio balconcino poco più su non ci facevo caso. Poi, a furia di sentire quel nome gridato ai quattro venti in tutti i toni, ho pensato chiamasse uno dei nipoti che giocava lì vicino e sono rimasta colpita da quel nome così inusuale e altisonante: Tazio!A voi che cosa ricorda?
Dalla storia romana all'automobilismo c'è di che spaziare, passando magari per il cinema. Da quello che viene considerato un leggendario re di Roma insieme a Romolo (ricordate "O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti"), al grande Tazio Nuvolari, per arrivare al giovane protagonista del film "Morte a Venezia": Tadzio, appunto! Così andavo ipotizzando quali eredità familiari o spunti culturali avessero indotto dei genitori a dare a un bimbo questo nome.
Ma l'altro giorno, mentre aspettavo che, dopo insistenti richiami, Tazio si materializzasse, veloce come una freccia finalmente è arrivato e ho scoperto che non è affatto un bambino: Tazio è un gatto!!! Un bel micio tigrato che si aggira spesso tra il rustico praticello e una catasta di legna qui davanti, infrattandosi fra i tronchi e i cespi rosa di epilobium fino a far perdere le sue tracce. Non ha fretta mentre si muove qui sotto a insidiar farfalle, e se dal balconcino lo chiamo anche solo con un cenno, alza subito il musetto verso di me con occhi guardinghi ma curiosi. Quando però ha sentore di cibo pronto, con guizzo fulmineo degno davvero di un asso della velocità come Nuvolari si infila in casa, inconsapevole della portata epocale del suo nome.
Ora lo so che voi avevate già subodorato che Tazio non fosse uno qualsiasi e che in fondo a questa storiella ci sarebbe stata la sorpresa! Ma quale musica dedicargli? Qui vi confesso che - come dicevano i Latini e certo anche Tito Tazio - mi sonotrovata in gran discrimen, cioè in una situazione di incertezza e dubbio davanti a una decisione importante, diciamo davanti a un bivio: scegliere una musica adatta al gatto, o una che si accordasse al suo nome? Capite che il dilemma non era da poco, quindi che fare? Per il micio e il suo ambientino casalingo mi occorreva un brano vivace ma non troppo e di tono familiare; per il nome invece, come non pensare a un pezzo importante e magari a Mahler che fa da colonna sonora proprio al film "Morte a Venezia"?
Volendo, la storia della musica ci presenta anche il "Duetto buffo di due gatti" di Rossini, ma posso dirvelo francamente? Non mi è mai piaciuto. Avevo pensato poi a un brano dalla colonna sonora del film "Il Gattopardo" perchénel titolo della pellicola c'è appunto il gatto: Gatto - pardo...Ma non ho dato seguito alla cosa perchè, con una motivazione di tale profondità metafisica(!), ho temuto che qualcuno mi avrebbe tolto il saluto!
Poi però, ho alzato lo sguardo sul paesaggio e sulla sua ampiezza, dai monti ai prati, dai ghiacciai fino al mio paesetto appolliato qui, gatto compreso, e sono tornata alla percezione di infinito che ci regala Gustav Mahler (1860 - 1911) nel celebre "Adagietto" della "Sinfonia n.5 in do diesis minore". Sì, è proprio la colonna sonoradel film "Morte a Venezia" che ho già pubblicato tanti anni fa e che vi ripropongo sempre nella direzione di Claudio Abbado.
Al di là della vicenda narrata nella pellicola che questa musica ricorda con intensità, mi pare tuttavia che le sue note vadano oltre, dando voce alla bellezza e a quella vastità del creato che talora le parole sono insufficienti ad esprimere. Questo movimento della Sinfonia successivo ad altri più vivaci e che il compositore ha indicato con la dicitura "Sehr langsam" (molto lento), attraverso il suono degli archi e dell'arpa ci regala infatti una pausa di raccoglimento e di estatica contemplazione.
È una musica che ci offre suggestioni ora sublimi ora vagamente inquietanti, facendoci percepire spazi sconfinati insieme a un senso di caducità, un po' come il panorama stupendo e insieme fragile che ho intorno. Una musica che sembra interpretare la magnificenza del creato che ogni cosa avvolge e accarezza: dalla più grande alla più piccola, dalle cime dei monti alle farfalle, dalla campana del paese che segna lo scorrere del tempo fino al gatto, sì!, anche lui meravigliosamente parte del tutto.
Sono state la grazia e la trasparenza della pennellata nel dipinto che vedete qui sopra ad orientare stavolta la mia scelta di sguardi femminili. E a proposito di questo "Autoritratto", conservato presso la National Gallery di Londra, potrei anche parlare di garbo ed eleganza. Autrice è Élisabeth Vigée Le Brun (1755 - 1842), artista francese che probabilmente tanti conoscono anche perchè le riproduzioni di alcuni suoi quadri a tema familiare hanno sempre avuto larga diffusione. È stata infatti una ritrattista dalla brillante carriera durante la quale ha dipinto non solo dame di corte divenendo la pittrice preferita della regina Maria Antonietta, ma anche opere che celebrano la maternità e gli affetti familiari, cosa singolare in un'epoca in cui il ruolo della donna era relegato in ambito privato. La rivoluzione francese poi l'ha costretta ad abbandonare Parigi, ma questo le ha consentito di girare per le corti europee, da Vienna a Londra, da San Pietroburgo a Roma e non solo, facendosi apprezzare ovunque.
Artisticamente, la Le Brun si colloca nel periodo neoclassico, e tuttavia le sue creazioni non hanno quel carattere di aulica freddezza che troviamo in talune opere dell'epoca, non soltanto perchè la pittrice predilige il tema del ritratto, ma anche per la sua abilità nel catturare la luce, cosa che dona ai suoi dipinti grande morbidezza. E a tal proposito, osserviamo questo suo autoritratto - peraltro non l'unico - in alcuni dettagli.
Sono gli occhi ma anche le labbra, è l'incarnato lievemente roseo del viso con il candore del collo, e insieme sono gli orecchini a riflettere la luce conferendo al viso della donna una grazia ariosa. Ma a creare tale effetto di trasparenza, è anche lo spazio aperto in cui il ritratto è ambientato, con il cielo azzurro da sfondo e quelle nuvole che forse sarebbero piaciute al Tiepolo.
Una grazia che si riflette anche nell'abbigliamento: dal cappello di paglia con la morbida piuma e un serto di fiori di campo, ai lievi volant del corpetto, ai capelli non raccolti in un'acconciatura elaborata ma lasciati andare al vento, fino allo scialle scuro che l'avvolge fatto di un tessuto leggero e impalpabile.
Ma non si può trascurare il dettaglio a mio avviso più importante di questo ritratto, quello che connota Élisabeth Le Brun non solo come giovane donna ricca di leggiadria - e ricordiamo che il dipinto la ritrae a ventisette anni - ma prima di tutto come pittrice: la tavolozza. Tavolozza, pennelli e colori sono infatti infilati nella sua mano sinistra e pronti per essere usati dalla destra qui dolcemente in riposo, e dallo sguardo della pittrice del quale ora intuiamo meglio l'espressione.
E com' è lo sguardo di un pittore? È un occhio intuitivo che spesso sa andare al di là della superficie e delle apparenze, oltrepassando la barriera della pura fisicità per cogliere l'anima di ciò che rappresenta, sia esso persona od oggetto. La Le Brun si sofferma sulle persone, ma il suo sguardo non ha nulla di formale come potrebbe suggerire un ritratto d'occasione. Va invece ad indagare con dolcezza la psicologia delle figure femminili rappresentate facendo talora affiorare il mondo degli affetti che ciascuna cela. Ma com'è lo sguardo di una pittrice quando ritrae se stessa?
Non è argomento su cui si possa generalizzare, mi limito perciò a osservare questo dipinto nel quale mi pare che l'artista abbia colto in sè quella serenità interiore di chi nella vita sta realizzando il proprio talento, ciò per cui si sente tagliato: in questo caso la pittura. Leggo infatti nello sguardo di Élisabeth una gioia pacata, non sfolgorante ma tenera, animata da una serietà pensosa, una dolce fermezza che cogliamo nei suoi occhi rivolti allo spettatore ad esprimere consapevolezza di sè. E mi pare che questa immagine rifletta insieme l'autenticità di chi fa del proprio lavoro non un abito puramente esteriore, ma una passione che nasce dal profondo.
E passando alla musica, la grazia garbata di questo dipinto mi ha fatto subito risuonare in mente un brano di Ludwig van Beethoven (1770 - 1827). Si tratta del primo movimento della "Sonata per pianoforte n.24 in Fa diesis maggiore op.78" detta "A Teresa" perchè dedicata a Teresa di Brunswick con la quale il compositore ebbe una grande intesa intellettuale. Il pezzo luminoso e dolce, è a tratti gioioso e animato, altrove malinconico, ma sempre trasparente a somiglianza di questo dipinto. L'indicazione agogica di "Adagio cantabile - Allegro ma non troppo" si adatta davvero bene ad un tema che, dopo lenti accordi introduttivi, si apre in una melodia limpida che ci resta dentro proprio per la sua cantabilità. E se alcuni passaggi si fanno più accesi, Beethoven ne smorza subito la drammaticità per riportare la composizione ad una mirabile morbidezza che qui l'interpretazione di Alfred Brendel mette in splendida luce.
Aveva diciassette anni Wolfgang Amadeus Mozart quando compose la "Sinfonia n.25 in sol minore K.183" della quale oggi mi piace condividere qui il primo movimento. Era il 1773 e, come testimonia il numero d'opera, il ragazzo aveva già al suo attivo numerose sinfonie, senza contare minuetti e piccoli pezzi che aveva iniziato a scrivere a soli cinque anni. Bambino prodigio, come tutti sappiamo, e non semplicemente per la precocità della sua attitudine musicale, ma anche per la chiarezza compositiva che fa delle sue partiture un vero miracolo di equilibrio e luminosa armonia. Ma non è questo il punto su cui desidero soffermarmi.
M'interessa invece la tonalità in sol minore di questa sinfonia che - insieme alla più celebre n.40 K.550 - costituisce un'eccezione nel complesso delle altre 39 tutte in maggiore. Dell'argomento ho già parlato lo scorso anno prendendo in esame il primo tempo della n.40 considerata la Grande per la sua maturità espressiva, mentre la n.25 è detta la Piccola. Si tratta infatti di un'opera giovanile in cui Mozart - come ricordavo in passato - prende spunto dal sinfonismo di Franz Joseph Haydn. Opera, tra l'altro, fortemente criticata dal padre Leopold forse perchè non strutturata secondo i dettami dello stile galante e della frivolezza di tante composizioni dell'epoca.
Però...Però ascoltandola e cogliendone la concitazione iniziale, mi sorgono altre considerazioni che me la fanno valorizzare non meno delle successive. È acceso e drammatico l'esordio, sostenuto - come si vede nella foto - da note ribattute, e il tema impetuoso e passionale, prima forte, poi ripreso più sommessamente dal bellissimo canto dell'oboe, esprime con intensità i tormenti di un ragazzo sul finire dell'adolescenza. Certo, un Allegro con brio in minore suona un po'contraddittorio, ma forse l'espressione indica solo la vivacità scorrevole del brano. Suggestivi i due intervalli discendenti iniziali (sol - re e mi♭ - fa#), soprattutto il secondo che, dal mi bemolle, ci conduce giù fino a un angoscioso fa diesis con unosplendido salto disettima diminuita. Così pure, la successiva fragorosa esplosione in tonalità maggiore col suo tema più solare - lo stesso che più avanti sarà ripreso invece in minore - non fa che confermare la crisi di un animo adolescenziale che, come è tipico dell'età, vive i contrasti senza mezze misure ma in modo netto e assoluto.
Reduce da alcuni viaggi in Italia e a Vienna utili per la conoscenza di altri musicisti, ma deludenti sul piano della ricerca di un'occupazione stabile presso qualche corte, il diciassettenne Mozart ritorna nel 1773 nel chiuso dell'ambiente salisburghese. Ma il desiderio di nuove vie più personali e più consone al proprio talento insieme alle suggestioni preromantiche del periodo lo portano lontano dalla frivolezza dello stile decorativo richiesto talora dai committenti, e l'uso della tonalità minore sembra esprimere proprio tale desiderio segnato da inquieta introspezione. Nonostante alcune aperture, l'impressione che resta ascoltando il primo movimento della K.183 è infatti il predominare di un'atmosfera drammatica e di un impeto che - in seguito - Mozart smorzerà fondendo serenità e tristezza, luci ed ombre in quel mirabile equilibrio che tutti conosciamo. Basti confrontare questo esordio così netto e oserei dire quasi tagliente con il clima di soffusa malinconia delle prime battute della K.550 scritta quindici anni dopo. Una sinfonia, la K.183, che segna quindi la fine dell'adolescenza e insieme una svolta verso la maturità artistica, sia per la padronanza delle strutture compositive che per l'intensa volontà del giovane musicista di dar voce più compiuta e autentica alla propria anima.
Ho sempre pensato - e chissà quanti di voi si sono trovati a fare la stessa considerazione - che gli oggetti che ci circondano, da quelli di uso quotidiano ad altri più significativi, non siano in realtà semplici oggetti, ma si carichino talora del nostro vissuto per restituircelo. Possono essere soprammobili, stoviglie o magari indumenti che si sono legati a noi per un particolare ricordo insito in loro o relativo alla circostanza per cui ne siamo venuti in possesso.
Così anche una sciarpa, un piatto o un grembiule possono assumere valenze inusitate che ci riportano non soltanto a un evento registrato nella memoria, ma proprio all'intensità del nostro vissuto e allo stato d'animo che la loro presenza ci consente di ripercorrere. In realtà, sono percezioni nate dalla soggettività della nostra esperienza che proiettiamo su di essi, ma talora fanno sì che tali oggetti ci accompagnino nel nostro quotidiano con una sorta di segreto sorriso che sa davvero rendere vivo anche il passato.
Tutto questo per dire che ho un grembiule da cucina che indosso in particolari occasioni e soprattutto quando, appunto, ho bisogno di tornare a sorridere. Ti basta così poco? dirà qualcuno. No, non basta, però un oggetto ha una tale immediata concretezza che a volte può dissipare qualche piccola nube e insieme predisporre alla gioia.
Ha il fondo chiaro il mio grembiule - ne vedete un dettaglio nella foto - e porta disegnata sopra una grande Tour Eiffel grigia con accanto un mazzo di sgargianti rose rosse, insieme al frontespizio di una delle prime copie del quotidiano francese "Le journal de Paris". Ma per quale motivo mi piace tanto? Perchè è legato al luogo e al momento in cui lo avevo acquistato diversi anni fa: un grande magazzino di oggetti per la casa nel centro di Milano dove vado spesso e dov'ero passata anche quella sera, sotto Natale. Ero sola, avevo tempo e così, con la mente alle cene delle vicine feste, avevo comprato una bella tovaglia bianca con ricamo à jour e poi, girellando tra gli scaffali, avevo adocchiato il grembiule. In realtà non mi serviva, ma costava poco e appagava lo sguardo insieme a qualcosa di più. Sono sempre stata un tipo sobrio, ma quella vivacità sgargiante e un po' originale colmava un desiderio segreto di più aperta allegria, quasi la serenità che covavo in cuore quella sera avesse bisogno di manifestarsi all'esterno concretizzandosi in un oggetto che la esprimesse.
Così, senza esitazione lo avevo comprato ed ero uscita dal negozio piena di gioia, nell'atmosfera di vivace animazione che precede le vacanze di Natale nella quale mi ero immersa senza fastidio per la confusione, ma col mio piccolo bagaglio orientato a preparare la festa. Poi, nel tempo, pur tenendolo un po' da conto l'ho usato diverse volte e anche ora, a distanza di alcuni anni, è come se mettendomelo potessi in qualche modo indossare la gioia di quella sera d'inverno.
E proprio la Tour Eiffel che giganteggia sul grembiule mi ha ispirato il pezzo di oggi, una musica francese naturalmente. Così sono tornata a Charles Gounod (1818 - 1893)e alla dolcezza accattivante delle sue composizioni scegliendo "Les Nubiennes", primo brano della Suite per balletto aggiunta nel 1869 alla versione originale del "Faust". Si tratta di un valzer delicato e ricco di freschezza che, pur nella sua semplicità, si fa trascinante e riesce a portarci via con sè nel suo ritmo di danza. Il tema ha un andamento talora ripetitivo, ma direi che proprio questo suo carattere, lungi dal creare monotonia, ci consente di entrare nel vivo della musica con progressiva intensità. E mi ci vedo mentre seguo il ritmo di queste note avvolta in quel grembiule, volteggiando elegantemente per la cucina col mestolo in mano e inanellando sogni che solo la musica può regalare.
Prendo spesso il treno, chi mi conosce lo sa. L'ho scritto alcune volte anche in questo blogdicendo che nella dimensione del viaggio mi sono sempre ritrovata come a casa mia. Sarà perchè mio nonno paterno - che purtroppo non ho conosciuto - era capostazione, ma qualcosa da lui devo aver ereditato se il mondo delle ferrovie mi è così familiare.
Ciò non toglie che di questi tempi - tra scioperi, ritardi e cancellazioni improvvise - viaggiare non sia sempre piacevole. Ma al di là di tali disagi, a volte mi capita di notare anche alcune incongruenze, cose da poco in realtà che però francamente non so motivare. Si tratta di annunci un po' strani. Ve ne riporto due il primo dei quali risale a qualche mese fa.
"Il treno delle 13,21 per Pavia partirà dal binario 1 invece che dal binario 4."
Dove mai sta l'incongruenza? mi direte. L' avviso è chiaro e preciso quanto basta. Peccato però che venisse diramato alle nove del mattino...e tutti i santi giorni in cui mi trovavo in stazione a quell'ora, sentivo l'altoparlante annunciare immancabilmente il cambio di binario per chi intendesse partire alle 13,21. Ora mi chiedo quale idea abbiano le ferrovie dei propri passeggeri. Forse quella di soggetti ansiosi che, per timore di perdere il treno, si recano in stazione minimo quattro ore prima? Ce ne sono, per carità: un mio zio, ultimo nato del nonno capostazione, era così, ma mica tutti...
Oppure le ferrovie ci considerano tanto disimpegnati e svagati da non consultare un orario o da fare una sola cosa al giorno: di conseguenza, se oggi prenderò il treno, tutta la giornata dovrà ruotare attorno a questo considerevole evento e allora non è affatto strano che alle nove del mattino si venga informati di un cambio di binario alle 13. Questa sì che è solerzia, che dite?...Dev'essere proprio così, altrimenti qualcosa non torna.
Il secondo esempio è di questi ultimi giorni. L'annuncio stavolta arriva di pomeriggio, nell'ora sonnolenta in cui preferirei abbioccarmi sul divano e invece a volte sono in stazione sperando che il mio treno sia puntuale, per fiondarmici dentro a dormicchiare sotto il tiro di un'aria condizionata da ghiacciaia. Ma prima che il mio locale arrivi, in mezzo ai vari avvertimenti, dall'altoparlante risuona sempre la seguente informazione:
"Il pullman sostitutivo del treno delle 14,30 per Cremona è previsto in partenza dalla postazione in cui è stato previsto".
Chiaro, eh??? La prima volta sono rimasta un attimo interdetta chiedendomi se avessi sentito bene. Nei giorni successivi mi sono resa conto che l'avviso è registrato quindi sempre uguale, incongruenze comprese: non un indirizzo, una via, un banale dal piazzale della stazione giusto per chi fosse nuovo del posto, anche se un pullman si vede...Alla fine però ho riso perchè mi è venuto in mente il film con Totò e Peppino a Milano e la famosa battuta:
"Per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?".
Ecco,più o meno siamo lì e quell'avviso potrebbe essere la risposta adeguata alla stravaganza della domanda.
Così, agli annunci incoerenti e alla disimpegnata divagazione che vi ho ammannito oggi, adatta solo a una giornata torrida come questa, ho scelto di associare un altrettanto bizzarro brano di Mozart. Si tratta dell'ultimo tempo, "Presto", dal Divertimento in Fa Maggiore "Ein musikalischer SpaßK.522", detto anche "I musicanti del villaggio". Sì, proprio uno spasso, uno scherzo musicale che rimanda alla vena ludica del Mozart più leggero. Ma non è solo gioco, qui ci sono anche ironia e sarcasmo. Infatti il compositore fa il verso ad alcuni suoi colleghi enfatizzando banalità, sentimentalismi, goffaggine ed errori di tanti gruppi orchestrali di paese.
Vi confesso che questo brano NON mi piace. È scandalosamente ripetitivo, gli archi e gli ottoni a volte sono calanti, altre volte sparano troppo, e se riuscite ad arrivare alla conclusione senza tentazioni omicide nei miei confronti, sentirete gli accordi finali così stonati che più non si può. Allora perchè lo pubblico? Perchè c'è aria di vacanza, fa un caldo spaventoso e soprattutto - lo avrete già capito - questo di oggi è un post demenziale.
Ma insieme mi piace testimoniare che, nella poliedricità del suo genio, Mozart ha scritto anche brani parodistici: ironie e sberleffi fatti da chi della musica aveva però una conoscenza perfetta. Il Presto infatti per le sue trovate armoniche potrebbe essere anche un pezzo di bravura, ma proprio perchè lo scopo è una presa in giro, è volutamente esagerato e privo di quel misurato equilibrio che è la cifra dello splendore mozartiano in tante altre opere, divertimenti compresi.
Elegante
e sofisticata la protagonista del dipinto di oggi, anche se un po'
lontana da noi come certe immagini di copertina patinate che ammiriamo
sì, ma con un certo distacco. Eppure, è senza dubbio ricca di fascino la
donna che vediamo ed efficacissimo questo "Autoritratto sulla Bugatti verde" di Tamara de Lempicka (1898
- 1980), artista di madre polacca e padre russo, come russo sarà il primo marito dal quale prenderà il cognome. Da San Pietroburgo poi, per sfuggire alla rivoluzione del 1917, la vita la porterà in esilio a
Parigi dove verrà a contatto con i movimenti e le avanguardie del primo
Novecento.
Della pittrice tanto è stato già scritto, come del dipinto che vedete, uno dei più rappresentativi,
commissionatole nel 1929 da una rivista tedesca per celebrare
l'immagine della donna moderna e attualmente conservato in Svizzera presso una collezione privata. Sul piano stilistico vi si legge l'influsso del Cubismo nelle volumetrie così come nella geometrizzazione delle forme, mentre il tema della donna al volante ci riporta al Futurismo con l'automobile e il mito della
velocità. Ma a parte questo, è proprio la rappresentazione della figura femminile a
colpirmi, perchè si distacca nettamente da quella dei pittori di fine Ottocento.
Se consideriamo la donna vista fuori dalle mura domestiche, per esempio nel dipinto di Mary Cassatt "In the lodge" che risale a cinquant'anni prima e che vedete qui a lato, nonostante l'aria di nonchalance della
protagonista, essa ci risulta familiare e nel suo gesto di osservare col binocolo gli spettatori a teatro, in fondo, ci riconosciamo. Di atteggiamento più indipendente è quella raffigurata da Corcos nel 1896, nel famoso dipinto intitolato "Sogni" che trovate sempre qui accanto.
Ma nonostante questo, il contesto in cui è inserita non presenta elementi di novità o di rottura rispetto al passato. Significativa è la presenza dei libri che indicano in lei una lettrice, ma non si tratta
di un dato di per sè nuovo nel tempo.
La
donna di Tamara de Lempicka, nella quale la pittrice rispecchia se stessa, è invece molto diversa: è pienamente
al pari con la sua epoca in cui già da vent'anni si era affermato il Futurismo e in qualche modo più lontana dalla quotidianità. Non è solo sicura ed emancipata, ma ci appare quasi altera nello sguardo e nell'eleganza raffinata e curatissima: dal rossetto sgargiante al casco da guida allacciato sotto il mento, ai morbidi guanti che salgono oltre il polso.
E soprattutto non è al volante di una macchina qualsiasi, ma di un'automobile da corsa, una Bugatti, azienda fondata - guarda caso! - proprio nel 1909, anno di nascita del movimento futurista che della velocità dell'automobile fa uno dei miti da contrapporre all'arte antica ritenuta obsoleto vecchiume.
Così pure, i tratti di pennello nelle compatte campiture di colore delle superfici, nella plasticità delle forme e nella brillante gradazione di verde della carrozzeria dell'auto, ci riportano all'Art Déco che proprio negli Anni Venti celebra il lusso e le innovazioni del nuovo secolo.
Quindi, un'immagine spregiudicata di potere e di ostentata ricchezza. E tuttavia, osserviamo il volto di questa donna perchè mi colpisce l'espressione del suo sguardo.
È proprio altero o vagamente annoiato? O entrambe le cose? Nei tratti quasi scolpiti della sua fisionomia come nel taglio degli occhi e nel disegno sottile delle sopracciglia, compare certo un senso di freddezza e di distacco; ma vi si legge anche una sorta di segreta malinconia. Non sorride Tamara in questo autoritratto, ma la donna moderna che essa qui rappresenta sembra esprimere un senso di noia o di vago scontento, emanando un fascino iconico forse proprio per questo suo mistero.
Un'immagine curatissima anche nell' elegante drappeggio della sciarpa sul collo e in quella ciocca di capelli che fuoriesce dal casco di pelle. Dettaglio vezzoso ad accrescere lo charme di un'acconciatura alla moda o segno calcolato di noncurante negligenza?
Chissà!... A me però, nonostante si tratti di contesti molto lontani e molto diversi tra loro, quel piccolo particolare fa affiorare dalla
memoria il riferimento a un'altra donna del passato dalla vicenda travagliata narrata dal Manzoni, quasi a suggerirmi la strada percorsa nei secoli in
termini di emancipazione.
E quale musica associare all'autoritratto della Lempicka? Confesso che la ricerca non è stata facile e alla fine mi sono orientata su di un brano nato in un contesto diverso dal mondo della pittrice. Si tratta del "Preludio n.1 in Si bemolle Maggiore"di George Gershwin (1898 - 1937), brevissimo pezzo per pianoforte solo, composto nel 1926 e che ho scelto per il piglio sensuale e al tempo stesso grintoso che mi pare in sintonia con l'immagine del dipinto.
È stato proprio l'esordio del preludio a prendermi, con quelle note scivolate e accattivanti che vedete qui accanto e che costituiscono il tema, prima veloci e poi più lente nell'indugiare della corona. E subito dopo accordi fortissimi e scattanti, passaggi ribattuti che ricordano un po' la "Rapsodia in blu": una grinta, insomma, che in qualche modo si accorda con l'atteggiamento disinvolto e sicuro della donna al volante, consapevole del proprio fascino sensuale. Una musica che unisce un motivo blues all'atmosfera jazz col suo ritmo sincopato: note che possono addentrarsi ora insinuanti e morbide, ora più irruenti, nell'enigmatico sguardo della pittrice.
In tanti anni di blog, quando mi è stato possibile, navigando su youtube ho cercato di pubblicare esecuzioni dal vivo perchè mi è sempre parso importante non solo ascoltare la musica, ma vedere insieme quanto essa si disegni sui volti degli interpreti rivelandone una ricca gamma di emozioni. Non sempre ho potuto farlo per svariati motivi: registrazioni disturbate o imperfette, performances non proprio eccellenti o meno significative rispetto ad altre e via dicendo. Dove però youtube me ne ha dato l'opportunità, le ho pubblicate perchè le riprese in video sono spesso fascino aggiunto a fascino.
Interessante osservare chi dirige ora con gesto imperioso, ora pacato o talvolta solo con lo sguardo e un cenno del capo; chi usa la bacchetta e chi invece il movimento delle mani. Coinvolgente cogliere la partecipazione degli esecutori nelle espressioni dei loro visi spesso concentrati e immersi a tal punto nella musica da diventare una cosa sola con essa. Se poi il brano è cantato, chi mette in gioco la propria voce talora ci offre un'empatia ancora più profonda. Vedere la Callas o Pavarotti mentre cantavano ci dà molto più del semplice ascolto. Ma spesso sono anche i gruppi corali a farci entrare nel cuore di un brano, condividendo con intensità le emozioni che esso fa affiorare in loro. Se ne avete voglia, guardatevi i due video seguenti, a questo riguardo uno più bello dell'altro: nel primo, coro e fedeli cantano un inno natalizio nella cattedrale di Londra, e nel secondo Marc Minkowsky dirige orchestra e coro in un pezzo sacro di Haydn.
Che dire poi delle reazioni del pubblico? A volte è serio e compassato quasi fosse - come dice una mia amica - nell'anticamera del vescovo; altrove, complice un insieme di fattori quali l'indole, le abitudini e il luogo, si scatena in un entusiasmo da stadio sfrenato e contagioso come nel Mambo di Leonard Bernstein diretto da Dudamel.
Tutto questo discorsino per presentare il video di oggi che, nell'esecuzione di una melodia di Jean Philippe Rameau (1683 - 1764), ci mostra anche i volti degli interpreti sui quali si disegna una gamma di emozioni pacatissime e profonde ma non meno incantevoli di altre. Si tratta dell'aria "Tendre Amour" da "Les Indes galantes", celebre opera del compositore francese che rappresenta una serie di racconti ambientati in luoghi esotici sempre diversi tra loro, ma legati da un tema. Nel caso della melodia di oggi, il tema è l'amore cantato nella sua dimensione spirituale ma anche sensuale, in un'atmosfera delicata e insieme ricca di passione che esalta il sentimento con dolcezza struggente.
Ma al di là delle splendida musica della quale avete le note iniziali nella foto in alto, quello che mi colpisce e che il video mette in evidenza è la serie di espressioni che cogliamo sui volti di coristi e strumentisti a cominciare dal direttore. La lunga introduzione orchestrale prima che esordisca il coro ci consente di osservarne gli atteggiamenti. Nella varietà degli sguardi che esprimono ora dolcezza, ora concentrazione, ora una compresa serietà o - qua e là - lievi sorrisi d'intesa, emergono differenti fisionomie, ma da ciascuna di esse affiora il senso di una musica profondamente interiorizzata. Complice anche la posizione del coro e del direttore che le riprese ci mostrano molto vicini gli uni agli altri, cogliamo lo splendore di un gruppo unito dalla gioia pacata e profonda del far musica insieme.
E mentre la melodia sale e le diverse voci si sovrappongono, quello che avvolge ciascun corista - e che anche noi percepiamo - è un senso di estatica contemplazione.
Di norma, nella storia della musica, i compositori vengono classificati come rinascimentali, barocchi, classici, romantici ecc. a seconda che la maggioranza delle loro opere s'inquadri nello stile e nel contesto di un certo periodo. Tuttavia, ciò non toglie che ognuno di essi si sia espresso con una libertà che talora esula da catalogazioni libresche per guardare al passato o precorrere invece un futuro ancora sconosciuto.
Per questo motivo, a volte possiamo avere delle sorprese. Qualche esempio? Pensiamo alla sconvolgente modernità dei "Madrigali" di Gesualdo da Venosa vissuto tra il Cinquecento e il Seicento. Oppure al brano introduttivo de "La Creazione" di Haydn che, se non conoscessimo l'autore, saremmo tentati di attribuire ad un musicista di fine Ottocento tanto è ricco di suggestioni nuove. Ma pensiamo anche a Beethoven e alla sua "Sonata op.111" che nel secondo movimento anticipa addirittura il ritmo del boogie-woogie!
Insieme allo stile, tuttavia, sono anche i sentimenti e le emozioni a conferire particolare espressività a certi brani e in questo senso si può affermare che quasi tutti i compositori abbiano nel loro DNA una gamma di sfaccettature molto più ampia dei caratteri in cui vengono abitualmente incasellati. Qualche esempio anche qui? Pensiamo a Rossini celebre per il brio e l'allegria di tante opere, ma se ascoltiamo il "dum pendebat Filius" del suo "Stabat Mater", troviamo una tragicità che mette i brividi. Pensiamo a Bach che, famoso per la severità e il rigore matematico dei suoi brani, ha pezzi danzanti e in qualche caso addirittura giocosi. Ma non possiamo dimenticare Mozart che ha toccato svariati tasti - è proprio il caso di dirlo - nell'ambito delle nostre percezioni: dalla leggerezza di divertimenti e sinfonie al magico incanto di serenate e concerti, alla malinconia struggente di tantiadagi, fino alla potenza tragica del "Requiem" con i singhiozzi del Lacrimosa. E come talora ha guardato indietro, qualche volta ha anticipato il futuro.
Così almeno mi è parso scoprendo il brano di oggi: la "Piccola Giga in Sol Maggiore K.574", composizione giocosa e funambolica che mi sono meravigliata di non aver mai pubblicato in tanti anni di blog. Per prima cosa il pezzo ci riconduce al passato. Il termine giga, infatti, in campo squisitamente musicale indica una vivace danza in tempo ternario tipica della musica barocca che troviamo in Bach, Haendel e non solo.
Proprio da Haendel pare che qui Mozart abbia preso ispirazione, in particolare dall'ultimo tempo della "Suite n.8 in fa minore HWV 433". Se ci fate caso, l'esordio è simile, anche se poi il compositore salisburghese prosegue con maggiore libertà. Le tre voci che s'intrecciano nel brevissimo pezzo sembrano riprodurre un gioco di bambini che saltellano, s'inseguono in allegria o si lanciano in una danza sfrenata, e l'interpretazione di Alexander Lonquich ne rende con efficacia l'andamento fatto di ritmo, vivacità e leggerezza. Anche l'immagine della clip audio - "Il funambolo" di Paul Klee - ci mostra molto opportunamente un acrobata in equilibrio sul filo mentre lo circondano aeree scale affacciate nel vuoto.
Altrettanto funambolico è il celebre dipinto di Joan Mirò che vedete in alto e che ho voluto associare alle note di questo brano. S'intitola "La ballerina" e l'autore, nella sua visione surrealista, ne ha reso il movimento attraverso figure geometriche e notazioni musicali. Non c'è una danza, ma l'essenza stessa della danza, rappresentata da sottili cerchi intrecciati e da un corpo stilizzato che può ricordare una chiave di violino dove il ricciolo interno inizia dal cuore. In realtà, nella parte alta mancherebbe un pezzetto...ma lo possiamo aggiungere con la fantasia, non è così?
Bene. Ma, se guardamo alle note, dove esattamente il brano di Mozart anticipa questo movimento un po' bizzarro esprimendosi con tratti più moderni rispetto al classicismo della sua epoca? Se fate caso al susseguirsi delle terzine, vi accorgerete che a un certo punto c'è una sfasatura di ritmo perchè gli accenti, che di solito vanno sulla prima nota della terzina, si spostano. La cosa è più facile da sentire che da spiegare perchè in alcuni passaggi tale sfasatura è molto evidente all'ascolto. Sembra infatti che per qualche istante il percorso del tema non sia più prevedibile e una certa stabilità venga meno: effetto splendidamente calcolato da un compositore capace di padroneggiare così bene l'equilibrio delle note da permettersi di fingere di perderlo. Sta proprio qui - a mio modesto avviso - il Mozart più moderno, in questa libertà di oltrepassare regole che conosce benissimo, in una sintassi musicale giocata sugli equilibrismi proprio come un acrobata che si affaccia sul vuoto.
Lo sguardo femminile di questo mese ci conduce in un teatro d'opera. Siamo a Parigi e autrice del dipinto che vedete è Mary Cassatt (1844 - 1926),artista statunitense trasferitasi a soli 29 anni in Francia. Qui è venuta a contatto col gruppo degli Impressionisti - in particolare con Degas - aderendo alle novità di cui essi erano portatori, tanto da meritare un posto di rilievo tra le pittrici che li attorniavano insieme a Berthe Morisot e a Eva Gonzales. Come per le altre artiste, oggetto dei suoi quadri è stato spesso l'universo femminile colto non solo all'interno delle mura domestiche e delle relazioni familiari - celebri, a tal proposito, i suoi dipinti incentrati sul rapporto madre-figlio - ma raffigurato anche nei luoghi di ritrovo esterni alla famiglia, nei limiti di ciò che all'epoca era consentito alle donne. Il teatro era appunto uno degli ambienti più frequentati anche dal pubblico femminile e Mary Cassatt vi ha inquadrato diverse opere tra le quali questa che vedete, intitolata "In the lodge" e conservata presso il Museum of Fine Arts di Boston.
Che cosa rappresenta? In primo piano, ritratta di profilo, vediamo una donna elegante in abito scuro che, appoggiata alla balconata del palco, osserva col binocolo ciò che ha davanti; ma insieme, sullo sfondo, si apre un ampio scorcio di pubblico dove, in uno degli altri palchi, un signore sembra a sua volta puntare il binocolo su di lei. Una raffigurazione di ambiente, ma in realtà un gioco di sguardi che può avere molteplici sottintesi: interesse o semplice curiosità da una parte, indifferenza dall'altra, ma forse anche il piacere di guardare ed essere guardati, chissà! E la scena coinvolge anche noi che - sia pure dall'esterno - la osserviamo tentando di annodare fili di ipotetiche storie e addentrandoci nella sostanziale novità di tale iconografia.
Bella, raffinata e sicura ci appare la donna, certo esponente dell'alta borghesia, nel suo abito scuro, gli orecchini lucenti e il ventaglio nella sinistra. Con la destra regge il binocolo mentre il suo sguardo attento sembra tradire un lievissimo sorriso, quasi stia appagando una sorta di curiosità sottile, segreta e un po' golosa. Viene il dubbio che oggetto della sua attenzione non sia lo spettacolo che si svolge sul palcoscenico, ma l'insieme degli spettatori o qualcuno di essi in particolare.
Oltre alla capacità di introspezione psicologica dimostrata dalla Cassatt, nell'opera è proprio quest'ultimo aspetto a colpirmi: il fatto che l'attenzione della pittrice sia focalizzata solo sul pubblico. Ma anche ipotizzando che la protagonista del dipinto stia davvero guardando la rappresentazione, non vediamo comunque ciò che accade sulla scena e ne deriva un esempio accattivante di spettacolo nello spettacolo. Insieme alla tecnica pittorica dal tratto sintetico ma espressivo che si osserva nel dettaglio qui a lato, dalla lezione impressionista la Cassatt ha preso dunque la tendenza a rappresentare il pubblico di un evento più ancora che l'evento stesso. Tendenza realistica che fa balzare in primo piano la classe borghese della seconda metà dell'Ottocento, colta nei suoi luoghi di ritrovo, nelle sue abitudini e nei suoi svaghi.
Lo notiamo in diversi altri esempi da Renoir a Manet del quale - a tale proposito - è rappresentativo "Il balcone" che vedete qui a lato e che precede di una decina d'anni il quadro della Cassatt. Anche in quest'opera - ispirata peraltro a un dipinto di Goya - Manet non ha raffigurato ciò che una delle due donne sembra osservare avidamente e che immaginiamo possa essere un corteo o una parata nel boulevard sottostante, ma ha incentrato il dipinto proprio sulle persone al balcone: sui loro sguardi, sugli atteggiamenti e - perchè no? - sull'esibizione di un abbigliamento elegante che mette in evidenza la loro posizione sociale. Il salotto di casa si apre così ai viali della città dove vedere, ma soprattutto essere visti, diventa una sorta di must del momento nella società che i pittori dell'epoca rappresentano.
È a questo clima un po' mondano e salottiero che si ispira la musica di oggi: la "Valse nonchalante in Re bemolle maggiore op.110" per pianoforte solodi Camille Saint-Saëns (1835 - 1921). Si tratta di un pezzo molto amato dal compositore che lo aveva scritto nello stile dei brani da caffè-concerto, una melodia seducente e dall'architettura lieve che è stata oggetto di varie trascrizioni anche orchestrali. Il tema si apre lento per animarsi con leggerissimi arpeggi e divenire più agitato, alternando poi a parti colme di passione altre più pacate che digradano infine verso il pianissimo. Un valzer che ci avvolge in un vortice di accattivante dolcezza con un passaggio a 2,48 dall'inizio che, sia pure lontanamente, può ricordare Chopin.
Tuttavia, al di là del carattere un po' frivolo del brano, ad orientare la mia scelta non è stato solo un dato musicale, ma insieme l'aggettivo nonchalante presente nel titolo. Trovo infatti che il termine che Saint-Saëns traduce in note si adatti molto bene all'immagine della donna col binocolo: il suo atteggiamento rivela infatti quella sicura e disinvolta noncuranza che la rende attraente e fa in buona parte la bellezza di questo dipinto.