domenica 30 novembre 2025

Nei segreti anfratti del cuore

Nelle mie quotidiane peregrinazioni su youtube in cerca di musica, nei giorni scorsi mi sono imbattuta in una raccolta che già conoscevo e della quale avevo pubblicato tempo fa qualche brano.

Si tratta dei "Pezzi lirici" di Edvard Grieg (1843 - 1907): sessantasei brevi composizioni per pianoforte solo, tese a cogliere sensazioni e stati d'animo diversi o a descrivere la natura o eventi di colore locale. Basti osservare alcuni titoli - Illusioni, Elegia, Giorni svaniti, Danza norvegese, Verso la patria, Il piccolo mandriano, Ruscello, Sera d'estate - per rendersi conto della varietà di ispirazione del musicista che, con tocco leggero, va a scandagliare la realtà circostante o i propri moti d'animo facendone una sorta di diario in note.

Il pezzo che ho scelto oggi è il n.6 op.57 del VI libro della raccolta ed è intitolato "Homesickness", nostalgia di casa o - letteralmente - malattia di casa quasi che la lontananza possa suscitare un anelito così inquieto da diventare patologico. 
Il brano si articola in tre parti. La prima è costituita da un lento Andante in Mi
minore: una melodia semplice, arricchita dagli accordi talora dissonanti della mano sinistra che ne sottolineano l'afflato malinconico e da un riecheggiare di note che le conferisce fascino e spessore. Segue una sezione centrale in Mi maggiore più luminosa, ma soprattutto più leggera nella sua vivacità giocata sulle ottave più alte, mentre la parte conclusiva torna a ripetere il mesto tema iniziale. 
Tre sezioni che mi sembrano riprodurre prima il senso di tristezza e
 solitudine di chi è lontano da casa e ne avverte la nostalgia; poi il ricordo o più ancora il sogno di una felicità agognata, attraverso note che evocano immagini di festa imitando un lieve e scintillante scampanellìo. Ma la visione svanisce presto e infine la musica torna a disegnare una realtà fatta di mestizia.

Ma perchè mai questo brano mi ha affascinato?
Sarà stato forse il freddo già invernale degli ultimi giorni o il Natale verso cui ci stiamo avviando
a suscitare in me un acuto desiderio di intimità. Una sensazione che non vivo solo sul piano personale, ma che immagino anche nelle tante persone che, per motivi di lavoro, di salute o altro, sono lontane da casa e per le quali il bisogno del proprio ambiente familiare, fatto di affetti e insieme di luoghi del cuore, in questo periodo si fa più pungente. Nostalgia di casa, che significa desiderio di essere accolti nel profondo, di ricordi nei quali riposare l'anima e di ritorno a se stessi, alla ricerca di quella gioia di vivere oserei dire primordiale forse dimenticata o nascosta.

Una casa a cui tornare come chi arriva da un lungo cammino, a somiglianza del viandante che vedete in alto nel dipinto di Marc Chagall intitolato "Sopra Vitebsk", in volo sul villaggio con la sua bisaccia, la sua stanchezza e certo il desiderio inquieto di un approdo. Una figura errante in una rappresentazione fiabesca che, al di là delle varie interpretazioni sulla sua identità - lo stesso Chagall costretto a lasciare il proprio paese di origine per motivi politici e razziali, o forse il profeta Elia venuto a portare doni - può simboleggiare tutti noi nella ricerca di un porto a cui ancorare la nostra precarietà. 

Nel dipinto di Chagall non sappiamo bene se il viandante in volo stia tornando al suo paese o ne stia ripartendo come varie volte è accaduto proprio al pittore, ma la silenziosa coltre di neve che ammanta il villaggio e la delicatezza dei colori ci regalano un'aura di intimità che riconduce al mondo delle fiabe della nostra infanzia.
Allo stesso modo, le note più vive della parte centrale del brano di Grieg dove nel ritmo puntato della mano destra brilla una luce festosa, per qualche momento ci aprono a un sogno mai sopito, a quel desiderio di casa radicato da sempre nei segreti anfratti del cuore. 

 Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

sabato 22 novembre 2025

Lo stupore di Cecilia

'È opera del viterbese Giovanni Francesco Romanelli (1610 - 1662) il dipinto che vedete - conservato a Roma presso i Musei Capitolini - e che rappresenta "Santa Cecilia". 
Le date ci dicono che siamo in piena epoca
barocca ma, se anche non lo sapessimo, ce lo suggerirebbero vari elementi: dalla raffinatezza ariosa del panneggio e del copricapo agli alberi e al cielo dello sfondo; dalla morbidezza dell'incarnato - osservate la grazia della mano sinistra! - fino all'elegante inquadratura che riprende la Santa in una torsione ormai lontana dagli schemi della ritrattistica del passato. 

In effetti l'autore, formatosi alla scuola di vari rappresentanti dello stile barocco tra cui Domenichino e Pietro da Cortona, si colloca tra gli esponenti più in vista della pittura dell'epoca sia a Roma che in Francia. La sua fama gli aveva meritato inoltre il soprannome di "Raffaellino" probabilmente per la dolcezza del suo tratto che potrebbe ricordare lo stile del famoso urbinate.

E in che modo Romanelli raffigura qui la Santa protettrice della musica e dei musicisti? La dipinge accanto a un violino, seguendo una tradizione che attraversa il tempo e che la vede accanto a uno strumento, molto spesso un organo, talora un violoncello oppure un liuto. 
Tuttavia, quello che mi colpisce nell'immagine è lo sguardo di Cecilia rivolto altrove. Ha
 in mano un rotolo che probabilmente è uno spartito, tocca il violino quasi avesse appena finito di suonare e dovesse riporlo, ma il suo sguardo è assorto, fisso in un punto indefinito forse a ripercorrere nel cuore la musica suonata e le emozioni che essa vi ha suscitato. 
O forse da quel punto indefinito la Santa sta guardando in se stessa attingendo alla
misteriosa fonte dell'ispirazione. La sua è infatti l'espressione di chi medita, ma nei suoi occhi possiamo scorgere anche un lampo di meraviglia, un lieve sorriso venato di commozione, una luce di stupore come di fronte a una realtà superiore da cui è presa e rapita. È proprio quella realtà l'oggetto cui volgersi, la sorgente primaria alla quale attingere mentre il violino e lo spartito sono i mezzi attraverso i quali la luce della musica prenderà poi forma.

Con quale melodia allora renderle omaggio nel giorno della sua festa? Con un brano di un autore nuovo per questo blog. Si tratta di John Eccles (1668 - 1735), compositore inglese famoso per aver scritto molte musiche di scena oltre a un' "Ode per il giorno di Santa Cecilia"...che tuttavia - la Santa mi perdonerà! - non pubblico. Non perchè non sia bella, ma perchè mi affascina maggiormente il pezzo che invece ho scelto. 

Si tratta di un' Aria - quinto movimento dalla Suite "The Mad Lover", l'amante pazzo - in cui Eccles ha musicato la tragicommedia di John Fletcher, centrata sull'uso dei suoni e delle immagini nel curare certe forme di follia o di depressione. Lunga è a questo proposito la tradizione che vede la musica come una vera e propria cura della psiche: dal giovane Davide che nella narrazione biblica suonava l'arpa per placare lo spirito cattivo di Re Saul, al mito di Orfeo, fino alle acquisizioni più moderne della musicoterapia. Ma potremmo anche ricordare le Variazioni Goldberg che - se  è vero ciò che i testi affermano - Bach avrebbe scritto per distrarre il conte Von Keyserling dall' insonnia. Del resto, di tale potere dei suoni tutti avremo fatto esperienza almeno una volta nel corso della nostra vita, per questo un brano simile mi sembra l'omaggio più centrato che si possa fare alla Santa.

Della quinta Aria della Suite vi riporto dunque due versioni: quella originale e una molto più recente per pianoforte solo che - vi confesso - è la mia preferita. Si tratta di una trascrizione semplice sul piano tecnico, ma tutta affidata alla capacità interpretativa di chi la esegue. Ne emerge un ritmo che dalla calma iniziale va crescendo di intensità fino ad animarsi in un vortice sempre più veloce mentre la melodia si ripete in varie sfumature diverse. 
Ed è forse il ruolo di tale ripetizione quello che talora agisce su di noi con una sorta
 di funzione terapeutica, perchè ci consente di entrare più vivamente all'interno della musica e diventare una sola cosa con i suoni facendo nostra la loro vibrazione. 

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

 

sabato 15 novembre 2025

Se lo sguardo è femminile - 11













Tra le opere delle artiste che nel corso del tempo hanno raffigurato altre donne, dopo averne pubblicate alcune ricche di gioiosa e ricercata eleganza, oggi ho scelto quelle di Käthe Schmidt Kollwitz (1867 - 1945), pittrice e scultrice tedesca che ci ha lasciato invece lavori decisamente crudi e drammatici, ma di schiacciante attualità.

In un arco di vita che comprende i due conflitti mondiali, la Kollwitz si è soffermata sul tema delle tragedie causate dalla guerra, focalizzando la sua attenzione sul lutto delle madri per la morte dei figli o sulla loro sofferenza. La maggior parte delle sue opere - sia che si tratti di litografie, xilografie o sculture - rappresenta infatti immagini angosciose di sopravvissuti logorati dalla fame e dall'orrore, insieme a madri strette in un abbraccio a difesa dei propri flgli o chiuse in un muto dolore di fronte alla loro morte. 

C'è molto di autobiografico in tali opere dato che la stessa Kollowitz aveva perso un figlio durante la prima guerra mondiale e del resto l'artista è sempre stata sensibile alle tante sofferenze del suo tempo. 
Lo testimonia la celebre "Pietà" che vedete qui
a lato, scultura in bronzo realizzata alla vigilia del secondo conflitto mondiale e conservata al Museo Kollwitz a Colonia, mentre una copia si trova alla Neue Wache di Berlino, monumento che commemora le vittime di guerra. Nel gruppo scultoreo, il legame viscerale col figlio morto è evidente nella posizione del suo corpo che sembra quasi rientrare nel grembo della madre tornando a far tutt'uno con lei.

Tuttavia, al di là del riferimento cronologico al lutto dell'autrice, il grido che riecheggia intensissimo dalle sue opere nella volontà di dar voce alla sofferenza, valica il tempo e riconduce alle tragedie che purtroppo si consumano ancora oggi in diverse parti del mondo. 

Solido e tenace l'abbraccio che vedete a lato nella xilografia intitolata "Le madri" conservata alla Tate Modern Art Gallery di Londra. Qui, tante madri fanno dei propri corpi una cosa sola, un blocco solidale a proteggere i loro piccoli. E come in altre opere, il contrasto tra bianco e nero dovuto alla tecnica usata si rivela efficacissimo per rendere l'immagine più incisiva in un espressionismo che cogliamo soprattutto nella raffigurazione di occhi e mani.

Gli stessi caratteri, ma più sfumati e addolciti dall'uso di una tecnica diversa vediamo nella foto grande in alto, disegno preparatorio di una litografia che doveva far parte della serie di sei tavole sulla guerra. Nella madre in primo piano che avvolge col suo abbraccio due bimbi, la Kollwitz ha rappresentato se stessa e i suoi figli in un'espressione di indicibile amore. Anche le altre figure femminili hanno un atteggiamento protettivo e ancora una volta, oltre ai volti, ci parlano le mani, grandi e talora sproporzionate mentre difendono i bimbi o, con gesto eloquente, coprono la faccia davanti all'orrore. 

Orrore che leggiamo anche nella xilografia qui a lato intitolata "I sopravvissuti". 
Sembra l'immagine di un
lager anche se la Kollwitz - invisa per le sue idee socialiste al regime hitleriano che le aveva tolto l'incarico di docente e le aveva impedito di esporre le sue opere - era riuscita a sfuggire alla deportazione. Sono visi scarni, figure di adulti senza più sguardo, bambini sui cui volti si legge la fame, e sempre in primo piano le mani di una madre serrate in un abbraccio protettivo.

E ad esprimere proprio la fame, efficacissima l'opera qui a lato intitolata "Brot!" (pane!), carboncino su carta conservato presso la Collezione Dorothy Braude Edinburg. Nella donna vista di schiena e curva su se stessa intuiamo il grido della disperazione, e così pure nel volto dei due piccoli dove pochi tratti appena accennati testimoniano il senso della tragedia e al tempo stesso la straordinaria potenza espressiva dell'artista nel rappresentarla. 

Uno sguardo forte e deciso il suo, perseverante e coraggioso, nel costante inabissarsi nei meandri del dolore umano. 
Uno sguardo che investe la sua arte, come lei
stessa ebbe a dire più volte: "Io devo esprimere il dolore degli uomini, un dolore che non ha mai fine e che ora è enorme. Questo è il mio compito, anche se non è facile assolverlo". E poi: "Non ho difficoltà ad ammettere che la mia arte ha uno scopo. Io voglio agire nella mia epoca, nella quale l'umanità è tanto priva di senno e bisognosa di aiuto". E ancora: "Il pacifismo non è un tranquillo stare a guardare, ma lavoro, duro lavoro".

Uno sguardo che desidero commentare con una musica che amo da tempo per il suo splendore e insieme per la toccante interpretazione del compianto Maestro Ezio Bosso. Si tratta della celebre "Melodia", parte centrale della "Danza degli spiriti beati" dall'opera "Orfeo e Euridice" di Christoph Willibald Gluck (1714 - 1787). 
Al di là del riferimento del brano orchestrale alla composizione in cui è inserito, mi hanno
 sempre colpito le tante trascrizioni per vari strumenti - e in particolare questa per pianoforte solo - che ne fanno un pezzo indipendente dal contesto originario. È proprio il caso dell'interpretazione di Bosso che lo include in una delle stanze del suo percorso esistenziale illustrato in note nell'album "The 12th Room" del 2015.
Qui, insieme ad alcuni suoi inediti, rielabora pezzi di Bach, Chopin, Cage e, appunto, 
la "Melodia" di Gluck. È un'aria delicatissima ma lontana da ogni tentazione romantica o sentimentale. Bosso ne fa emergere infatti una dolcezza spoglia, rigorosa, essenziale, simile a quella dimensione in cui dolore e amore vivono intrecciati. Drammaticità, tenerezza struggente, insieme alla malinconia del re minore coesistono in queste note dal ritmo lento la cui intensità Bosso calibra con l'anima prima ancora che con le dita. 
E mi fanno pensare all'amore tenace e disperato delle madri raffigurate dalla
Kollwitz, spiriti beati nel vero senso della parola per il loro cuore indomabile.

 Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

sabato 8 novembre 2025

Tonto

Chi mi legge probabilmente lo sa da tempo: amo molto i cartoni animati. Solo i più classici però, mentre non riesco ad abituarmi a quelli che presentano stili grafici più recenti e innovativi.

Sarà per età o perchè alcuni di questi film sono dei veri e propri capolavori, ma resto legata alla tradizione che per me porta in primis i nomi di Walt Disney e di Hanna & Barbera, anche se non mi dispiacciono autori come Fritz Freleng, creatore della celeberrima Pantera Rosa della quale - lo giuro - qualche volta parlerò. 
Non sto ad elencare la ricchissima produzione d
i tali autori: dico solo che il pregio di queste pellicole - sia film che serie televisive - è unire uno schietto divertimento a quella sorridente saggezza che fa bella la vita. 
Qualche esempio? 
Pensate a "La spada nella roccia" e alle preziose istruzioni di Mago Merlino a
Semola: a proposito, ne ho parlato neanche tanti anni fa qui. Oppure, passando a Robin Hood, gustatevi la tenera scena del compleanno di Saetta o la successiva in cui Lady Marian e Lady Cocca giocano insieme. Ma anche le sequenze in cui protagonisti sono Re Giovanni e Sir Biss, oltre a divertire, fanno riflettere perchè rispecchiano tratti di sconcertante attualità.

Tuttavia, il bello di queste pellicole è anche il fatto che, oltre ai caratteri dei personaggi, ci restano dentro certe battute che finiscono per entrare nelle nostre espressioni quotidiane. Per carità! Accade con tanti generi di film che ci impossessiamo di alcune frasi fino a usarle nel nostro linguaggio: da "Domani è un altro giorno" a "Francamente me ne infischio" o "Sono andato a letto presto" e via dicendo. 
Del resto è un'operazione che si verifica con tutto, dal cinema alla 
poesia fino al linguaggio televisivo: e se talora cogliamo la realtà circostante con gli slogan riduttivi della pubblicità, altre volte invece riaffiora dal profondo anche il dantesco "Non ti curar di lor..." o magari qualche simpatica battuta dei cartoni. Insomma, dati ormai acquisiti tanto che la mia osservazione rasenta la banalità. Ma mi ci soffermo perchè qualche sera fa mi è accaduta una cosetta un po' singolare.

Stavo uscendo dal pronto soccorso dopo un ricovero lampo per un problema poi risolto - tranquilli, sto bene! - e decisamente risollevata dopo una giornata difficile. Ho guardato l'orologio, si era fatta l'una di notte e aspettavo stanca che mio marito venisse a prendermi. Ma quando nel buio ho finalmente avvistato la luce dei fari dell'auto, invece di un moto di gratitudine per il brav'uomo che sotto la pioggia battente veniva a raccogliere i cocci della moglie, il primo impulso che mi è uscito dal cuore è stato il grido di Tonto nella celebre sequenza di Robin Hood: "È l'una di notte e tutto va bene!".

Tonto...ve lo ricordate? Ma certo! Il simpatico e sciocco avvoltoio che insieme a Crucco fa la guardia al servizio dello sceriffo. Poi nella pellicola non tutto va per il meglio, ma quella frase, rimastami in testa da tempo, riaffiorava ora ad allentare la tensione della giornata e a restituirmi il sorriso. E mi è risuonata dentro proprio come è gridata nel film, con le vocali strascicate: "È l'uuna di nootte e tuutto va beene!", mentre un'ombra di sorriso mi si disegnava in volto, anche se nel buio non se n'è accorto nessuno. 

Ora, che cosa c'entri questa storiella in un blog di musica, non lo so, ma Tonto mi è sempre piaciuto, qualche volta mi ci identifico pure...e avevo voglia di raccontarvela. Spero mi perdonerete.
Se proprio lo desiderate, posso dirvi però che il giorno dopo mi è venuta una gran curiosità
 di sapere su quali note si dipanasse il grido della sentinella. Eccole: FA FA FA FA  RE RE  -  FA FA FA FA  RE RE, quattro quinte seguite da due terze, il che corrisponde perfettamente alle sillabe della frase, in tonalità di SI bemolle maggiore, almeno così mi pare. Se guardate qui il filmato, la voce di Tonto su certe vocali sembra un po' calante, ma dopo una giornata in cui grida a tutte le ore, bisogna capirlo.

Così, è proprio al SI bemolle maggiore che mi sono ispirata per scegliere il brano da regalarvi a conclusione della mia piccola avventura ospedaliera. Siccome tutto si è concluso bene, ho scelto un pezzo che riflette sollievo e leggerezza, gioco e allegria. E chi meglio di Gioacchino Rossini (1792 - 1868) ? Allora eccovi il terzo tempo, "Allegretto", della "Sonata n.4 per archi", giustappunto in SI bemolle maggiore.

Si tratta di una composizione scritta dal musicista a soli dodici anni(!) e questo dettaglio tutt'altro che trascurabile me la fa apprezzare ancora di più per svariati motivi. Primo per la presenza già evidente di moduli compositivi di indubbia eleganza che ritorneranno nelle opere successive; poi per l'andamento leggero e giocoso che, se da un lato è un tratto distintivo di tanta musica rossiniana anche se non tutta, dall'altro esprime la freschezza di chi osserva il mondo con sguardo limpido e festoso. 
Lo sguardo di un ragazzino a cui - scommetto - sarebbero piaciuti anche i cartoni
di Walt Disney, Tonto compreso.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

venerdì 31 ottobre 2025

Cannoli siciliani

Penso che tanti, all'interno delle repliche de "Il Commissario Montalbano", abbiano visto la puntata del 22 ottobre scorso, apprezzando una delle scene più toccanti e memorabili della narrazione.
Seguo fin dai suoi esordi questa serie che adoro
e della quale ho già parlato anni fa, esattamente qui. Ma, nonostante ricordi quasi a memoria episodi e personaggi con gli atteggiamenti e le espressioni che li caratterizzano, non mi perdo mai una puntata per la gioia di immergermi di nuovo in una meravigliosa cornice ambientale e in un'atmosfera che, se talora presenta vicende molto crude, fa tuttavia affiorare nei protagonisti tratti di una molteplice ricchezza umana.

Nella puntata cui faccio riferimento si rende omaggio alla figura del medico legale dottor Pasquano, venuto a mancare nella serie per la morte dell'attore che lo impersonava, Marcello Perracchio. Ne è derivata una sequenza in cui finzione scenica e vita reale si sovrappongono nell'intuizione decisamente centrata di commemorare l'attore scomparso ricordando il suo personaggio all'interno del telefilm. E in che modo?
Qui sta il bello: celebrando la passione che il dottore aveva per la buona tavola e in particolare per i cannoli siciliani. Tutti
abbiamo in mente le sue piccole colazioni a base di torte e ciambelle varie, come pure gli episodi in cui Montalbano non resisteva alla tentazione di rubargli un cannolo, o i loro battibecchi fatti di enfasi teatrale, ma in realtà di stima reciproca.

Così, l'dea di Luca Zingaretti e del regista Alberto Sironi è stata quella di onorare l'attore attraverso il suo personaggio, creando una sequenza nella quale, dopo il funerale, i protagonisti riuniti in commissariato mangiano proprio dei cannoli. Un ricordo misurato, privo di formalismi o di retorica e, se avete visto la puntata, non vi sarà sfuggita la serietà degna di un vero rituale con cui Montalbano porge il vassoio di cannoli ai suoi colleghi che li gustano in assoluto silenzio. Splendido!

Ma al di là della vicenda narrata nella fiction e della morte dell'attore, questo modo di ricordarlo mi ha colpito perchè è in realtà un celebrare la vita. 
È infatti un affondare le mani nell'humus dell'esistenza della persona scomparsa facendola rivivere in noi attraverso i sensi, anzi proprio a cominciare dai sensi! 
Senza nulla togliere al valore di una preghiera o di un fiore, nel ricordare Pasquano per la voluttà con cui gustava i cannoli, colgo qualcosa di profondamente umano e tangibile, quasi a significare che anche la realtà corporea è riscattata nell'ambito di un legame affettivo che la morte non spezza. Bellissimo e centrato poi questo riferimento al gusto per la sapienza in esso custodita: sàpere significa appunto avere sapore. 
Allora commemorare il morto inoltrandosi nel suo piacere di assaporare il cibo, è
valorizzarne l'umanità anche nelle sfaccettature più quotidiane, in un gesto di vicinanza ricco di una sua toccante sacralità.

Così, mi piace commentare questa scena con un brano di Franco Piersanti, autore della colonna sonora della serie. Si tratta di "Tenderness", un'intensa melodia dove malinconia e dolcezza si fondono in uno sguardo che sembra accarezzare cose e persone, vicende e paesaggi: un afflato di ricordi pervaso qua e là da un lieve ritmo di tango insieme a luminose aperture. 
E come altri pezzi del compositore, anche questo va a scandagliare la molteplice
anima siciliana narrata da Camilleri, fatta di una riservatezza talora scontrosa, ma insieme di passione per la vita in tutte le sue sfaccettature, cannoli compresi. 

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 
 

venerdì 24 ottobre 2025

Evviva CLAss_Liguriacanta!!!

L'articoletto di oggi è dedicato al gruppo di coristi che in settembre, ma a dire il vero anche nei mesi precedenti, mi ha consentito di fare una delle esperienze musicali più intense che avessi mai vissuto.  

Si tratta dell'Associazione dei cori liguri CLAss_Liguriacanta che festeggia i 5 anni dalla sua nascita e che, dal 19 al 21 settembre scorso, ha organizzato a Bocca di Magra un campus di studio sul Requiem di Mozart, conclusosi poi con l'esecuzione finale nella cattedrale di Sarzana.

Amo da sempre le iniziative che riguardano la polifonia. Dal coro parrocchiale al quale sono grata per avermi iniziato a questo genere di musica, fino al "Coro degli Stonati" dell'Orchestra Sinfonica di Milano - si chiama così...ma è uno splendido progetto di educazione vocale guidato dalla mitica Maestra Maria Teresa Tramontin - negli ultimi anni ho avuto modo di avvicinarmi ad esperienze anche impegnative. L'ultima è questa di cui parlo.

Ho avuto notizia ai primi di luglio del campus organizzato dall'Associazione ligure, ma la partecipazione presupponeva una conoscenza sicura delle varie parti del Requiem di Mozart. In passato, lo avevo ascoltato spesso e con la mia corale di parrocchia anni fa ci eravamo cimentati nel "Lacrimosa", ma qui la proposta era molto più ampia. Che fare?...
Spinta dall'entusiamo delle mie attuali compagne di coro - un manipoletto di sedici 
coraggiose che avevano aderito subito all'iniziativa - e col supporto dell'Associazione che ci ha fornito spartiti, tutorial ed email di gioioso incoraggiamento, mi sono iscritta anch'io! Evvai!!!
Di conseguenza, ho passato l'estate studiando, intenta ad orientarmi tra gli incastri delle potenti 
fughe e immersa nella meraviglia del testo mozartiano. La difficoltà più grossa però è stata il tentativo di appartarmi ogni volta in qualche angoletto di casa per cantare più liberamente, ora appollaiandomi in mansarda, ora chiudendomi a doppia mandata nel ripostiglio😒. Ma per la gioia di mio marito e dei vicini...non sempre ci sono riuscita😄.

La tre giorni di prove è stata impegnativa ma al tempo stesso entusiasmante per la guida del Maestro Matteo Valbusa che ha saputo unire una capacità comunicativa ricca di leggerezza ad altrettanta profondità di contenuti. 
Ci ha infatti illustrato alcune tecniche vocali, ma soprattutto ci ha consentito di
 cogliere le connessioni tra significato spirituale del testo del Requiem e dinamiche musicali della composizione mozartiana. I coristi presenti, circa un centinaio e non solo liguri, erano molto bravi ma il nostro gruppetto è stato all'altezza della situazione. Nonostante non avessimo mai cantato insieme, ci siamo armonizzati senza problemi in un clima di cordialità che i responsabili dell'Associazione hanno favorito con il loro spirito di accoglienza. 
Poi Mozart ha fatto il resto: così il momento dell'esecuzione conclusiva, nonostante la tensione
dell'impegno e qualche limite, è stato quel vìvere la musica dal suo interno che ha lasciato in tutti un'immensa gioia insieme al desiderio di coltivare ancora lo splendore del canto corale. 

Ora lo so, qualcuno vorrà sentire almeno uno stralcio dell'esibizione, ma non posso accontentarlo perchè il video non è disponibile su youtube. "E che fai? - mi direte - Prima ci ingolosisci e poi ci lasci a bocca asciutta?" 
Niente affatto! Siccome questo è un post che vuole esprimere gratitudine e che
 intende festeggiare i cinque anni di vita di CLAss_Liguriacanta, mi piace rendere omaggio al gruppo pubblicando una delle più belle performances dei suoi inizi. 
Si tratta di una registrazione fatta nel 2020 in piena pandemia, dove i coristi
cantano un brano di Joseph Rheinberger (1839 - 1901) : il celebre mottetto a sei voci miste intitolato "Abendlied", canto della sera. È un pezzo del quale avevo già parlato undici anni fa esattamente qui, ma lo ripubblico volentieri perchè ancora oggi riascoltarlo mi suscita profonda commozione. Lascio poi alla sensibilità di ciascuno il compito di cogliere tratti e sfumature di questa particolare interpretazione attraverso i volti, l'intensità e la passione dei singoli coristi.
Penso che non occorrano altre parole se non quelle che compaiono in apertura del video: "Quando la vita separa, la musica unisce"
e mi piace sottolinearle perchè hanno un valore che va ben oltre il periodo del Covid.

Buona visione e buon ascolto! 

(La foto è presa dalla pagina Facebook di CLAss_Liguriacanta e ci siamo anche noi!)

 


giovedì 16 ottobre 2025

Se lo sguardo è femminile -10



Sono stata a lungo incerta nella scelta del dipinto da pubblicare a proposito della pittrice di questo mese che è Artemisia Gentileschi (1593 - 1653). 
Si tratta di una delle più notevoli figure della prima metà del Seicento che, nella su
a produzione, si è misurata su soggetti sacri e profani, andando al di là dei temi rappresentati da altre artiste. 
La sua fama di pittrice è stata oscurata per un certo periodo dal fatto di essere f
iglia di Orazio Gentileschi - il che talora ha creato problemi di attribuzione delle sue opere - ma soprattutto dalla violenza subita da parte di Agostino Tassi e dal processo seguito alla denunzia di Artemisia. Infatti, se è stata giustamente ricordata per la sua coraggiosa ribellione, in passato tale vicenda ha lasciato in secondo piano il suo talento artistico. 

Gli studiosi che invece ne hanno rivalutato di recente la memoria come pittrice, hanno sottolineato caratteri stilistici che dimostrano la conoscenza delle opere di Michelangelo Buonarroti e del Caravaggio, ma che - a mio modesto avviso - vanno anche al di là dei canoni dell'epoca in cui Artemisia vive. Per questo sono stata incerta nella scelta, perchè i suoi dipinti riflettono un afflato artistico decisamente poliedrico.

In un primo tempo avevo deciso di pubblicare "Susanna e i vecchioni" - che trovate qui a lato - nella versione forse più famosa del 1610 conservata presso il castello di Weißenstein, in Baviera.
L'opera rivela infatti la disinvoltura dell'autrice
nell'ambientare le figure nello spazio ed è evidente il duplice richiamo michelangiolesco nella torsione del corpo della donna che ricorda il modulo della figura serpentinata e insieme nel gesto delle mani che può richiamare il personaggio di Adamo nella Cacciata dal Paradiso all'interno del Giudizio universale.

Poi, sempre tra i dipinti che vedono protagoniste le donne, mi aveva suggestionato anche "Giuditta decapita Oloferne", conservato al Museo di Capodimonte, per il suo chiaro riferimento all'opera analoga che il Caravaggio aveva realizzato circa dieci anni prima. 

Elementi comuni sono tinte come il rosso scuro e il forte contrasto luministico che rende ancor più drammatica la scena. Qui, lo sguardo di Artemisia è preciso e sicuro, quasi analitico, uno sguardo che non arretra neppure nel dipingere i dettagli più macabri come gli schizzi di sangue sul cuscino. 
Dunque, se è senza dubbio notevole l'abilità della pittrice, sul piano stilistico mi sembra di vedere caratteri 
già conosciuti. Per questo, la mia scelta si è orientata poi sull'opera riportata in grande, intitolata "Autoritratto come allegoria della pittura" e conservata a Londra presso la Royal Collection di Kensington Palace.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qui davvero mi pare che l'artista ci dica qualcosa di nuovo che va al di là della rielaborazione di ciò che ha acquisito nel tempo. 
Quali aspetti mi colpiscono nel dipinto? La modernità del tratto insieme alla
 capacità di far coesistere tale modernità con un'estrema precisione di dettagli; ma soprattutto l'identificazione di Artemisia con la pittura, cosa che anima la composizione a cominciare dall'impostazione prospettica. 
La protagonista infatti attraversa il quadro diagonalmente rivolta alla tela che
dipinge, mentre la luce che piove dall'alto batte sulla sua fronte e illumina il viso concentrato sull'opera che sta realizzando.

Un autoritratto singolare, se lo confrontiamo con i tanti esempi del passato dal Quattrocento al Cinquecento, ma possiamo arrivare anche a Rembrandt trovando sempre un' iconografia tutto sommato tradizionale. 
Che le persone ritratte guardino lo spettatore o si volgano altrove verso qualcosa 
che sta fuori dalla tela o che ne emerga il loro carattere, sono certo dati significativi; ma i vari soggetti sono sempre fermi e centro della composizione resta il loro viso, mentre qui la pittrice è in movimento, ripresa nel suo gesto creativo, tutta assorta a riportare sulla tela il frutto della propria ispirazione. Anche il fondo scuro privo di ornamenti, se da un lato riconduce a tanta pittura del Seicento, dall'altro offre un'essenzialità inedita. 
Un' iconografia nuova dunque, e sul piano tecnico tutt'altro che facile da realizzare
 data la posizione obliqua in cui Artemisia si raffigura.

Colgo inoltre una grande sicurezza nel suo tratto pittorico ora preciso e dettagliato come nel pendaglio al collo e nella ruche che orla il vestito, ora più veloce e sintetico, moderno al punto che la rappresentazione dei capelli potrebbe essere attribuita a un artista di epoca successiva. 
Non solo.

La poliedricità della pittrice mi pare evidente
anche nella raffigurazione dell'abito le cui pieghe sulla manica hanno un verde cangiante dai riflessi metallici quasi fosse un'armatura.

Ne emerge l'immagine di una donna forte e decisa, ribelle e tesa non tanto ad esibire se stessa nella propria avvenenza, quanto a far intuire l'ardore della sua vocazione artistica. Un'immagine che mi ha messo in cuore subito - stavolta senza incertezze - la musica di Ludwig van Beethoven (1770 - 1827), compositore tormentato, autore di brani dai forti chiaroscuri come i dipinti di Artemisia che riportano - oscuro e sotterraneo ma non tanto - il segno del dramma dell'antica violenza. 

Per questo ho scelto il primo movimento della "Sonata per pianoforte in Re minore n.17 op.31" intitolata "La tempesta". 
L' incipit del brano è pervaso da un senso di attesa e si allarga su di un arpeggio che sembra venire da profondità lontane
È interrotto poi da passaggi improvvisi e concitati finchè si apre il primo tema: una melodia impetuosa e ascendente che va riecheggiando piano in una sorta di bellissìma risposta, e che sale poi di tonalità in un clima sempre più vibrante e drammatico. Segue un secondo tema più sereno e tutto va ripetendosi altre volte nel corso del pezzo. 
Una tempesta ricca di contrasti, dunque, che prima si annunzia sommessa e lontana e poi 
esplode impetuosa. Ma ogni volta che le note rallentano o vanno sulle ottave più basse, la musica diventa una sostanza magmatica simile a un fuoco sotterraneo o a quel fondo scuro e un po' rossastro del quadro di Artemisia.
Una tempesta che, nella vita di Beethoven, è stata la crescente
sordità, condizione che tuttavia non gli ha impedito di dare alla luce musiche sublimi. Allo stesso modo, il dramma della violenza subita che ha attraversato l'esistenza della pittrice, non ne ha represso la coraggiosa ribellione e la capacità di mobilitare le proprie energie. 
Energie che ha incanalato ancor più intensamente nella creazione artistica,
alimentando quel fuoco che, se nel dipinto resta forse un po' sottinteso, le note di Beethoven, nel potere universale della musica, ci aiutano a cogliere.

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web) 

 

mercoledì 8 ottobre 2025

Quando il tramonto si specchia nei canali

Il post di oggi è merito della mia amica Elisa e della splendida foto che ha scattato per la quale la ringrazio di cuore. 
A dire il vero, quando parecchio tempo fa me l'aveva inviata, mi era venuta
 subito l'idea di pubblicarla qui, ma siccome sono una che - come si suol dire - carbura lento, l'ho tenuta da conto fino ad ora in attesa del momento giusto. 
Allora eccola finalmente, riportata per ultima
nella sua interezza, mentre nelle prime due ho ritagliato i particolari che mi parevano più adatti a rivelare l'incanto del paesaggio insieme alla bellezza dell'inquadratura. 

L'immagine ritrae la nostra campagna padana al tramonto di una giornata autunnale ed è ricca di quel fascino che sarebbe piaciuto a Monet che più volte ha dipinto filari di pioppi con le chiome percorse dai fremiti del vento mentre si specchiano nell'acqua. 
Qui non sembra ci sia vento, forse solo la lieve
 brezza della sera dopo una giornata serena sulla nostra pianura, in una visuale che dà respiro lasciando un gran senso di pace. Non pare autunno inoltrato: le rive del canale sono ancora verdi, anche se il fogliame degli alberi ha già quella tinta tra il ruggine e il dorato tipica della stagione. 
Mi piace questo colore acceso che spicca sullo 
sfondo del cielo in cui l'azzurro va schiarendosi e tingendosi di rosa. La foto ha colto proprio la magìa del momento in cui il sole è già tramontato, ma il riverbero della sua luce dà luogo a sfumature che si fanno più intense all'orizzonte. 

Tuttavia, a mio avviso, ciò che oltre ai colori rende affascinante il paesaggio colto in questo scatto è la prospettiva che corre verso il fondo, segnata dal filare di tronchi e insieme dal loro riflesso nella roggia. È l'acqua infatti che fa da specchio agli alberi e al cielo moltiplicandone la luce e la sua gradazione rosata. 
Bella l'immagine di questa natura
serena che attende il silenzio della notte in una solitudine che è raccoglimento. Ma altrettanto bello sognare di percorrere a passi lenti le carraie che solcano i prati e fiancheggiano i canali, lo sguardo al filare di pioppi o all'orizzonte, nell'oro del tramonto che va spegnendosi piano.

È stata proprio la sensazione di ampio e pacato respiro che la foto mi comunica a suggerirmi il brano da associarle, e lo ripropongo volentieri nonostante l'abbia già pubblicato anni fa.

Si tratta del "Largo" del "Concerto per clavicembalo e orchestra n.5 in fa minore BWV 1056" di Johann Sebastian Bach, in seguito arrangiato per pianoforte solo col titolo di "Arioso" e qui nella trascrizione di Alfred Cortot. 
Sono diversi i motivi per cui, oltre al suo
splendore, ho scelto di nuovo questo pezzo. 
Un po' per la suggestione del termine
"Arioso" che mi restituisce la percezione della vastità della campagna percorsa forse da una brezza leggera. Poi per la speranza di far cosa gradita all'amica Elisa che ama la musica di Bach almeno quanto me. 

Ma - come direbbero gli inglesi - last but not least per la pregevole interpretazione del Maestro Giuseppe Merli che dal brano fa emergere ogni sfumatura. Infatti, sul rigore ritmico del pezzo espresso dalle quartine della mano sinistra, aggiunge una rara nitidezza di tocco nel tema della destra. Qui, se in certi passaggi fa fiorire più viva la melodia quasi le note fossero le battute di un discorso, in altri sottolinea invece il pacato rallentare della musica facendone emergere tutta la dolcezza e al tempo stesso lo spessore.
Ne deriva un'esecuzione ricca di intensità meditativa, a somiglianza di un cammino a
 passo lento attraverso la campagna autunnale, nell'ora del tramonto.

Buon ascolto!

martedì 30 settembre 2025

Fascino di un pizzicato

Anche oggi una polka, ma per un motivo diverso dal post di qualche settimana fa inerente agli organetti di Barberia e a un brano di Rachmaninov.

Stavolta, la mia scelta s'incentra sul fascino di una tecnica usata talora negli strumenti ad arco: il pizzicato. Come certo saprete, consiste nel far vibrare le corde di tali strumenti, invece che con l'archetto, con le dita - in particolare con l'indice - facendone scaturire un suono più o meno percussivo, ma sempre ben scandito e ritmato. Ciò spiega il motivo per cui tale tecnica è usata dai compositori nelle danze, nei virtuosismi di certe variazioni, per sostenere un tema con una base ritmata e melodiosa o creare particolari effetti sonori.

Qualche esempio?... Uno dei più espressivi a questo riguardo è il dolcissimo Largo dell'Inverno di Vivaldi nel quale il pizzicato di fondo mira a riprodurre il suono delle gocce di pioggia, come recitano i versi del corrispondente sonetto: "Passar al foco i dì quieti e contenti /mentre la pioggia fuor bagna ben cento"
Proseguiamo poi con la
 Variazione n.9 del celebre Capriccio n.24 di Paganini che trovate a 3.08 dall'inizio del video e che, come vedrete, richiede un'incredibile abilità. Andando avanti nel tempo, possiamo ascoltare la parte iniziale del quarto movimento della Sinfonia n.1 di Brahms. Se desideriamo invece un pezzo giocoso, seguiamo il ritmo marcato e un po' ammiccante del famoso Pizzicato dal balletto "Sylvia" di Dèlibes. Da non dimenticare poi il Pizzicato vivace della Simple Simphonie n.4 di Britten. E mi fermo anche se, naturalmente, non è tutto qui.

Il brano con cui concludo questa breve carrellata e che vado a pubblicare è una danza conosciutissima, potremmo dire uno dei cavalli di battaglia dei Concerti di Capodanno: il celebre "Pizzicato-Polka" per archi di Johann Strauss jr. (1825 - 1899) e del fratello Josef Strauss (1827 - 1870). 
Scritta nel 1869 in occasione di un viaggio in Russia dei due musicisti, la polka ottenne subito uno straordinario successo ed è probabilmente la prima ad essere 
stata composta con il pizzicato perchè precede di sette anni quella di Délibes. 
Si tratta di un pezzo che unisce leggerezza ad eleganza e nel quale si alternano crescendo e
diminuendoforte e piano, insieme a svariati passaggi in cui la musica rallenta fino a farsi sommessa ed altri in cui diventa più agile e spedita. La particolare tecnica usata richiede grande sincronia insieme a un tocco preciso e lieve: se osservate gli orchestrali, infatti, alcuni sembrano proprio accarezzare le corde di violini, viole e violoncelli. 
Ma al di là della loro indiscutibile bravura, quella che traspare dai volti e dai sorrisi è una grande gioia. Sembra quasi che tutti, a cominciare dal direttore, si divertano gustando l'originalità della composizione nel suo andamento leggero e al tempo stesso trascinante. 

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

martedì 23 settembre 2025

Se lo sguardo è femminile - 9



Mi ha affascinato subito questo ritratto, ancor prima di conoscerne l'autore e di scoprire che, in realtà, si tratta di un'autrice. E che cosa mi ha catturato di primo acchito? Certo il fondo scuro e i tratti del viso un po' sfumati, ma soprattutto una strana, singolare fusione di aspetti diversi e contrastanti. 

Da un lato, infatti, quella riprodotta è una donna anziana, sicuramente persona di una certa fama e signorilità come dimostrano le foglie di alloro sui capelli e l'ombra di un lievissimo pizzo sul bordo del vestito.

Non bella, i capelli grigi un po' diradati, il volto massiccio segnato da occhiaie scure che spiccano nel pallore dell'incarnato, ha tuttavia un atteggiamento che la rende un po' infantile, con le labbra che sembrano imbronciate, la fossetta sul mento e lo sguardo pensoso e malinconico quasi di bimba offesa. Sembra che i tratti della vecchiaia - in una riproduzione spoglia, priva di particolari decorazioni e orpelli - invece di togliere espressione al viso vadano pacatamente a svelare quel che di fanciullesco che la donna aveva un tempo. 

Ma l'immagine a mio avviso è singolare soprattutto se consideriamo chi è la pittrice. Si tratta infatti della veneziana Rosalba Carriera (1673 - 1757), una delle artiste più affermate sia in Italia che in Europa nella prima metà del Settecento, celebre non solo per le sue miniature su avorio, ma soprattutto per i numerosi ritratti realizzati a pastello nei quali mostra notevoli capacità di introspezione psicologica. 
Gli esempi, a questo riguardo, non si contano e tra i personaggi riprodotti nel vasto panorama delle sue opere troviamo spesso dame dal piglio sicuro, dall'espressione ora disinvolta e autorevole, ora più dolce e seducente.
 
Le potete osservare nelle immagini qui a lato che riproducono nell'ordine: "Autoritratto in inverno" dove la pittrice ha infatti collo e cappello di ermellino, "Ritratto di Caterina Barbarigo", elegante e un po' altera e infine "Ritratto di donna anziana" che a me pare splendidamente sicura di sè. Quello che invece vedete in alto in grande e poi nel dettaglio del viso è il celebre "Autoritratto" conservato a Venezia presso la Galleria dell'Accademia e dipinto nel 1746 circa. Non si tratta dell'unica opera in cui la pittrice ha riprodotto se stessa, ce ne sono diverse altre nelle quali la donna è più giovane e avvenente, ma questa a mio avviso è singolare proprio perchè si distacca dalle composizioni passate.
 
Il suo sguardo infatti non si fissa più in viso allo spettatore 
come nelle opere precedenti nelle quali l'espressione era talora quasi altera. Gli occhi, invece, qui guardano languidamente altrove con un'espressione nella quale possiamo leggere una fusione di affezioni e sentimenti che vanno dalla dolcezza alla malinconia. Inoltre, l'immagine - come accennavo sopra, più spoglia di tante altre - fa affiorare l'anima della donna anziana in una sorta di fanciullesca autenticità che attrae.
Forse questo è il motivo per cui l'autoritratto della pittrice nella vecchiaia mi ha
ricordato, per certi aspetti, alcuni dipinti di Rembrandt in cui l'artista, sia pure diversamente, con tocco e minuzia tipicamente fiamminga, ha rappresentato le figure femminili.
 
E nonostante la cronologia sia sfasata, mi piace associare al dipinto di Rosalba Carriera un brano di Piotr Ilic Tchaikovsky (1840 - 1893) dal melodramma "The snow Maiden op.12 - Snegourotcka" : la fanciulla di neve. 
Si tratta di un'opera che ha radici in una delle più antiche fiabe della tradizione russa e come protagonisti personaggi tratti dalla mitologia. Al di là della trama che vede la fanciulla condannata a vivere nei rigori dell'inverno senza mai conoscere neppure il sole o il calore dell'amore perchè la farebbero sciogliere, mi ha colpito la malinconia della musica, delicata e al tempo stesso intensa.  
È una melodia che va ripetendosi nel pezzo con un andamento sempre più struggente, alternando luce ed ombra come nell'Autoritratto di Rosalba Carriera. Una musica che mi riporta allo sguardo languido e un po' nostalgico della nostra pittrice anziana, che forse ripercorre pacatamente in sè lo splendore della giovinezza e in esso, per qualche attimo, torna bambina.

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web) 

 

lunedì 15 settembre 2025

Ritratti

Prima di dedicarmi alle musiche di oggi, permettetemi un'osservazione che mi viene spontanea guardando qui a lato le immagini dei due compositori. 
Li avrete subito riconosciuti: sono Bach e
Mendelssohn, entrambi raffigurati nei loro ritratti più celebri - il primo opera di Elias Gottlob Haussmann e il secondo di Eduard Magnus - eseguiti con stili che esigevano posture fisse, fondo scuro e un'aria di austerità.

Certamente i due pittori hanno dato espressioni significative ai loro volti: Bach, con in mano lo spartito di un canone, è serissimo, autorevole se non addirittura autoritario e risulta imponente anche sul piano fisico; fosse un mio insegnante di musica...mi farebbe un po' paura. Mendelssohn invece ha un'apparenza più modesta e dolce, ma venata da una vaga malinconia che, francamente, mi mette tristezza. 

In effetti tali ritratti, per quanto interessanti e veritieri, sono dipinti d'occasione e non lasciano intuire la scintilla che in questi compositori ha fatto nascere spesso musiche traboccanti di gioia.  
È pur vero che un ritratto fissa solo un momento dell'esistenza, mentre la vita scorre poi ricca e varia. Ma se per cogliere la luminosità di certe melodie ci fermassimo a questi volti, il risultato probabilmente sarebbe un po' riduttivo. 
Se pensiamo, per esempio, alle tante raffigurazioni di
 Beethoven che lo dipingono con espressione scura, a volte un po' torva e che intendono riflettere il tormento per la sua sordità, se anche ciò risponde al vero, da queste diventa difficile risalire alla solarità, per esempio, dell' Inno alla gioia

Allo stesso modo, l'aspetto sofferente e diafano di Chopin di per sè non induce a immaginare da quale fuoco siano invece animati Studi e Polacche
Insomma, l'apparenza inganna e se talora un dipinto
riesce a cogliere davvero la verità di un cuore, per contro, tanti ritratti d'occasione con cui tali artisti sono passati alla storia favoriscono il diffondersi di luoghi comuni: Beethoven collerico, Mozart salottiero, Bach serioso, Paganini folle e Rossini - diciamolo - un grande allegrone. La realtà però è molto più variegata e se ognuno di noi è simile a un cristallo, a fronte di una particolare sfaccettatura ce ne sono mille altre che ampliano e completano il quadro della nostra personalità. A maggior ragione se parliamo di quella di un musicista. 

Proprio a questo proposito, del romantico e sognante Felix Mendelssohn Bartholdy (1809 - 1847) vi presento un brano che più animato, gioioso e giocoso non potrebbe essere e che va subito a contraddire l'impressione che ci dà il suo ritratto. Lo guardate e vi viene spontaneo un moto di tristezza. Invece...
Invece, nell'ambito dei
"Charakterstücke op.7" dei quali ho pubblicato il pezzo iniziale poco tempo fa, troviamo il n.3 in Re Maggiore dalla vivacità e dal piglio degno di una fuga di Bach. Trovate infatti i due compositori affiancati nella foto non solo perchè della musica di Bach Mendelssohn è stato cultore e per certi aspetti riscopritore, ma anche perchè questo brano dei "Charakterstücke" ne riprende lo stile. 
Se in quello iniziale l'andamento è più pacato e malinconico, qui invece il ritmo è
scattante, brioso, ricco di una scorrevolezza che può ricordare alcuni pezzi del "Clavicembalo ben temperato". Ma a suggestionarmi sono state anche le note in apertura che hanno smosso nella mia testa varie reminiscenze. Una su tutte è l'esordio della "Fuga BWV 539" di Bach.

Ecco in foto i due incipit: il primo in Re Maggiore riporta il pezzo di Mendelssohn e il secondo in Re minore riporta la "Fuga BWV 539" di Bach. 

Se ci fate caso, tempo, ritmo e struttura delle battute sono uguali, con l'impronta data da quei tre LA iniziali che si ripetono poi nel corso del brano, man mano che si susseguono le diverse voci della fuga. E se vogliamo dirla tutta - sempre in Bach - lo stesso frammento musicale ricorre anche nella Fuga della sua "Sonata per violino solo BWV 1001" che potete trovare qui.
Insomma, un piccolo spunto che Mendelssohn capovolge giocando tra tonalità
maggiore e minore con energica e concitata leggerezza, così da farne scaturire in pieno la sotterranea vena di gioia. A dispetto di certi ritratti!

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)  

 

 

domenica 7 settembre 2025

Come un prestigiatore...

"Elemosina triste   
di vecchie arie sperdute,  
vanità di un'offerta   
che nessuno raccoglie! 
Primavera di foglie   
in una via diserta!"
 (...)

Immagino che in tanti ricorderete questi versi che aprono "Per un organo di Barberìa" di Sergio Corazzini (1886 - 1907), poeta crepuscolare dalla vita, ahimè, brevissima. 
Nel testo, l'autore evoca vecchi motivi suonati per
 strada da un organetto, melodie cui nessuno presta attenzione, ritornelli tristi che si ripetono monotoni in un'atmosfera di solitudine e grigiore. 
In realtà, se leggessimo 
i versi successivi, vedremmo che nell'organetto che nessuno ascolta Corazzini proietta malinconicamente se stesso nella condizione esistenziale di poeta deluso. Discorso certo interessante dal punto di vista letterario, ma sul quale non intendo soffermarmi. 

Allora perchè mai ho scelto di aprire il post con questo testo? 
Perchè l'autore della musica di oggi, per comporla, ha preso ispirazione proprio dal
l'aria di un organetto da strada: sì, uno strumento probabilmente simile a quello che vedete nella foto. Chi può vantare una certa età ricorderà questi organetti azionati da una manovella, sempre presenti nelle fiere di paese o mescolati alle bancarelle degli ambulanti nei mercati. Io ne ho in mente il suono dal timbro un po' scampanellante e le melodie orecchiabili, ma talora tristi come nenie.

Bene. È stato Sergej Rachmaninov (1873 - 1943) a lasciarsi incantare dalla musica di uno di questi strumenti durante un viaggio in Italia e a prenderne spunto per comporre il brano chiamato appunto "Polka italienne". 
Ma in che cosa consiste l'originalità del pezzo? Non tanto nell'aria in sè che -
come sentirete - ricalca proprio lo stile di certe musiche di strada d'altri tempi, un po' malinconiche e ripetitive. La sua bellezza sta invece in ciò che il compositore ne ha tratto lavorando sul tema molto semplice e ricavandone un andamento di sorprendente vivacità.

Scritta in origine per pianoforte a quattro mani, la "Polka italienne" è stata poi variamente arrangiata sia per orchestra che per pianoforte a due mani ed è quest'ultima la versione che preferisco. La melodia si apre in mi bemolle minore su di un'ottava alta, dove le singole note esordiscono quasi con timidezza. Ma si ripete subito dopo su quella centrale sostenuta da un accompagnamento più marcato in chiave di basso. Ne deriva un tema ritmato che, nella sua mestizia, mi evoca l'antico ricordo di un'altra aria. 

Quando ero alle medie, per qualche tempo avevamo fatto lezione di educazione fisica a suon di musica, guidate dai gesti rigorosi della nostra insegnante e insieme accompagnate al pianoforte da un anziano professore. 
Suonava un'aria in maggiore, ritornello di tanti pomeriggi invernali nella grande
palestra della scuola dove quelle note disegnavano i nostri movimenti. Me le ricordo ancora e se immaginiamo che la tonalità fosse Do, suonavano così: mi  re#mi  do  sol / mi  re#mi  do sol / fa  mi re  do# re / sol  fa#sol la sol do. Insomma, una sorta di lallarà lallà che ritmava le nostre evoluzioni e che, nonostante fosse in maggiore, perdendosi nella vastità di quello stanzone lasciava in me un'eco di vaga tristezza.

Anche la Polka di Rachmaninov, per quanto diversa, può fare lo stesso effetto, ma solo nella parte iniziale. Poi si approfondisce in passaggi lenti che, qua e là, cedono al fascino languido di qualche accordo dissonante e infine, quando passa in maggiore, prende decisamente il volo! Del resto, stiamo parlando di una danza!
Ma la vivacità del brano non finisce qui perchè va crescendo 
in un vortice di velocità con una sorta di parossismo musicale. È come se Rachmaninov si lanciasse ad esplorare tutte le possibilità sonore del piccolo spunto dal quale era partito, tramutando in bellezza anche un motivo in apparenza banale, quasi fosse un prestigiatore che da un semplice pezzo di legno fa sbucare fiori sgargianti. Ne ricava infatti variazioni ora larghe e profonde, ora forti e cadenzate come una marcia, ora veloci e giocose che, se a volte possono richiamare certe danze russe, altrove hanno trilli che - lasciatemelo dire - ricordano le musiche dei cartoni. Insomma il ritmo è tale che, se siete partiti con una punta di malinconia, alla fine dell'ascolto non riuscirete più a stare fermi e danzerete davanti al computer!

Due sole notazioni finali: due riferimenti senza capo nè coda che mi potrei risparmiare, ma che a me piacciono tanto e quindi li faccio lo stesso. 
Primo: le due battute iniziali del pezzo con l'arpeggio che sale, trasportate in maggiore somigliano al tema dell'Inno 
dei Bersaglieri.
Secondo: in certi punti dove l'estro di Rachmaninov si scatena più gagliardo e
 tumultuoso, sento riecheggiare qualche passaggio della celebre Rapsodia ungherese n.2 di Liszt, quella di Tom e Jerry per intenderci. 
La sentite anche voi?...

 Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)