lunedì 20 maggio 2019

Altre stagioni

(Foto presa dal web)
Attraversavo martedì scorso la mia pianura della quale conosco palmo a palmo angoli e vedute, e a un tratto sono stata colpita da un panorama inconsueto.
Procedendo verso nord, in fondo alla  campagna aperta, percorsa dal vento freddo di questi giorni, vedevo all'orizzonte lo spettacolo delle Prealpi bianche per le recenti nevicate.
Ma al tempo stesso, in primo piano avevo ciuffi rossi di papaveri che, disseminati tra il verde dei campi e sul ciglio della strada, da certe angolature andavano a stagliarsi proprio contro le lontane cime innevate. 
Papaveri e neve: è stato questo l'anacronistico panorama che, pur nella sua bellezza, mi ha lasciato una sensazione straniante.

C'è spesso un modo in cui ci appaiono le cose - i fiori, il cielo, la campagna, il paesaggio intorno a noi - che ce le rende familiari, una sorta di abitudine che le fa diventare cornice rassicurante del nostro cammino, perchè in essa ci ritroviamo ravvisando i consueti tratti della nostra vita.
Ma quei papaveri stagliati contro le montagne innevate, giorni fa, per un attimo mi hanno dato un senso di straniamento come se l'immagine, accrescendo la sfasatura cronologica di questo clima invernale a maggio, non appartenesse più a una sequenza di fenomeni conosciuti a cui riandare, ma fosse segno o presagio di un tempo nuovo. 
Un tempo in cui inoltrarsi con vaga inquietudine, quasi nel succedersi dei vari mutamenti climatici avessimo la percezione di un ignoto che sgomenta, di una dimensione esistenziale che si dilata oltre i confini entro i quali siamo soliti riconoscerci e sulla quale - più che mai - non abbiamo il controllo.
Certo, è un fatto di cui abbiamo già consapevolezza: siamo piccoli e abitiamo uno spazio infinito dai contorni sfrangiati. Ma talora basta un'immagine, una particolare inquadratura di paesaggio a darcene - come in un flash improvviso - una percezione più viva e insieme ambigua che, se da un lato va ad acuire un senso di incertezza esistenziale, dall'altro apre forse squarci verso il nuovo.

È proprio sull'onda di tali sensazioni che oggi desidero tornare a Max Richter con un brano dalla sua ricomposizione delle "Quattro stagioni" di Vivaldi: lavoro senza dubbio interessante anche se azzardato, dove l'artista, nel suo approccio ai celebri concerti, tenta di fondere ambient music ed elettronica con lo stile vivaldiano.
"Riscriverli - ha affermato Richter - è stato come guidare attraverso un meraviglioso paesaggio conosciuto usando una strada alternativa per apprezzarlo di nuovo come la prima volta".
Il risultato a cui approda - almeno nel brano che vi propongo qui - delinea un paesaggio sonoro e ci immerge in un clima musicale ben lontani dall'atmosfera e dal gusto barocco. Tuttavia, la sua lettura dei testi vivaldiani, fatta con sensibilità e strumenti nuovi, ha il pregio di sviscerarne ogni risorsa espressiva creando affascinanti suggestioni.

Dell'opera ho scelto un pezzo molto breve: il secondo movimento, "Adagio", dell'"Estate" - "Concerto n.2 in sol minore RV315" - del quale ho riportato anche la versione originale.
Qui, se Vivaldi ci fa sentire la cupa calma che precede il temporale alternata all'eco lontana del tuono che si avvicina, Richter, dando al brano una ritmica cadenzata e dilatando ulteriormente la voce degli archi, ne fa scaturire un canto ancor più angoscioso. Certo, anche Vivaldi esprime un senso d'intensa malinconia, ma è come se la sua musica sapesse dare un nome alle cose, mentre Richter le coglie in quella dimensione originaria e straniante in cui non hanno ancora identità, o almeno così a me pare. 
Se infatti il compositore veneziano articola il pezzo secondo una squisita armonia descrittiva riferendosi ai versi del sonetto corrispondente, Richter tratteggia invece un paesaggio in cui ogni definizione resta incerta, portandoci ai margini di uno spazio sconfinato che è altra cosa rispetto alla creazione vivaldiana. 
E sembra aprire squarci di un mondo sconosciuto, delineando nuove stagioni dentro e fuori di noi.

Buon ascolto!

6 commenti:

Stefyp. ha detto...

Trovo che entrambe le versioni siano molto belle. Forse nel brano di Richter ci sento un sottofondo angosciante, inquietante, sensazione che non provo ascontando Vivaldi.
Ma credo dipenda dalla sensibilità e predisposizione all'ascolto che può cambiare da un individuo ad un altro. Ti ringrazio, cara Annamaria per questo intenso momento che ci hai regalato.
Buona serata e un abbraccio
Stefania

Annamaria ha detto...

Certo, cara Stefania: nell'ascolto, molto dipende dalla sensibilità di ciascuno, ma qui le tue impressioni riflettono anche un dato oggettivo. Il brano di Richter è effettivamente inquietante e le sonorità vivaldiane vengono ulteriormente dilatate verso un effetto più indefinito.
Grazie e un abbraccio di buona serata!!!

Rossana Rolando ha detto...

Sempre bravissima nel preparare il lettore all’ascolto musicale, a partire da un’esperienza – come quella straniante di due elementi incongrui: neve e papaveri - , che riesce a rendere comprensibile e davvero “parlante” l’accostamento tra i due brani musicali. Grazie. Un abbraccio.

Annamaria ha detto...

Grazie delle tue parole, cara Rossana! L'esperienza quotidiana è ricca di piccoli spunti rivelatori di aspetti più profondi, impressioni di un attimo che, se colte, possono avere corrispondenze impensate.
Qui è stato facile connettere quella fuggevole e straniante visione di paesaggio alla musica, perchè davvero questi due brani "parlano" e Richter apre il testo vivaldiano per farne scaturire dimensioni nuove.
Un abbraccio grande a te!!!

Anonimo ha detto...

Carissima, sai condurre mirabilmente i nostri sguardi in un mondo magico tessuto dalle tue parole e dalla musica.
"C'è spesso un modo in cui ci appaiono le cose, una sorta di abitudine che le fa diventare cornice rassicurante del nostro cammino, perché in esse ci ritroviamo ravvisando i consueti tratti della nostra vita".
Poi all'apparir di un contrasto visivo, descrivi il presagio di un tempo nuovo, di una dimensione esistenziale che si dilata oltre i confini…
squarci verso il nuovo.
E in questa dimensione la visione diventa suono, musica, nella ricomposizione di Max Richter delle "quattro stagioni "di Vivaldi
Scrive Richter:" Riscriverli è stato come guidare attraverso un meraviglioso paesaggio conosciuto usando una strada alternativa per apprezzarlo di nuovo come la prima volta".
E qui sarebbe necessario un lungo tempo per affrontare una questione delicata, a volte struggente, che hanno vissuto vari compositori in un dilemma unico, come unica è la loro musica.
"Com'è possibile riscrivere una musica composta da una profonda forza d'animo e intento comunicativo, rimanendo fedele alla sotto-trama del compositore che l'ha tenuta in grembo?"
A riguardo ho avuto la gioia di ascoltare vari critici musicali, di apprezzare molto la loro filologia della musica, ma ad essere sincera è una domanda, alla quale sto ancora cercando di trovare una risposta.
E il tuo bellissimo post mi offre spunti di profonda riflessione
un caro saluto
Adriana

Annamaria ha detto...

E' una questione complessa e delicata quella che poni, cara Adriana.
Come dici giustamente, la musica è qualcosa di unico e ogni composizione ha una sua impronta originalissima difficilmente riproducibile da un altro compositore. Come in letteratura, talvolta si dice che tradurre è tradire, così in qualche modo forse pure in musica.
D'altra parte, ogni opera d'arte ci parla a distanza di tempo anche per la sua ricchezza di spunti, per un'apertura che le epoche successive colgono e sviluppano a modo loro con esiti a volte molto diversi, come l'atmosfera di questo pezzo di Richter che diventa altra cosa rispetto a Vivaldi. Del resto, tradurre e tradire hanno la stessa radice del latino "tradere", tramandare al futuro.
Grazie e un abbraccio grande!