lunedì 30 settembre 2024

La pioggia di settembre

Succede a tanti che un brano di musica, qualunque esso sia, resti impresso nella mente e nel cuore insieme alle particolari circostanze in cui lo si è sentito per la prima volta. Anzi, forse proprio per quelle circostanze, tanto che da esse poi non può più essere disgiunto.
Per me almeno è così e potrei portare svariati
esempi.
Dal Larghetto della Sinfonia classica di
Prokofiev che mi riconduce agli anni di università, alle note introduttive del Messiah di Haendel che mi ricordano una sera d'inverno a Venezia, ogni volta i vari brani mi restituiscono tempo, luogo e atmosfera del primo momento in cui li ho sentiti. E l'elenco potrebbe continuare.
Ma c'è un pezzo su cui non mi sono mai soffermata prima d'ora e che mi è entrato
irrimediabilmente nel cuore in un pomeriggio di pioggia, mentre ero in casa di amici, una bella manciata di anni fa. E mi piace rievocarlo adesso.

Era settembre anche allora e il mese si era annuziato piovoso, con quel grigiore che spazza via d'un tratto l'atmosfera delle vacanze proiettandoti nel clima autunnale. La scuola era iniziata da poco e tornavo a metà pomeriggio da una riunione finita più presto del solito. Mancava ancora tempo al mio treno ed ero passata a trovare un'amica per concerdermi un'oretta di gioiosa distensione. Lei però non c'era e i suoi mi avevano invitato in casa ad aspettarla. Così, ero rimasta lì in un'atmosfera di famiglia e in un calore invitante, facendo la spola tra la cucina dove la nonna stava infornando una torta e il soggiorno dove il bimbo della mia amica giocava.

Ma in sottofondo, dal bellissimo impianto stereo della stanza veniva una musica, una melodia che non mi pareva di conoscere e che ben presto mi aveva catturato al punto da assorbire tutta la mia attenzione.
Le persone mi parlavano, il piccolo continuava a giocherellare sul divano,
fuori pioveva a dirotto, ma io non avevo orecchi che per quelle note che mi stavano letteralmente portando via.
Una ridda di sensazioni mi aveva investito con tale intensità quasi la mia anima
avesse trovato lì un universo nuovo cui aderire. E la musica mi era rimasta impressa insieme alla pioggia torrenziale che vedevo dalla grande finestra del soggiorno, come se esistesse un legame segreto tra quelle note e l'acqua che veniva giù fitta annunciando una stagione nuova.

Avevo ventisei anni ed ero vissuta fino a quel momento a pane e Swingle Singers, fughe di Bach e arie di Haendel. Poi certo anche Mozart, poi Beethoven, Chopin e altri romantici, ma la mia passione restava ancorata alla musica barocca. Vi trovavo infatti altezze vertiginose che mi proiettavano nell'infinito di cattedrali gotiche, tra vetrate multicolori e volte ogivali.

Ora invece, all'improvviso, mi si spalancava davanti un infinito diverso, vasto e sconfinato come un mare, come un oceano percorso da onde inquiete, profondità misteriose insieme a scintillante, maestoso splendore.
Un universo nuovo, almeno per me, che mi stava catturando con la dirompente
immediatezza di un colpo di fulmine e la forza di quelle realtà che, aprendoci a dimensioni sconosciute, svelano anche noi a noi stessi.
Del resto, proprio questo è il potere dell'arte in ogni sua forma.

Quella musica era la stupenda "Ouverture" del "Tannhäuser" di Richard Wagner (1813 - 1883) che forse in passato avevo anche distrattamente sentito, ma che in quel pomeriggio di pioggia, per la prima volta, stavo scoprendo e ascoltando davvero.
Il brano presenta subito i due filoni portanti dell'opera che oppongono amor sacro e
amor profano, la dimensione spirituale e quella sensuale dell'amore nel segno di un'esigenza sempre più forte di redenzione dal peccato. E vi si possono individuare due temi ben distinti.
Il primo si apre subito anticipando l'aria del celebre Coro dei
pellegrini dell'inizio del terzo atto. È un esordio fatto di pacati e misuratissimi accordi che mi hanno sempre lasciato una percezione di profonda quiete. La melodia, annunciata piano dai fiati, va poi facendosi gradatamente più intensa in un movimento ascensionale segnato dai salti di ottava prima dei violoncelli e poi dei violini e intervallato da ombrosi e struggenti passaggi in minore.
Infine, va a coinvolgere tutte le sezioni dell'orchestra culminando in sonorità
maestose e solenni.

Il secondo tema, che ci presenta invece l'irrefrenabile impulso con cui il menestrello Tannhäuser si abbandonerà alle seduzioni della dea Venere, è molto più acceso sia sul piano della melodia che del ritmo. Ancor più del precedente, vede il trionfo dell'orchestra in un crescendo ora di tono marziale, ora in una vivacità scomposta che va poi a spegnersi lasciando di nuovo spazio al motivo ricorrente del Coro dei pellegrini.
Qui - a partire da 9.52 dall'inizio - mi colpiscono i passaggi in cui la musica, come una tempesta che
raggiunge il suo acme e poi diminuisce d'intensità, in una successione di note discendenti sembra imitare il soffio del vento che cade, un soffio che ritroviamo poi alla base del tema iniziale e quasi intrecciato ad esso.

È dunque un procedere dalla calma alla vivacità, per giungere al limite del parossismo e poi tornare a sonorità più pacate attraverso una ricchezza di sviluppi melodici e timbri orchestrali per certi versi debitrice del passato, ma per altri nuova.
Da un lato infatti, ascoltando il brano proprio in questo passaggio discendente, mi
viene spontaneo pensare che qui Wagner abbia fatto riferimento a Beethoven per il quale aveva sempre nutrito profonda ammirazione, riprendendo il soffio del vento nel temporale della Sinfonia Pastorale e rielaborandolo alla luce della propria sensibilità.
Così pure, mi sembra di leggere un'eredità beethoveniana anche nei punti più acces
i del brano, che possono ricordare alcuni passaggi del movimento finale della Settima Sinfonia che Wagner conosceva e apprezzava. 

Dall'altro tuttavia, se consideriamo che la prima versione del Tannhäuser è stata terminata nel 1845 - quindi solo diciotto anni dopo la morte del rivoluzionario musicista di Bonn - ciò significa che nel giro di poco tempo ci troviamo già di fronte a ulteriori passi avanti e a un linguaggio innovativo. L'orchestra wagneriana infatti non è più soltanto sostegno dello strumento solista, ma pilastro portante dell'intera composizione, capace di esprimerne tutta la potenza attraverso l'ampliamento dell'organico con particolare riguardo agli ottoni, l'adozione di uno stile polifonico e l'uso di motivi conduttori.
Elementi che possiamo apprezzare in questo brano che qui trovate eseguito sotto la sapiente
direzione di Claudio Abbado.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

lunedì 23 settembre 2024

Specchi d'acqua - 9










 

 

Ho indugiato a lungo prima di dedicare lo specchio d'acqua di questo mese al dipinto che vedete. Non perchè non sia bello, ma perchè mi pareva che quel mare, se confrontato con altre immagini magari tempestose o più ricche di vibranti sfumature - da Turner fino a Monet e a Van Gogh per intenderci - non potesse esprimere più di quanto la pittura aveva già detto.
Invece mi sbagliavo.

L'ho scoperto osservando altre rappresentazioni: ruscelletti tranquilli dall'atmosfera
rassicurante in mezzo a giardini verdeggianti dall'aria antica e un po' fiabesca, bellissimi. Eppure lì ho colto la differenza e il motivo per cui quello specchio d'acqua tra l'azzurro e il blu, solcato da una vela, davanti a un faro e a un cottage, mi aveva attirato con il suo fascino.
Tutti avrete riconosciuto lo stile di Edward Hopper (1882 - 1967), pittore statunitense del quale ho già parlato altre volte su queste pagine. Tuttavia, non mi ero mai soffermata su quest'opera intitolata "The long leg" e conservata presso la Huntington Library di San Marino in California.

Già in passato, parlando di alcune creazioni dell'artista, avevo fatto riferimento al suo realismo, ai paesaggi rappresentati, ma insieme alla profonda solitudine dei personaggi che Hopper vi colloca, caratterizzati spesso da un senso di attesa. Raffigurazioni dal taglio fotografico che sembrano cercare completezza e compimento altrove, in uno spazio che sta oltre, fuori dal quadro. 

Tema ricorrente di svariate opere - oltre a numerosi interni e ambienti metropolitani - è la raffigurazione del mare e di una costa dove spesso un faro si erge a dominare lo spazio circostante. Così è anche in questo dipinto in cui l'immagine attira per la sua semplicità unita a nitida bellezza, per i colori luminosi di cielo ed acque e per quelle incantevoli vele chiare, oblique, dalla splendida volumetria che può ricordare delle figure coniche.

 

 

 

 

 

 

Commentatori e critici parlano di un clima di pace e serenità quasi vacanziero, tuttavia, nel mio piccolo, non sono dello stesso avviso. Certo, il quadro ha una luminosità fatta di tinte giocate soprattutto tra l'azzurro e il bianco in una tessitura coloristica compatta anche nelle lievi increspature dello specchio d'acqua e nelle differenti sfumature di blu. Ma, nonostante questo, ne ho una percezione diversa.

È l'assenza di figure umane, è l'immobilità di quelle vele che potrebbero animare la scena e invece sono ferme, è il paesaggio ridotto all'essenziale nella costa brulla e vuota a lasciarmi una sensazione di profonda solitudine.
Una sorta di solitudine primordiale, straniante, quella
delle cose quando nessuno le vede, in cui natura e oggetti non hanno ancora un nome con cui l'essere umano possa riconoscerli e farli suoi intrecciando con essi una vicinanza che li renda familiari.

Il dipinto di Hopper mi comunica infatti una percezione di sottile inquietudine, un senso di sgomento che fa di quel cielo infinito uno spazio vuoto e la spiaggia simile alla soglia di un universo sconosciuto in cui scoprirci soli e spaesati. E senza sconfinare in paragoni con la fantascienza o con certo teatro dell'assurdo, mi sembra che proprio qui stia il genio dell'artista, in questo suo condurci oltre, in un realismo che supera la rappresentazione puramente mimetica delle cose per scandagliarne l'aspetto metafisico, la profondità inafferrabile e senza tempo.
E se in passato, a proposito di alcune sue opere, avevo fatto riferimento a De Chirico, torno qui a
ribadirlo. 

Così, a queste immagini mi piace associare un brano del compositore statunitense Philip Glass. Si tratta del mirabile "Etude n.2" per pianoforte solo, pezzo molto conosciuto ed eseguito spesso per la sua relativa semplicità sul piano tecnico, ma insieme per il suo fascino.
Com' è tipico dello stile del musicista, il tema - una melodia arpeggiata in un ritmo
dolcemente sincopato che alterna battute sul tempo di 7/8 e 4/4 - si ripete più volte prima in modo delicato, poi sempre più martellante ed energico per diminuire infine di intensità e andare a spegnersi piano.
Gli arpeggi si alternano all'inizio sulla mano destra, poi sulla sinistra, mentre gli accordi
, giocati ora sulle ottave più alte, ora sulle più basse, ci regalano note acute ma soprattutto sonorità profondissime dal forte impatto emotivo. 

Sprazzi di luce dunque, e insieme suggestioni a volte stranianti che possono restituirci una percezione di ignoto a mio avviso simile a quella del dipinto di Hopper. 

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

lunedì 16 settembre 2024

Jouer du piano

Tutti sappiamo quanto è impegnativo suonare uno strumento musicale, sia che ci abbiamo provato o meno, sia che lo si faccia da veri professionisti o da semplici dilettanti.
Suonare, in realtà, non è solo impegnativo, ma
spesso anche faticoso perchè - nel caso per esempio degli strumenti a tastiera - coinvolge il corpo da cima a fondo: dalle mani ai piedi, dalle dita alla postura della schiena. Ma è insieme attività che mobilita gli occhi e la mente nella comprensione del linguaggio musicale, tiene desta la memoria e sollecita quella sensibilità che, nascendo dal profondo, regala poi alle note ritmo, colore, fascino e suggestione.

Imparare una tecnica può certo essere difficile perchè necessita di costante esercizio, ma chi ormai ne ha una buona padronanza, può andare oltre conferendo al proprio tocco non la monotonia di un'esecuzione perfetta ma magari meccanica, bensì la meraviglia di un'interpretazione che nasce dall'anima e la svela. Chi suona infatti, nel modo in cui lo fa non dimostra solo la propria abilità nel riprodurre un testo musicale, ma mette in gioco anche se stesso in quella sorta di empatia che si crea col testo stesso e dalla quale nasce l'interpretazione.

Basta osservare lo stile di alcuni grandi pianisti - sia pure con le rispettive differenze - per cogliere anche il loro carattere e il loro gusto per la musica. Si va dalla precisione maniacale di Glenn Gould alla passione ispirata di Arthur Rubinstein; dalla sicurezza talora quasi sprezzante della Argerich all'atteggiamento di noncurante eleganza di Andras Schiff. Ma si potrebbe continuare.
E come accade in tante altre attività, raggiunto un certo livello di padronanza
, quando la tecnica non è più un problema arriva il divertimento, che non contrasta affatto con la serietà di ciò che si sta facendo, anzi, ne è forse il punto di arrivo. A questo proposito, mi è sempre piaciuta l'espressione francese che significa suonare il pianoforte: "jouer du piano". Interessante l'uso di un verbo che come primo significato ha giocare, in una definizione che non sottolinea la fatica di affrontare la tastiera, ma ne coglie l'aspetto ludico e divertente.

Proprio questa espressione mi è tornata in mente ascoltando giorni fa l'arrangiamento di un brano di Carl Philipp Emanuel Bach (1714 - 1788), il più famoso tra i figli del grande Johann Sebastian.
Il pezzo - spesso interpretato da pianisti grandi e piccoli - è il
celebre "Solfeggietto in do minore H 220", vivace andirivieni di note in sedicesimi che, al contrario di altri brani del musicista che si aprono a suggestioni nuove, rispecchia lo stile di Bach padre. Il titolo stesso, col riferimento al solfeggio, fa subito pensare a una composizione rigorosa e ben scandita.
L'indicazione agogica è Prestissimo e, in effetti, di solito il pezzo è eseguito
molto velocemente. Tuttavia, ha una versatilità e una bellezza che lo rendono affascinante anche se interpretato con tempi e ritmi differenti da quello originale. Motivo per cui, negli anni, non è stato solo arrangiato per strumenti diversi da quelli a tastiera a cominciare dal flauto e dalla chitarra, ma talora preso come base per bizzarre e funamboliche rivisitazioni.
Volete un esempio?

Dopo aver ascoltato l'originale, aprite anche la seconda clip audio. Qui il Solfeggietto è eseguito da Pierre-Ives Plat, pianista francese classe 1980, che lo rende assolutamente scatenato secondo ritmi che vanno dal jazz al ragtime, aggiungendo a piacere suggestioni che sembrano fiorire allegramente dalla sua fantasia man mano che suona. Una sorta - mi si perdoni il termine - di farcitura musicale in cui si ritrova un po' di tutto. Ascoltandolo - insieme a uno stile che talora può ricordare le colonne sonore dei film muti - riconoscerete il tema della canzone "Io cerco la Titina" reso celebre da un film di Chaplin, ma anche l'andamento sempre più vorticoso di certe danze russe, fuso qua e là ad un ritmo che può ricordare Scott Joplin!

Ma che c'entrano questi riferimenti col brano originale?
A mio avviso niente, se non la gioia di Plat di fondere arrangiamento e improvvisazione
con giocosa libertà, andando là dove lo portano la musica e la sua inventiva. 
Dite che qua e là pasticcia un po' ?...Forse, ma a mio avviso, dato il tipo di rielaborazione, la cosa ci può stare.
Infatti, se pure qui è lontano dalle raffinatezze di un pianista classico, Plat affronta la tastiera con strepitosa disinvoltura per "jouer du piano" con irrefrenabile, scanzonato divertimento.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)


 

lunedì 9 settembre 2024

Nello scintillìo della danza

Lo avevo già sentito varie volte in tv e in radio come sigla di alcune trasmissioni a tema musicale, e certo sarà capitato anche a tanti di voi di essere rapiti dal suo ritmo scintillante. Ma nonostante questo, il brano non era mai stato tra i miei preferiti risultandomi un po' troppo chiassoso. E invece...

Invece l'altra sera, navigando su youtube alla ricerca di un pezzo con cui riprendere dopo la pausa estiva, il suo ascolto a distanza di tempo mi ha colpito con un impatto diverso! Esistono proprio momenti e circostanze che ci fanno più o meno ricettivi, per cui ciò che una volta non ci attirava inizia d'un tratto ad affascinarci.

Sto parlando del brano di un compositore nuovo per questo blog al quale do gioiosamente il benvenuto. Si tratta del francese Léo Delibes (1836 - 1891), autore di musiche per opera lirica e operetta oltre a qualche pezzo sacro.
La sua fama però è legata soprattutto al balletto per il quale ha scritto melodie di
grande eleganza che apriranno la strada alle creazioni di altri musicisti, a iniziare da Tchaikovsky che del compositore francese era grande ammiratore.
Da questo punto di vista, il lavoro più famoso di Delibes - oggetto
tra l'altro di un grande successo sia ieri che oggi - è il balletto intitolato "Coppelia" : una vicenda  incentrata sull'infatuazione di un uomo per una bambola meccanica e ispirata ai racconti di E.T.A. Hoffmann, come farà anche Jacques Offenbach una decina di anni più tardi.

Il pezzo a cui mi riferivo è quello che apre il primo atto dell'opera, composto da due sezioni: "Preludio e Mazurka". Si tratta quindi di una musica prima sommessa, poi ricca di brio, dall'orchestrazione fragorosa e scintillante che, se a tratti può risultare tumultuosa per l'intervento delle percussioni e degli ottoni, altrove offre passaggi più lievi che inducono a immaginare passi di danza ritmati con leggerezza.
Se più conosciuta è senza dubbio la Mazurka, non è affatto trascurabile il Preludio
che la precede sia per il suo splendore che per la sua funzione.
Da un lato infatti, ha un esordio lento che sfocia gradatamente in un'intensa melodia
a 0.45 dall'inizio. Ma dall'altro costituisce un ineliminabile tempo di preparazione alla movimentatissima danza che segue.

Su youtube alcune clip audio riportano solo la Mazurka aprendosi subito in piena vivacità...ma ascoltarla senza il Preludio, a mio modesto avviso, non ha la stessa efficacia! Esso ci regala infatti una concentrazione e un'assorta dimensione di attesa che fanno scaturire ancor più viva in noi la gioia entusiasmante della successiva esplosione orchestrale.
Ne deriva una musica esuberante, decisa, direi quasi assertiva se alle note
applichiamo i caratteri del linguaggio parlato. Una musica che ci porta via con sè nell'energia dei suoi accordi e del suo ritmo fortemente scandito.

Ci lanciamo nel vortice della danza, allora?...
Sì e no, perchè - come ho già fatto altre volte - preferisco non pubblicare il
 video del balletto per lasciare alle sole note il compito di sollecitare la nostra fantasia, consentendoci di immaginare passi e movenze.
Vi resta il sorriso radioso di Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko che vedete nella foto in alto.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)