domenica 28 luglio 2024

Per sola mano sinistra

Nelle mie ormai consuete peregrinazioni su youtube, mi sono imbattuta giorni fa in un musicista che non conoscevo, ma del quale mi hanno colpito subito alcuni pezzi.
Si tratta di Felix Michajlovic Blumenfeld (1863 - 1931),
compositore, pianista e direttore d'orchestra ucraino, autore di una ricca produzione soprattutto per pianoforte solo.

Tra i suoi brani che contano studi, preludi, mazurke, improvvisi e valzer - generi amati per esempio da Chopin dal quale talora il compositore sembra aver preso spunto - quello che mi è piaciuto al di sopra di altri è stato un pezzo piuttosto singolare: lo "Studio in La bemolle maggiore op.36" scritto da Blumenfeld per sola mano sinistra.

Non è nuovo nella storia della musica questo tipo di composizione pianistica per una mano sola. Si è diffuso infatti soprattutto tra Ottocento e Novecento ad opera di musicisti tra i quali ricordiamo - solo per citarne alcuni - Ravel col suo celebre Concerto in Re maggiore, Skrjabin col Preludio op.9 n.1 o Saint-Saëns con i Sei studi e poi Liszt e Bartok; ma non manca qualche esempio anche in epoca barocca.
Sono lavori spesso motivati dal desiderio di consentire di nuovo la possibilità di suonare a pianisti
privati dell'uso di un arto da incidenti, malattie o ferite di guerra. A tutta prima, sembrerebbe una restrizione comporre brani per una mano sola, tuttavia è stato proprio Ravel a sostenere con entusiasmo il contrario considerando la cosa come un'opportunità se non addirittura una sfida. Affermava infatti:

 "L'ansia della difficoltà non è mai così forte come il piacere di misurarsi con essa e vincerla". E ancora: "Chi ascolta non deve mai avere la sensazione che con due mani al pianoforte si potrebbe fare di più. Chi ascolta non dovrebbe mai accorgersi che si suona con una mano sola".

Inoltre, gli esperti hanno osservato che la mano sinistra risulta a volte più agile e sciolta nei salti di ottava e nei virtuosismi che tali composizioni richiedono, senza contare poi il vantaggio per chi è mancino. E forse è il motivo per cui oggi tanti brani ideati per una mano sola privilegiano la sinistra, mentre quelli per la destra sono pochi. Tra questi ultimi, però, mi piace ricordare "Helena", delicata composizione scritta nel 2010 da Giovanni Allevi proprio per una pianista che aveva perso l'uso dell'altra mano.

Ma torniamo a Blumenfeld. Il suo Studio inizia come un rivolo d'acqua che scorre dall'alto di un nitido La bemolle maggiore, luminoso e - cosa che ne accresce l'incanto - a tratti dolcemente esitante. Tuttavia, il brano piega subito verso uno spessore più malinconico e scuro alternando nel giro di poche battute toni maggiori e minori.
Se l'esordio sul piano tecnico non comporta particolari problemi, il prosieguo del
pezzo - come si vede dalla foto - è irto di difficoltà non solo per la velocissima successione di arpeggi e cromatismi, ma soprattutto per la necessità di suonare con la stessa mano melodia e accompagnamento.

Ha un piglio intensamente romantico il brano, all'inizio e nel finale ricco di nostalgica dolcezza, mentre nei passaggi centrali ha un cuore tempestoso. È un impeto che talora può ricordare lo Studio op.10 n.12 di Chopin - quello rivoluzionario per intenderci - e altrove certe atmosfere di Rachmaninov. Splendida, a mio avviso, l'interpretazione di Luke Faulkner per la scioltezza del fraseggio e l'espressività che conferisce a queste note.

Buona visione e buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

domenica 21 luglio 2024

Pomeriggi d'estate

I pomeriggi d'estate che amo - veri o sognati - sono lontani dal chiasso e dalla confusione.  Sono quelli passati nell'ombrosa frescura di un rustico casale, leggendo un libro, le persiane appena accostate e dietro la campagna che si stende a perdita d'occhio.
O in solitudine davanti al mare, proprio sulla battigia a inebriarsi di vento e spume bianche,
col suono della risacca simile a una musica sempre nuova che non si smetterebbe mai di ascoltare.
I pomeriggi d'estate sono anche quelli trascorsi in un
giardino, a lasciarsi assordare dal canto delle cicale sotto un albero, o passeggiando con un'amica in un prato marezzato di fiori, mentre ci si scambia garbati pensieri, facendosi ombra con un vezzoso ombrellino che sarebbe piaciuto a De Nittis.

I pomeriggi d'estate non hanno orologi che mettano fretta e le ore sono scandite dalla luce che muta piano o dal passaggio quieto delle nuvole sui monti, mentre ci s'incanta nel gioco di ravvisarne forme e somiglianze.
Ha passi lenti il tempo, respiri larghi e profondi, interminati silenzi nei quali inabissarsi con dolcezza come
il Leopardi nel suo testo più celebre.

Ma sono anche quelli descritti dal Pascoli nella poesia "Dall'argine", dove la campagna è immobile e unico segno quasi impercettibile di vita è un filo di fumo che "al sole biancica" assottigliandosi piano fino a svanire. Un'eco lontana di campanacci si perde nell'aria, mentre ci ridesta più alto il verso acuto di un uccello. E non occorre meno dello splendore di certi paesaggi di Van Gogh a rendere l'atmosfera di calma pomeridiana creata dal poeta.

I pomeriggi d'estate sono quelli passati in una vecchia cucina tra rustici arredi, a somiglianza della "Laitière" di Vermeer, con una finestra di vetro molato in alto da dove piove la luce, mentre il fiotto di latte che esce dalla brocca, avvitato su se stesso, sembra scorrere all'infinito.
E mi vengono in mente le ore tranquille passate
tanti anni fa in una casa di mezza montagna, le stanze avvolte nella silenziosa penombra del riposino pomeridiano. Mi ci rivedo mentre - poco più che bambina - sgaiattolo via piano dalla camera a godermi uno sprazzo di solitudine proprio nel cucinino, occhieggiando da una finestrella il verde di un orto là fuori e insieme rubacchiando in frigorifero del buon gelato.

I pomeriggi d'estate inanellano sogni in libertà come il piacere d'intonare un coro tra amiche, magari uno stornello che risuoni gioioso dalla finestra aperta sulla campagna; o come il desiderio di lasciarsi avvolgere da musiche piane e sommesse nella quiete che talora prelude al sonno.

Per questo, i pomeriggi d'estate amano la carezza di Mozart che stempera ansie e tensioni guidandoci verso un dolce abbandono.
Così, tra i tanti brani che si possono associare a
queste ore di una giornata estiva, mi pare che nessuno sia più adatto del mirabile "Adagio" del "Concerto per clarinetto in La maggiore K.622", pezzo che ho già pubblicato diversi anni fa, ma sul quale oggi ritorno volentieri.  

Si tratta di una musica dalla soavissima atmosfera contemplativa, scritta dal compositore pochi mesi prima della morte, in un periodo molto cupo. Ed è sempre sorprendente notare come certi miracoli di serenità e di equilibrio, capaci come pochi di regalarci un senso di profonda consolazione, siano fioriti invece in fasi esistenziali particolarmente difficili.
È trasparente e sottile,
intenso e sognante il tema principale esposto in apertura dal clarinetto e ripreso poi dall'orchestra in un andamento in cui alcuni passaggi inducono proprio a larghi respiri che danno sollievo all'anima. Un tema cantabile in cui Mozart sfrutta tutte le possibilità espressive di uno strumento solista che, all'epoca, non aveva ancora raggiunto la perfezione attuale. Segue - a partire da 2.50 dall'inizio - una seconda melodia con uno splendido andirivieni di note che toccano anche i toni bassi del clarinetto, prima che il brano torni a riproporre il tema iniziale.
Un Adagio sublime nella sua pace, un vero e proprio refolo di aria fresca nel forte della calura
pomeridiana.

Buon ascolto!

(Le foto, prese dal web, raffigurano nell'ordine i seguenti dipinti: 1) De Nittis: "Nel grano" 2) Van Gogh: "Campo di grano con cipresso" 3) Vermeer: "La laitière" 4) Lega: "Il canto dello stornello")


sabato 13 luglio 2024

Specchi d'acqua - 7


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra i tanti specchi d'acqua che la storia dell'arte ci offre soprattutto fra Ottocento e Novecento e dei quali pubblicherò in seguito altre immagini, oggi ne ho scelto uno particolarmente originale. Andassi in ordine cronologico, avrei dovuto aspettare ancora dando la precedenza, per esempio, agli Impressionisti, ma tale è per me il fascino di quest'opera che non ho resistito al desiderio di pubblicarla subito.
Si tratta di una xilografia dell'olandese Maurits Cornelis Escher (1898 - 1972),
artista originalissimo e visionario del quale ho già parlato otto anni fa precisamente qui, presentando una breve carrellata delle sue opere. 

Non mi dilungo quindi sui caratteri della sua grafica geometrica e ornata insieme, composta da forme fluide che si trasformano in altre figurazioni come se tutto fosse costituito da una materia duttile, pronta a mutare secondo la fantasia dell'artista.
Una fantasia bizzarra dove la rappresentazione
della realtà presenta aspetti talora onirici, talaltra scanditi da ossessive ripetizioni attraverso geometrie impossibili in cui il rigore matematico si fonde alla più ardita inventiva.
Un genio creativo, come scrivevo a suo tempo,
non privo di riferimenti culturali al passato: dai Fiamminghi al Barocco, fino allo stile moresco e - mi permetto di aggiungere - all'inquietudine di un suo celebre contemporaneo qual è stato Giorgio De Chirico.

L'opera che vi presento oggi fa parte di una serie di litografie e xilografie composte da Escher per illustrare la Genesi e in particolare "I giorni della creazione". L'immagine che vedete rappresenta appunto "Il secondo giorno: Gen.1, 6-8" nel quale il testo biblico parla della creazione del firmamento per separare le acque dalle acque, quelle sopra il cielo da quelle che stanno sotto.


 

 

 

 

 

 

 

Ed ecco le acque nella composizione dell'artista: un oceano sconfinato e tempestoso fatto di onde movimentate e schiume attorte che forse sarebbero piaciute proprio a De Chirico e magari anche a Montale che negli stessi anni - siamo intorno al 1925 - scriveva poesie come "Corno inglese".
Onde più larghe in primo piano, fittamente delineate da sottilissime righe, che
vanno poi rimpicciolendosi in prospettiva, mentre un acquazzone scarica la sua potenza da un lato e nuvoloni tempestosi si accalcano dall'altro. Onde che si mescolano secondo l'urto del vento, dissolvendosi in uno scintillìo di spume chiare, come si osserva in taluni dettagli.
Una rappresentazione fortemente drammatica la cui efficacia è accresciuta dal cielo incombente, dal contrasto tra bianco e nero, luce e buio, da quelle righe ripetute che conferiscono all'immagine una marcata tragicità nonostante si tratti di una scena che raffigura una fase della creazione.

A destra scende un diluvio di pioggia battente, a sinistra non più e profili di nuvole o forse di lampi disegnano una sorta di ragnatela scura che all'orizzonte fonde ancora cielo ed acque in un alone di mistero. Una composizione cupa eppure affascinante per la volontà dell'artista di raffigurare un evento che supera la nostra immaginazione come l'affiorare degli elementi dal caos e il loro distinguersi. E tuttavia singolare perchè, al contrario del testo biblico o di altre rappresentazioni - e viene subito in mente Michelangelo nella Sistina - la figura di Dio qui non compare.

Un insolito specchio d'acqua dunque, al quale - nonostante forse possa sembrare strano - mi piace associare la musica di Bach, insieme però ad un suo grintosissimo arrangiamento ad opera di un celebre gruppo rock progressive: Il Rovescio Della Medaglia.
Si tratta della "Fuga in re minore n.6 BWV 875" dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato, brano a tre voci costruito con una serie di
bellissimi cromatismi, che trovate nella clip audio eseguito da Glenn Gould.
Un Bach fatto come sempre di rigore matematico e inventiva che mi sembra si possa opportunamente
accostare alla creatività di Escher, insieme a un pezzo in cui quella stessa fuga - ma non solo - viene rielaborata secondo lo stile del rock progressive. In fondo niente di nuovo sotto il sole, se pensiamo a quanto il compositore tedesco sia stato ripreso, arrangiato, stravolto, cantato e danzato da tanta musica contemporanea, e il brano che vi propongo non è neppure tra i più recenti. Ma mi è parso ancora dirompente.

Così, torno indietro di una cinquantina d'anni col pezzo del Rovescio Della Medaglia intitolato "La grande fuga" e tratto dall'album "Contaminazione" del 1973. I tanti esperti e amanti di questo genere musicale conosceranno senz'altro il gruppo e la sua discografia dagli anni Settanta ad oggi; ma anche senza particolari competenze, è evidente dal titolo il riferimento alla fusione tra strumentazione rock (tastiere elettroniche, chitarre, batteria) e sinfonica (in questo caso gli archi).
Un Bach protagonista dalla prima fino all'ultima nota: il brano esordisce infatti con
l'inizio del celebre "Preludio in Sol maggiore della Suite n.1 BWV 1007 per violoncello", per poi proseguire sulle note della "Fuga BWV 875".
Questa è ripresa dai vari strumenti con effetti diversi, ma sono soprattutto le
tastiere a farne un'onda di musica ribollente e tempestosa come le acque di Escher, dal ritmo irrequieto e sfavillante, grintosissimo e irresistibile.
E se alcuni passaggi del brano si ripetono in modo un po' ossessivo come
certa grafica dell'artista, per contro è meravigliosa l'esplosione organistica finale che chiude il pezzo in tonalità maggiore: una cadenza piccarda in perfetto stile barocco che ricalca esattamente il testo bachiano.

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

sabato 6 luglio 2024

Il canto della colomba

"D'altri diluvi una colomba ascolto".

È stata questa poesia di Ungaretti, formata da un solo endecasillabo e intitolata "Una colomba", a venirmi in mente nei giorni scorsi davanti alle immagini dell'alluvione che ha devastato la val di Cogne e alcune sue frazioni. 

Quello del poeta, tratto dalla raccolta "Sentimento del tempo", è un testo che a scuola non avevo mai studiato, ma mi è rimasto impresso da quando me lo hanno chiesto - ormai secoli fa - all'esame di abilitazione. Non ricordo, presa un po' alla sprovvista, quale spiegazione avessi affastellato, ma d'allora quel verso mi segue e mi torna in mente in tante circostanze col suo significato che possiamo fare nostro in differenti contesti. Qui Ungaretti, nel riferirsi alla colomba che nella narrazione biblica simboleggia la fine del diluvio universale, manifesta una speranza. Altri sono stati i diluvi della sua vita, a iniziare dalla prima guerra mondiale, ma perseverante in lui è la fiducia in una rinascita annunziata dalla presenza della colomba e dal suo canto: scrive infatti "ascolto".

Così, questo verso mi è riaffiorato dalla memoria anche nei giorni scorsi, davanti alle rovinose immagini dei torrenti in piena viste in tv. Mi riferisco in particolare a località come Valnontey e alla splendida Valmiana - per me luogo del cuore da una vita, piccolo angolo di paradiso ai piedi del Gran Paradiso - della quale vedete sopra una mia vecchia foto che ne ritrae uno splendido scorcio.
E se anche il paesetto in cui vado d'estate è sul versante opposto e non ha subito
danni, non può non ferirmi il disastro che ha devastato proprio questi prati insieme al lavoro di una comunità montana già provata in passato da eventi simili. Una comunità tenace che in questi giorni si sta mobilitando per sanare i danni di un'alluvione che, in certi punti, ha sconvolto la fisionomia del paesaggio. E per me che - come a volte mi è occorso di dire - ho spesso la sensazione di appartenere ai luoghi, è come un pezzo di vita che si sfalda. 

Ma l'indomabile tenacia dei valligiani e il testo di Ungaretti inducono alla speranza. Così, nella scelta della musica da associare a questo post, non ho voluto rattristarmi ulteriormente, ma guardare al futuro immaginando una natura rinnovata in tutto il suo splendore.
In un primo tempo avevo pensato a un brano di Vivaldi dalla sua Estate che alterna
passaggi talora malinconici a esplosioni tempestose; in seguito, a un pezzo dalla Pastorale di Beethoven con l'irrompere del temporale e la successiva gioia del ritorno al sereno.

Invece poi ho scelto Mozart con l' Andante cantabile della "Sinfonia in Do maggiore n.41 K.551 - Jupiter" perchè l'ho sentito più congeniale alla speranza di veder presto ricomposta la magnificenza di questi luoghi.
È pur vero che anche qui il brano non è privo di tratti drammatici e cupi insieme a frequenti chiaroscuri
, ma altrove le sue note hanno davvero una dolce cantabilità.
E mi restituiscono ora la brezza leggera di certe mattine, ora il passaggio lento delle
nuvole sui monti, ora un lieve cinguettìo di uccelli, ora il volo breve delle farfalle celesti sul sentiero che tante volte ho percorso e che la piena del torrente ha spazzato via.
Note di rasserenante soavità che mi sembra possano celebrare il ritorno alla vita annunziato dal canto della colomba ungarettiana.

Buon ascolto!