domenica 30 novembre 2025

Nei segreti anfratti del cuore

Nelle mie quotidiane peregrinazioni su youtube in cerca di musica, nei giorni scorsi mi sono imbattuta in una raccolta che già conoscevo e della quale avevo pubblicato tempo fa qualche brano.

Si tratta dei "Pezzi lirici" di Edvard Grieg (1843 - 1907): sessantasei brevi composizioni per pianoforte solo, tese a cogliere sensazioni e stati d'animo diversi o a descrivere la natura o eventi di colore locale. Basti osservare alcuni titoli - Illusioni, Elegia, Giorni svaniti, Danza norvegese, Verso la patria, Il piccolo mandriano, Ruscello, Sera d'estate - per rendersi conto della varietà di ispirazione del musicista che, con tocco leggero, va a scandagliare la realtà circostante o i propri moti d'animo facendone una sorta di diario in note.

Il pezzo che ho scelto oggi è il n.6 op.57 del VI libro della raccolta ed è intitolato "Homesickness", nostalgia di casa o - letteralmente - malattia di casa quasi che la lontananza possa suscitare un anelito così inquieto da diventare patologico. 
Il brano si articola in tre parti. La prima è costituita da un lento Andante in Mi
minore: una melodia semplice, arricchita dagli accordi talora dissonanti della mano sinistra che ne sottolineano l'afflato malinconico e da un riecheggiare di note che le conferisce fascino e spessore. Segue una sezione centrale in Mi maggiore più luminosa, ma soprattutto più leggera nella sua vivacità giocata sulle ottave più alte, mentre la parte conclusiva torna a ripetere il mesto tema iniziale. 
Tre sezioni che mi sembrano riprodurre prima il senso di tristezza e
 solitudine di chi è lontano da casa e ne avverte la nostalgia; poi il ricordo o più ancora il sogno di una felicità agognata, attraverso note che evocano immagini di festa imitando un lieve e scintillante scampanellìo. Ma la visione svanisce presto e infine la musica torna a disegnare una realtà fatta di mestizia.

Ma perchè mai questo brano mi ha affascinato?
Sarà stato forse il freddo già invernale degli ultimi giorni o il Natale verso cui ci stiamo avviando
a suscitare in me un acuto desiderio di intimità. Una sensazione che non vivo solo sul piano personale, ma che immagino anche nelle tante persone che, per motivi di lavoro, di salute o altro, sono lontane da casa e per le quali il bisogno del proprio ambiente familiare, fatto di affetti e insieme di luoghi del cuore, in questo periodo si fa più pungente. Nostalgia di casa, che significa desiderio di essere accolti nel profondo, di ricordi nei quali riposare l'anima e di ritorno a se stessi, alla ricerca di quella gioia di vivere oserei dire primordiale forse dimenticata o nascosta.

Una casa a cui tornare come chi arriva da un lungo cammino, a somiglianza del viandante che vedete in alto nel dipinto di Marc Chagall intitolato "Sopra Vitebsk", in volo sul villaggio con la sua bisaccia, la sua stanchezza e certo il desiderio inquieto di un approdo. Una figura errante in una rappresentazione fiabesca che, al di là delle varie interpretazioni sulla sua identità - lo stesso Chagall costretto a lasciare il proprio paese di origine per motivi politici e razziali, o forse il profeta Elia venuto a portare doni - può simboleggiare tutti noi nella ricerca di un porto a cui ancorare la nostra precarietà. 

Nel dipinto di Chagall non sappiamo bene se il viandante in volo stia tornando al suo paese o ne stia ripartendo come varie volte è accaduto proprio al pittore, ma la silenziosa coltre di neve che ammanta il villaggio e la delicatezza dei colori ci regalano un'aura di intimità che riconduce al mondo delle fiabe della nostra infanzia.
Allo stesso modo, le note più vive della parte centrale del brano di Grieg dove nel ritmo puntato della mano destra brilla una luce festosa, per qualche momento ci aprono a un sogno mai sopito, a quel desiderio di casa radicato da sempre nei segreti anfratti del cuore. 

 Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

sabato 22 novembre 2025

Lo stupore di Cecilia

'È opera del viterbese Giovanni Francesco Romanelli (1610 - 1662) il dipinto che vedete - conservato a Roma presso i Musei Capitolini - e che rappresenta "Santa Cecilia". 
Le date ci dicono che siamo in piena epoca
barocca ma, se anche non lo sapessimo, ce lo suggerirebbero vari elementi: dalla raffinatezza ariosa del panneggio e del copricapo agli alberi e al cielo dello sfondo; dalla morbidezza dell'incarnato - osservate la grazia della mano sinistra! - fino all'elegante inquadratura che riprende la Santa in una torsione ormai lontana dagli schemi della ritrattistica del passato. 

In effetti l'autore, formatosi alla scuola di vari rappresentanti dello stile barocco tra cui Domenichino e Pietro da Cortona, si colloca tra gli esponenti più in vista della pittura dell'epoca sia a Roma che in Francia. La sua fama gli aveva meritato inoltre il soprannome di "Raffaellino" probabilmente per la dolcezza del suo tratto che potrebbe ricordare lo stile del famoso urbinate.

E in che modo Romanelli raffigura qui la Santa protettrice della musica e dei musicisti? La dipinge accanto a un violino, seguendo una tradizione che attraversa il tempo e che la vede accanto a uno strumento, molto spesso un organo, talora un violoncello oppure un liuto. 
Tuttavia, quello che mi colpisce nell'immagine è lo sguardo di Cecilia rivolto altrove. Ha
 in mano un rotolo che probabilmente è uno spartito, tocca il violino quasi avesse appena finito di suonare e dovesse riporlo, ma il suo sguardo è assorto, fisso in un punto indefinito forse a ripercorrere nel cuore la musica suonata e le emozioni che essa vi ha suscitato. 
O forse da quel punto indefinito la Santa sta guardando in se stessa attingendo alla
misteriosa fonte dell'ispirazione. La sua è infatti l'espressione di chi medita, ma nei suoi occhi possiamo scorgere anche un lampo di meraviglia, un lieve sorriso venato di commozione, una luce di stupore come di fronte a una realtà superiore da cui è presa e rapita. È proprio quella realtà l'oggetto cui volgersi, la sorgente primaria alla quale attingere mentre il violino e lo spartito sono i mezzi attraverso i quali la luce della musica prenderà poi forma.

Con quale melodia allora renderle omaggio nel giorno della sua festa? Con un brano di un autore nuovo per questo blog. Si tratta di John Eccles (1668 - 1735), compositore inglese famoso per aver scritto molte musiche di scena oltre a un' "Ode per il giorno di Santa Cecilia"...che tuttavia - la Santa mi perdonerà! - non pubblico. Non perchè non sia bella, ma perchè mi affascina maggiormente il pezzo che invece ho scelto. 

Si tratta di un' Aria - quinto movimento dalla Suite "The Mad Lover", l'amante pazzo - in cui Eccles ha musicato la tragicommedia di John Fletcher, centrata sull'uso dei suoni e delle immagini nel curare certe forme di follia o di depressione. Lunga è a questo proposito la tradizione che vede la musica come una vera e propria cura della psiche: dal giovane Davide che nella narrazione biblica suonava l'arpa per placare lo spirito cattivo di Re Saul, al mito di Orfeo, fino alle acquisizioni più moderne della musicoterapia. Ma potremmo anche ricordare le Variazioni Goldberg che - se  è vero ciò che i testi affermano - Bach avrebbe scritto per distrarre il conte Von Keyserling dall' insonnia. Del resto, di tale potere dei suoni tutti avremo fatto esperienza almeno una volta nel corso della nostra vita, per questo un brano simile mi sembra l'omaggio più centrato che si possa fare alla Santa.

Della quinta Aria della Suite vi riporto dunque due versioni: quella originale e una molto più recente per pianoforte solo che - vi confesso - è la mia preferita. Si tratta di una trascrizione semplice sul piano tecnico, ma tutta affidata alla capacità interpretativa di chi la esegue. Ne emerge un ritmo che dalla calma iniziale va crescendo di intensità fino ad animarsi in un vortice sempre più veloce mentre la melodia si ripete in varie sfumature diverse. 
Ed è forse il ruolo di tale ripetizione quello che talora agisce su di noi con una sorta
 di funzione terapeutica, perchè ci consente di entrare più vivamente all'interno della musica e diventare una sola cosa con i suoni facendo nostra la loro vibrazione. 

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

 

sabato 15 novembre 2025

Se lo sguardo è femminile - 11













Tra le opere delle artiste che nel corso del tempo hanno raffigurato altre donne, dopo averne pubblicate alcune ricche di gioiosa e ricercata eleganza, oggi ho scelto quelle di Käthe Schmidt Kollwitz (1867 - 1945), pittrice e scultrice tedesca che ci ha lasciato invece lavori decisamente crudi e drammatici, ma di schiacciante attualità.

In un arco di vita che comprende i due conflitti mondiali, la Kollwitz si è soffermata sul tema delle tragedie causate dalla guerra, focalizzando la sua attenzione sul lutto delle madri per la morte dei figli o sulla loro sofferenza. La maggior parte delle sue opere - sia che si tratti di litografie, xilografie o sculture - rappresenta infatti immagini angosciose di sopravvissuti logorati dalla fame e dall'orrore, insieme a madri strette in un abbraccio a difesa dei propri flgli o chiuse in un muto dolore di fronte alla loro morte. 

C'è molto di autobiografico in tali opere dato che la stessa Kollowitz aveva perso un figlio durante la prima guerra mondiale e del resto l'artista è sempre stata sensibile alle tante sofferenze del suo tempo. 
Lo testimonia la celebre "Pietà" che vedete qui
a lato, scultura in bronzo realizzata alla vigilia del secondo conflitto mondiale e conservata al Museo Kollwitz a Colonia, mentre una copia si trova alla Neue Wache di Berlino, monumento che commemora le vittime di guerra. Nel gruppo scultoreo, il legame viscerale col figlio morto è evidente nella posizione del suo corpo che sembra quasi rientrare nel grembo della madre tornando a far tutt'uno con lei.

Tuttavia, al di là del riferimento cronologico al lutto dell'autrice, il grido che riecheggia intensissimo dalle sue opere nella volontà di dar voce alla sofferenza, valica il tempo e riconduce alle tragedie che purtroppo si consumano ancora oggi in diverse parti del mondo. 

Solido e tenace l'abbraccio che vedete a lato nella xilografia intitolata "Le madri" conservata alla Tate Modern Art Gallery di Londra. Qui, tante madri fanno dei propri corpi una cosa sola, un blocco solidale a proteggere i loro piccoli. E come in altre opere, il contrasto tra bianco e nero dovuto alla tecnica usata si rivela efficacissimo per rendere l'immagine più incisiva in un espressionismo che cogliamo soprattutto nella raffigurazione di occhi e mani.

Gli stessi caratteri, ma più sfumati e addolciti dall'uso di una tecnica diversa vediamo nella foto grande in alto, disegno preparatorio di una litografia che doveva far parte della serie di sei tavole sulla guerra. Nella madre in primo piano che avvolge col suo abbraccio due bimbi, la Kollwitz ha rappresentato se stessa e i suoi figli in un'espressione di indicibile amore. Anche le altre figure femminili hanno un atteggiamento protettivo e ancora una volta, oltre ai volti, ci parlano le mani, grandi e talora sproporzionate mentre difendono i bimbi o, con gesto eloquente, coprono la faccia davanti all'orrore. 

Orrore che leggiamo anche nella xilografia qui a lato intitolata "I sopravvissuti". 
Sembra l'immagine di un
lager anche se la Kollwitz - invisa per le sue idee socialiste al regime hitleriano che le aveva tolto l'incarico di docente e le aveva impedito di esporre le sue opere - era riuscita a sfuggire alla deportazione. Sono visi scarni, figure di adulti senza più sguardo, bambini sui cui volti si legge la fame, e sempre in primo piano le mani di una madre serrate in un abbraccio protettivo.

E ad esprimere proprio la fame, efficacissima l'opera qui a lato intitolata "Brot!" (pane!), carboncino su carta conservato presso la Collezione Dorothy Braude Edinburg. Nella donna vista di schiena e curva su se stessa intuiamo il grido della disperazione, e così pure nel volto dei due piccoli dove pochi tratti appena accennati testimoniano il senso della tragedia e al tempo stesso la straordinaria potenza espressiva dell'artista nel rappresentarla. 

Uno sguardo forte e deciso il suo, perseverante e coraggioso, nel costante inabissarsi nei meandri del dolore umano. 
Uno sguardo che investe la sua arte, come lei
stessa ebbe a dire più volte: "Io devo esprimere il dolore degli uomini, un dolore che non ha mai fine e che ora è enorme. Questo è il mio compito, anche se non è facile assolverlo". E poi: "Non ho difficoltà ad ammettere che la mia arte ha uno scopo. Io voglio agire nella mia epoca, nella quale l'umanità è tanto priva di senno e bisognosa di aiuto". E ancora: "Il pacifismo non è un tranquillo stare a guardare, ma lavoro, duro lavoro".

Uno sguardo che desidero commentare con una musica che amo da tempo per il suo splendore e insieme per la toccante interpretazione del compianto Maestro Ezio Bosso. Si tratta della celebre "Melodia", parte centrale della "Danza degli spiriti beati" dall'opera "Orfeo e Euridice" di Christoph Willibald Gluck (1714 - 1787). 
Al di là del riferimento del brano orchestrale alla composizione in cui è inserito, mi hanno
 sempre colpito le tante trascrizioni per vari strumenti - e in particolare questa per pianoforte solo - che ne fanno un pezzo indipendente dal contesto originario. È proprio il caso dell'interpretazione di Bosso che lo include in una delle stanze del suo percorso esistenziale illustrato in note nell'album "The 12th Room" del 2015.
Qui, insieme ad alcuni suoi inediti, rielabora pezzi di Bach, Chopin, Cage e, appunto, 
la "Melodia" di Gluck. È un'aria delicatissima ma lontana da ogni tentazione romantica o sentimentale. Bosso ne fa emergere infatti una dolcezza spoglia, rigorosa, essenziale, simile a quella dimensione in cui dolore e amore vivono intrecciati. Drammaticità, tenerezza struggente, insieme alla malinconia del re minore coesistono in queste note dal ritmo lento la cui intensità Bosso calibra con l'anima prima ancora che con le dita. 
E mi fanno pensare all'amore tenace e disperato delle madri raffigurate dalla
Kollwitz, spiriti beati nel vero senso della parola per il loro cuore indomabile.

 Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

sabato 8 novembre 2025

Tonto

Chi mi legge probabilmente lo sa da tempo: amo molto i cartoni animati. Solo i più classici però, mentre non riesco ad abituarmi a quelli che presentano stili grafici più recenti e innovativi.

Sarà per età o perchè alcuni di questi film sono dei veri e propri capolavori, ma resto legata alla tradizione che per me porta in primis i nomi di Walt Disney e di Hanna & Barbera, anche se non mi dispiacciono autori come Fritz Freleng, creatore della celeberrima Pantera Rosa della quale - lo giuro - qualche volta parlerò. 
Non sto ad elencare la ricchissima produzione d
i tali autori: dico solo che il pregio di queste pellicole - sia film che serie televisive - è unire uno schietto divertimento a quella sorridente saggezza che fa bella la vita. 
Qualche esempio? 
Pensate a "La spada nella roccia" e alle preziose istruzioni di Mago Merlino a
Semola: a proposito, ne ho parlato neanche tanti anni fa qui. Oppure, passando a Robin Hood, gustatevi la tenera scena del compleanno di Saetta o la successiva in cui Lady Marian e Lady Cocca giocano insieme. Ma anche le sequenze in cui protagonisti sono Re Giovanni e Sir Biss, oltre a divertire, fanno riflettere perchè rispecchiano tratti di sconcertante attualità.

Tuttavia, il bello di queste pellicole è anche il fatto che, oltre ai caratteri dei personaggi, ci restano dentro certe battute che finiscono per entrare nelle nostre espressioni quotidiane. Per carità! Accade con tanti generi di film che ci impossessiamo di alcune frasi fino a usarle nel nostro linguaggio: da "Domani è un altro giorno" a "Francamente me ne infischio" o "Sono andato a letto presto" e via dicendo. 
Del resto è un'operazione che si verifica con tutto, dal cinema alla 
poesia fino al linguaggio televisivo: e se talora cogliamo la realtà circostante con gli slogan riduttivi della pubblicità, altre volte invece riaffiora dal profondo anche il dantesco "Non ti curar di lor..." o magari qualche simpatica battuta dei cartoni. Insomma, dati ormai acquisiti tanto che la mia osservazione rasenta la banalità. Ma mi ci soffermo perchè qualche sera fa mi è accaduta una cosetta un po' singolare.

Stavo uscendo dal pronto soccorso dopo un ricovero lampo per un problema poi risolto - tranquilli, sto bene! - e decisamente risollevata dopo una giornata difficile. Ho guardato l'orologio, si era fatta l'una di notte e aspettavo stanca che mio marito venisse a prendermi. Ma quando nel buio ho finalmente avvistato la luce dei fari dell'auto, invece di un moto di gratitudine per il brav'uomo che sotto la pioggia battente veniva a raccogliere i cocci della moglie, il primo impulso che mi è uscito dal cuore è stato il grido di Tonto nella celebre sequenza di Robin Hood: "È l'una di notte e tutto va bene!".

Tonto...ve lo ricordate? Ma certo! Il simpatico e sciocco avvoltoio che insieme a Crucco fa la guardia al servizio dello sceriffo. Poi nella pellicola non tutto va per il meglio, ma quella frase, rimastami in testa da tempo, riaffiorava ora ad allentare la tensione della giornata e a restituirmi il sorriso. E mi è risuonata dentro proprio come è gridata nel film, con le vocali strascicate: "È l'uuna di nootte e tuutto va beene!", mentre un'ombra di sorriso mi si disegnava in volto, anche se nel buio non se n'è accorto nessuno. 

Ora, che cosa c'entri questa storiella in un blog di musica, non lo so, ma Tonto mi è sempre piaciuto, qualche volta mi ci identifico pure...e avevo voglia di raccontarvela. Spero mi perdonerete.
Se proprio lo desiderate, posso dirvi però che il giorno dopo mi è venuta una gran curiosità
 di sapere su quali note si dipanasse il grido della sentinella. Eccole: FA FA FA FA  RE RE  -  FA FA FA FA  RE RE, quattro quinte seguite da due terze, il che corrisponde perfettamente alle sillabe della frase, in tonalità di SI bemolle maggiore, almeno così mi pare. Se guardate qui il filmato, la voce di Tonto su certe vocali sembra un po' calante, ma dopo una giornata in cui grida a tutte le ore, bisogna capirlo.

Così, è proprio al SI bemolle maggiore che mi sono ispirata per scegliere il brano da regalarvi a conclusione della mia piccola avventura ospedaliera. Siccome tutto si è concluso bene, ho scelto un pezzo che riflette sollievo e leggerezza, gioco e allegria. E chi meglio di Gioacchino Rossini (1792 - 1868) ? Allora eccovi il terzo tempo, "Allegretto", della "Sonata n.4 per archi", giustappunto in SI bemolle maggiore.

Si tratta di una composizione scritta dal musicista a soli dodici anni(!) e questo dettaglio tutt'altro che trascurabile me la fa apprezzare ancora di più per svariati motivi. Primo per la presenza già evidente di moduli compositivi di indubbia eleganza che ritorneranno nelle opere successive; poi per l'andamento leggero e giocoso che, se da un lato è un tratto distintivo di tanta musica rossiniana anche se non tutta, dall'altro esprime la freschezza di chi osserva il mondo con sguardo limpido e festoso. 
Lo sguardo di un ragazzino a cui - scommetto - sarebbero piaciuti anche i cartoni
di Walt Disney, Tonto compreso.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)