giovedì 31 luglio 2025

Tazio

Dal mio nido d'altura in vista del Gran Paradiso, osservo le nuvole che scorrono
lentamente sulle cime formando e dissolvendo piano figurazioni fantastiche. 
Mi piace - quando non sono in giro - stare sul balconcino che guarda l'ampio panorama di ghiacciai, rocce e fitte abetaie, osservando come la luce del pomeriggio che avanza muti prospettive e colori, rendendo più sfolgorante il sereno della piena estate o facendo presagire talora in largo anticipo l'approssimarsi dell'autunno
È il silenzio a regnare spesso in questo mio angolo arroccato sui
monti. E se il vento, le cicale, il latrato di un cane o a volte voci di bambini sembrano spezzarlo, in realtà non ne sminuiscono l'incanto: un'atmosfera riposante fatta di suoni che ormai conosco e gesti quotidiani scanditi dall'orologio del campanile con lenti rintocchi che mi sono abituata ad attendere.

C'è per esempio una nonna che, fuori dalla casetta qui sotto, all'ora di pranzo e di cena fa risuonare ripetutamente il suo richiamo ogni volta più perentorio e imperioso: "Tazio!!!...Tazioooo!!!".
All'inizio, dal mio balconcino poco più su non ci facevo caso. Poi, a furia di sentire quel nome gridato ai quattro venti in tutti i toni, ho pensato chiamasse uno dei nipoti che giocava lì vicino e sono rimasta colpita da quel nome così inusuale e altisonante: Tazio! A voi che cosa ricorda?

Dalla storia romana all'automobilismo c'è di che spaziare, passando magari per il cinema. Da quello che viene considerato un leggendario re di Roma insieme a Romolo (ricordate "O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti"), al grande Tazio Nuvolari, per arrivare al giovane protagonista del film "Morte a Venezia": Tadzio, appunto! Così andavo ipotizzando quali eredità familiari o spunti culturali avessero indotto dei genitori a dare a un bimbo questo nome. 

Ma l'altro giorno, mentre aspettavo che, dopo insistenti richiami, Tazio si materializzasse, veloce come una freccia finalmente è arrivato e ho scoperto che non è affatto un bambino: Tazio è un gatto!!! Un bel micio tigrato che si aggira spesso tra il rustico praticello e una catasta di legna qui davanti, infrattandosi fra i tronchi e i cespi rosa di epilobium fino a far perdere le sue tracce. 
Non ha fretta mentre si muove qui sotto a insidiar farfalle, e se dal balconcino lo
chiamo anche solo con un cenno, alza subito il musetto verso di me con occhi guardinghi ma curiosi. Quando però ha sentore di cibo pronto, con guizzo fulmineo degno davvero di un asso della velocità come Nuvolari si infila in casa, inconsapevole della portata epocale del suo nome.

Ora lo so che voi avevate già subodorato che Tazio non fosse uno qualsiasi e che in fondo a questa storiella ci sarebbe stata la sorpresa! Ma quale musica dedicargli?
Qui vi confesso che - come dicevano i Latini e certo anche Tito Tazio - mi sono
trovata in gran discrimen, cioè in una situazione di incertezza e dubbio davanti a una decisione importante, diciamo davanti a un bivio: scegliere una musica adatta al gatto, o una che si accordasse al suo nome? Capite che il dilemma non era da poco, quindi che fare? Per il micio e il suo ambientino casalingo mi occorreva un brano vivace ma non troppo e di tono familiare; per il nome invece, come non pensare a un pezzo importante e magari a Mahler che fa da colonna sonora proprio al film "Morte a Venezia"?

Volendo, la storia della musica ci presenta anche il "Duetto buffo di due gatti" di Rossini, ma posso dirvelo francamente? Non mi è mai piaciuto. 
Avevo pensato poi a un brano dalla colonna sonora del film "Il Gattopardo"
perché nel titolo della pellicola c'è appunto il gatto: Gatto - pardo...Ma non ho dato seguito alla cosa perchè, con una motivazione di tale profondità metafisica(!), ho temuto che qualcuno mi avrebbe tolto il saluto!

Poi però, ho alzato lo sguardo sul paesaggio e sulla sua ampiezza, dai monti ai prati, dai ghiacciai fino al mio paesetto appolliato qui, gatto compreso, e sono tornata alla percezione di infinito che ci regala Gustav Mahler (1860 - 1911) nel celebre "Adagietto" della "Sinfonia n.5 in do diesis minore". , è proprio la colonna sonora del film "Morte a Venezia" che ho già pubblicato tanti anni fa e che vi ripropongo sempre nella direzione di Claudio Abbado.  

Al di là della vicenda narrata nella pellicola che questa musica ricorda con intensità, mi pare tuttavia che le sue note vadano oltre, dando voce alla bellezza e a quella vastità del creato che talora le parole sono insufficienti ad esprimere. Questo movimento della Sinfonia successivo ad altri più vivaci e che il compositore ha indicato con la dicitura "Sehr langsam" (molto lento), attraverso il suono degli archi e dell'arpa ci regala infatti una pausa di raccoglimento e di estatica contemplazione. 

È una musica che ci offre suggestioni ora sublimi ora vagamente inquietanti, facendoci percepire spazi sconfinati insieme a un senso di caducità, un po' come il panorama stupendo e insieme fragile che ho intorno.
Una musica che sembra interpretare la magnificenza del creato che ogni cosa
avvolge e accarezza: dalla più grande alla più piccola, dalle cime dei monti alle farfalle, dalla campana del paese che segna lo scorrere del tempo fino al gatto, sì!, anche lui meravigliosamente parte del tutto.

Buon ascolto!

(La foto è mia) 

 

mercoledì 23 luglio 2025

Se lo sguardo è femminile - 7


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono state la grazia e la trasparenza della pennellata nel dipinto che vedete qui sopra ad orientare stavolta la mia scelta di sguardi femminili. E a proposito di questo "Autoritratto", conservato presso la National Gallery di Londra, potrei anche parlare di garbo ed eleganza. 
Autrice è 
Élisabeth Vigée Le Brun (1755 - 1842), artista francese che probabilmente tanti conoscono anche perchè le riproduzioni di alcuni suoi quadri a tema familiare hanno sempre avuto larga diffusione. È stata infatti una ritrattista dalla brillante carriera durante la quale ha dipinto non solo dame di corte divenendo la pittrice preferita della regina Maria Antonietta, ma anche opere che celebrano la maternità e gli affetti familiari, cosa singolare in un'epoca in cui il ruolo della donna era relegato in ambito privato. 
La rivoluzione francese poi l'ha costretta ad abbandonare Parigi, ma questo le
 ha consentito di girare per le corti europee, da Vienna a Londra, da San Pietroburgo a Roma e non solo, facendosi apprezzare ovunque.

Artisticamente, la Le Brun si colloca nel periodo neoclassico, e tuttavia le sue creazioni non hanno quel carattere di aulica freddezza che troviamo in talune opere dell'epoca, non soltanto perchè la pittrice predilige il tema del ritratto, ma anche per la sua abilità nel catturare la luce, cosa che dona ai suoi dipinti grande morbidezza. E a tal proposito, osserviamo questo suo autoritratto - peraltro non l'unico - in alcuni dettagli.

Sono gli occhi ma anche le labbra, è l'incarnato lievemente roseo del viso con il candore del collo, e insieme sono gli orecchini a riflettere la luce conferendo al viso della donna una grazia ariosa. Ma a creare tale effetto di trasparenza, è anche lo spazio aperto in cui il ritratto è ambientato, con il cielo azzurro da sfondo e quelle nuvole che forse sarebbero piaciute al Tiepolo.

Una grazia che si riflette anche nell'abbigliamento: dal cappello di paglia con la morbida piuma e un serto di fiori di campo, ai lievi volant del corpetto, ai capelli non raccolti in un'acconciatura elaborata ma lasciati andare al vento, fino allo scialle scuro che l'avvolge fatto di un tessuto leggero e impalpabile.

Ma non si può trascurare il dettaglio a mio avviso più importante di questo ritratto, quello che connota Élisabeth Le Brun non solo come giovane donna ricca di leggiadria - e ricordiamo che il dipinto la ritrae a ventisette anni - ma prima di tutto come pittrice: la tavolozza. 
Tavolozza, pennelli e colori sono infatti
infilati nella sua mano sinistra e pronti per essere usati dalla destra qui dolcemente in riposo, e dallo sguardo della pittrice del quale ora intuiamo meglio l'espressione.

E com' è lo sguardo di un pittore? È un occhio intuitivo che spesso sa andare al di là della superficie e delle apparenze, oltrepassando la barriera della pura fisicità per cogliere l'anima di ciò che rappresenta, sia esso persona od oggetto.
La Le Brun si sofferma sulle persone, ma
 il suo sguardo non ha nulla di formale come potrebbe suggerire un ritratto d'occasione. Va invece ad indagare con dolcezza la psicologia delle figure femminili rappresentate facendo talora affiorare il mondo degli affetti che ciascuna cela. Ma com'è lo sguardo di una pittrice quando ritrae se stessa?

Non è argomento su cui si possa generalizzare, mi limito perciò a osservare questo dipinto nel quale mi pare che l'artista abbia colto in sè quella serenità interiore di chi nella vita sta realizzando il proprio talento, ciò per cui si sente tagliato: in questo caso la pittura. Leggo infatti nello sguardo di Élisabeth una gioia pacata, non sfolgorante ma tenera, animata da una serietà pensosa, una dolce fermezza che cogliamo nei suoi occhi rivolti allo spettatore ad esprimere consapevolezza di sè. E mi pare che questa immagine rifletta insieme l'autenticità di chi fa del proprio lavoro non un abito puramente esteriore, ma una passione che nasce dal profondo.

E passando alla musica, la grazia garbata di questo dipinto mi ha fatto subito risuonare in mente un brano di Ludwig van Beethoven (1770 - 1827). 
Si tratta del primo movimento della "Sonata per pianoforte n.24 in Fa diesis 
maggiore op.78" detta "A Teresa" perchè dedicata a Teresa di Brunswick con la quale il compositore ebbe una grande intesa intellettuale. 
Il pezzo luminoso e dolce, è a tratti gioioso e animato, altrove malinconico, ma
sempre trasparente a somiglianza di questo dipinto. L'indicazione agogica di "Adagio cantabile - Allegro ma non troppo" si adatta davvero bene ad un tema che, dopo lenti accordi introduttivi, si apre in una melodia limpida che ci resta dentro proprio per la sua cantabilità. 
E se alcuni passaggi si fanno più accesi, Beethoven ne smorza subito la drammaticità per riportare la composizione ad una mirabile morbidezza che qui l'interpretazione di Alfred Brendel mette in splendida luce.

 Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

  

mercoledì 16 luglio 2025

Inquietudini di un diciassettenne.

Aveva diciassette anni Wolfgang Amadeus Mozart quando compose la "Sinfonia n.25 in sol minore K.183" della quale oggi mi piace condividere qui il primo movimento. 
Era il 1773 e, come testimonia il
numero d'opera, il ragazzo aveva già al suo attivo numerose sinfonie, senza contare minuetti e piccoli pezzi che aveva iniziato a scrivere a soli cinque anni. Bambino prodigio, come tutti sappiamo, e non semplicemente per la precocità della sua attitudine musicale, ma anche per la chiarezza compositiva che fa delle sue partiture un vero miracolo di equilibrio e luminosa armonia. Ma non è questo il punto su cui desidero soffermarmi.

M'interessa invece la tonalità in sol minore di questa sinfonia che - insieme alla più celebre n.40 K.550 - costituisce un'eccezione nel complesso delle altre 39 tutte in maggiore. Dell'argomento ho già parlato lo scorso anno prendendo in esame il primo tempo della n.40 considerata la Grande per la sua maturità espressiva, mentre la n.25 è detta la Piccola. Si tratta infatti di un'opera giovanile in cui Mozart - come ricordavo in passato - prende spunto dal sinfonismo di Franz Joseph Haydn. Opera, tra l'altro, fortemente criticata dal padre Leopold forse perchè non strutturata secondo i dettami dello stile galante e della frivolezza di tante composizioni dell'epoca.

Però...Però ascoltandola e cogliendone la concitazione iniziale, mi sorgono altre considerazioni che me la fanno valorizzare non meno delle successive. 
È acceso e drammatico l'esordio, sostenuto - come si vede nella foto - da note ribattute, e il tema impetuoso e passionale, prima forte, poi ripreso più sommessamente dal bellissimo canto dell'oboe, esprime con intensità i tormenti di un ragazzo sul finire dell'adolescenza. Certo, un Allegro con brio in minore suona un po' contraddittorio, ma forse l'espressione indica solo la vivacità scorrevole del brano.
Suggestivi i due intervalli discendenti iniziali (sol - re  e  mi - fa#), soprattutto il
secondo che, dal mi bemolle, ci conduce giù fino a un angoscioso fa diesis con uno splendido salto di settima diminuita. Così pure, la successiva fragorosa esplosione in tonalità maggiore col suo tema più solare - lo stesso che più avanti sarà ripreso invece in minore - non fa che confermare la crisi di un animo adolescenziale che, come è tipico dell'età, vive i contrasti senza mezze misure ma in modo netto e assoluto.

Reduce da alcuni viaggi in Italia e a Vienna utili per la conoscenza di altri musicisti, ma deludenti sul piano della ricerca di un'occupazione stabile presso qualche corte, il diciassettenne Mozart ritorna nel 1773 nel chiuso dell'ambiente salisburghese. Ma il desiderio di nuove vie più personali e più consone al proprio talento insieme alle suggestioni preromantiche del periodo lo portano lontano dalla frivolezza dello stile decorativo richiesto talora dai committenti, e l'uso della tonalità minore sembra esprimere proprio tale desiderio segnato da inquieta introspezione.
Nonostante alcune aperture, l'impressione che resta ascoltando il primo
movimento della K.183 è infatti il predominare di un'atmosfera drammatica e di un impeto che - in seguito - Mozart smorzerà fondendo serenità e tristezza, luci ed ombre in quel mirabile equilibrio che tutti conosciamo. 
Basti confrontare questo esordio così netto e oserei dire quasi tagliente con il clima
 di soffusa malinconia delle prime battute della K.550 scritta quindici anni dopo.
Una sinfonia, la K.183, che segna quindi la fine dell'adolescenza e insieme una
svolta verso la maturità artistica, sia per la padronanza delle strutture compositive che per l'intensa volontà del giovane musicista di dar voce più compiuta e autentica alla propria anima. 

 Buon ascolto!

(La foto è presa dal web) 

 

mercoledì 9 luglio 2025

Le rose e la Tour Eiffel

Ho sempre pensato - e chissà quanti di voi si sono trovati a fare la stessa considerazione - che gli oggetti che ci circondano, da quelli di uso quotidiano ad altri più significativi, non siano in realtà semplici oggetti, ma si carichino talora del nostro vissuto per restituircelo. 
Possono essere soprammobili, stoviglie o magari
indumenti che si sono legati a noi per un particolare ricordo insito in loro o relativo alla circostanza per cui ne siamo venuti in possesso.

Così anche una sciarpa, un piatto o un grembiule possono assumere valenze inusitate che ci riportano non soltanto a un evento registrato nella memoria, ma proprio all'intensità del nostro vissuto e allo stato d'animo che la loro presenza ci consente di ripercorrere. In realtà, sono percezioni nate dalla soggettività della nostra esperienza che proiettiamo su di essi, ma talora fanno sì che tali oggetti ci accompagnino nel nostro quotidiano con una sorta di segreto sorriso che sa davvero rendere vivo anche il passato.

Tutto questo per dire che ho un grembiule da cucina che indosso in particolari occasioni e soprattutto quando, appunto, ho bisogno di tornare a sorridere. 
Ti basta così poco? dirà qualcuno. No, non basta, però un oggetto ha una tale
immediata concretezza che a volte può dissipare qualche piccola nube e insieme predisporre alla gioia.

Ha il fondo chiaro il mio grembiule - ne vedete un dettaglio nella foto - e porta disegnata sopra una grande Tour Eiffel grigia con accanto un mazzo di sgargianti rose rosse, insieme al frontespizio di una delle prime copie del quotidiano francese "Le journal de Paris". 
Ma per quale motivo mi piace tanto? Perchè è legato al luogo e al momento in cui lo
 avevo acquistato diversi anni fa: un grande magazzino di oggetti per la casa nel centro di Milano dove vado spesso e dov'ero passata anche quella sera, sotto Natale.
Ero sola, avevo tempo e così, con la mente alle cene delle vicine feste,
avevo comprato una bella tovaglia bianca con ricamo à jour e poi, girellando tra gli scaffali, avevo adocchiato il grembiule. In realtà non mi serviva, ma costava poco e appagava lo sguardo insieme a qualcosa di più. Sono sempre stata un tipo sobrio, ma quella vivacità sgargiante e un po' originale colmava un desiderio segreto di più aperta allegria, quasi la serenità che covavo in cuore quella sera avesse bisogno di manifestarsi all'esterno concretizzandosi in un oggetto che la esprimesse.  

Così, senza esitazione lo avevo comprato ed ero uscita dal negozio piena di gioia, nell'atmosfera di vivace animazione che precede le vacanze di Natale nella quale mi ero immersa senza fastidio per la confusione, ma col mio piccolo bagaglio orientato a preparare la festa.
Poi, nel tempo, pur tenendolo un po' da conto l'ho usato diverse volte e anche ora, a distanza di alcuni anni,
 è come se mettendomelo potessi in qualche modo indossare la gioia di quella sera d'inverno. 

E proprio la Tour Eiffel che giganteggia sul grembiule mi ha ispirato il pezzo di oggi, una musica francese naturalmente. Così sono tornata a Charles Gounod (1818 - 1893) e alla dolcezza accattivante delle sue composizioni scegliendo "Les Nubiennes", primo brano della Suite per balletto aggiunta nel 1869 alla versione originale del "Faust"
Si tratta di un valzer delicato e ricco di freschezza che, pur nella sua semplicità, si fa trascinante e riesce a portarci via con sè nel suo ritmo di danza. Il tema ha un andamento talora ripetitivo, ma direi che proprio questo suo carattere, lungi dal creare monotonia, ci consente di entrare nel vivo della musica con progressiva
intensità. 
E mi ci vedo mentre seguo il ritmo di queste note avvolta in quel grembiule,
volteggiando elegantemente per la cucina col mestolo in mano e inanellando sogni che solo la musica può regalare. 

Buon ascolto!

(Ovviamente la foto è mia)