
Si tratta del più celebre dipinto dell'artista, ma è prima di tutto un'immagine che mi riporta alla mia infanzia, in particolare alle pagine di una enciclopedia per ragazzi che aveva una sezione dedicata alla Storia dell'Arte.
Mi limitavo allora a guardare le figure e il dipinto mi aveva colpito non tanto per il suo significato, nè per l'iconografia che naturalmente all'epoca non potevo comprendere, ma per l'atteggiamento della donna rappresentata.
La sua compostezza, la lieve malinconia dello sguardo e quel manto - ai miei occhi di bambina - di una serietà monacale, mi mettevano infatti soggezione.
Preferivo di gran lunga l' "Annunciazione" di Simone Martini il cui angelo dalle ali variegate e dal panneggio danzante era riprodotto su di una tavola di legno accanto al mio letto: insomma, un'immagine casalinga con la quale la quotidianità mi aveva familiarizzato.
Sull' "Annunziata" di Antonello mi soffermavo invece sfogliando di tanto in tanto l'enciclopedia, ma mi lasciava perplessa quell'aura di riservatezza che la figura emanava e che non riuscivo a sondare. Del mistero che il dipinto intende rappresentare coglievo solo la distanza e quel titolo per me enigmatico.
Ho capito in seguito la singolarità dell'opera in rapporto ad altre sullo stesso tema: sta infatti nell'assenza dell'angelo Gabriele il cui passaggio è adombrato solo dal libro coi fogli mossi da un leggero soffio di vento.
Del resto, il titolo "Annunziata" - diversamente da "Annunciazione" che si focalizza anche sull'angelo - porta la nostra attenzione su Maria e sul suo modo di vivere l'evento che qui Antonello ci offre in una dimensione tutta interiore, come testimonia lo sguardo assorto e compreso della Vergine.
Ma l'originalità sta anche nello splendore delle mani: una a chiudere con un gesto di lieve pudore il manto - esattamente sulla linea del profilo del viso e della piega della stoffa sulla fronte - e l'altra protesa forse a promettere o a fermare l'angelo...chissà! In ogni caso, una mano in posizione prospettica che deve aver fatto scuola ai contemporanei - basti pensare a Leonardo - ma anche in seguito.
Gesti lievissimi di un'iconografia dove tutto è ricondotto all'essenziale: non una stanza, una cella, un loggiato, un giardino, un'inginocchiatoio come in tanti dipinti coevi. Solo uno sfondo scuro ad ambientare la scena e pochi arredi a definire lo spazio. Semplicità, ordine e compostezza di un artista che ha fatto sue le novità prospettiche del Quattrocento e l'influsso della pittura fiamminga, ma al tempo stesso ha profuso in quest'opera la propria abilità di ritrattista.
A prenderci è infatti lo sguardo di Maria, serio, pacato, profondo, illuminato da una luce che mette in evidenza la carnagione e lo splendido ovale del viso: una bella figliola siciliana appena distolta dalla meditazione delle Scritture e colta in un atteggiamento misurato che le conferisce - almeno così a me pare - uno spessore di donna adulta e consapevole.
Anche la scelta dei colori, scuri e contraddistinti dall'inusuale contrasto tra il nero dello sfondo e l'azzurro cupo del manto, contribuiscono a creare un clima in cui tutto è pacatamente ricondotto a un vissuto interiore.
Allora mi piace commentare questa immagine con l' "Ave Maria" di Anton Bruckner (1824 - 1896) quasi fossimo noi - mentre ascoltiamo e contempliamo - a prendere il posto dell'angelo che nel quadro non compare.
A somiglianza del dipinto, anche il coro si apre in un' atmosfera pacata che tuttavia si accende, come un' invocazione o più ancora un grido, sul nome Jesus, in corrispondenza del quale le quattro voci che all'inizio avevano cantato separatamente - prima quelle femminili e poi le maschili - si sommano continuando insieme.
Una melodia che, soprattutto nella seconda parte, si dipana alternando la tonalità maggiore a quella minore. E mi pare possa interpretare bene l'atteggiamento pensoso di Maria e il suo sguardo assorto e consapevole.
Buon ascolto!