venerdì 30 giugno 2017

Un canto nella notte

L'altra sera, al consueto appuntamento settimanale col mio coretto di paese, abbiamo iniziato le prove dell' "Ave Verum" di Mozart.
Sì, proprio il famosissimo "Ave Verum Corpus K.618", mottetto in Re maggiore, splendido pezzo del repertorio di chissà quanti gruppi corali.

Era tanto che lo aspettavo, pregustando la gioia di poter entrare nel cuore vivo di un brano soavissimo come questo. 
Intendiamoci, i nostri coristi di più antica frequentazione - la vecchia guardia del gruppo, se così si può dire - lo conoscevano benissimo per averlo già cantato in passato e addirittura registrato in un concerto di tanti anni fa. 
Ma per me che sono e resto l'ultima ruota del carro, si trattava della prima volta e la cosa mi ha riempito di grande entusiasmo, aiutandomi a dimenticare i fastidi del caldo e della stanchezza serale. 
Del resto, la parte dei soprani tra i quali sono inserita, pur avendo la difficoltà di essere la più alta tra le quattro, in genere non è la più problematica perchè il suo andamento corrisponde all'aria sulla quale si snoda il pezzo. Pìù difficili sono invece le parti delle altre voci - contralti, tenori e bassi - che cantano melodie talora del tutto diverse da quella principale, alla quale fanno da sostegno dandole spessore e profondità.

Bene. Per tanti di noi si trattava quindi di un ripasso, ma il nostro maestro, giustamente attento al rispetto della corretta tonalità, ma anche alle dinamiche del testo e all'equilibrio tra le varie sezioni, ci ha fatto praticamente rifare tutta la parte iniziale.
Prima i tenori da soli, poi i bassi, poi tenori e bassi insieme; in seguito tenori coi soprani. Poi i contralti da soli, poi coi soprani, poi coi tenori, infine tutti. 
Forse ho saltato qualche passaggio, ma chi canta in un coro sa bene di che cosa sto parlando anche se, in realtà, non è così semplice come dirlo. 
Capita infatti che ogni frase musicale debba essere ripetuta più volte, perchè l'orecchio di un maestro sa cogliere ogni minima sfumatura di errore, ogni nota calante, ogni ritardo nel tempo fino al più piccolo squilibrio tra le voci. 
E allora....da capo!
Insomma, alla fine il canto ha preso forma: una costruzione progressiva che ci ha condotto ad entrare gradatamente nel testo e a sentirlo nel suo farsi, nel suo crescente splendore polifonico e in un'armonia sempre più marcata e piena. Una meraviglia!

Ma c'è di più.
Il fatto è che, dato il caldo della serata estiva, cantavamo con la finestra aperta sui tetti e sulla campagna vicina, mentre il profilo delle case - uno skyline di tegole e vecchi comignoli - prima stagliato contro il cielo blu cobalto, pian piano affondava nel buio. 
Dico la verità: non c'era la luna in cielo a sollecitare in me suggestive reminiscenze leopardiane o a splendere come nella foto in alto che pure è bella e rende bene l'atmosfera della notte. 
C'era però il nostro canto - interrotto e poi ripetuto con crescente intensità - che, uscendo dal chiuso, andava a spandersi nell'aria prendendo risalto dalla calma e dal silenzio circostante.
Ed è stato così che - il maestro mi perdoni - a un certo punto mi sono persa via con la mente, immaginando l'effetto che la soavità del brano di Mozart doveva fare su chi, forse, in quel momento lo sentiva da lontano.

Cantavo e insieme pensavo a quale sopresa, quale stupore doveva suscitare l'eco di quelle note, giungendo a chi sostava sulla piazzetta della Chiesa per due chiacchiere, o a chi faceva la sua passeggiata serale in cerca di fresco, o ancora a chi, sulla strada che viene su dai campi, guidava piano magari col finestrino aperto. Per effetto della lontananza, perdendosi nell'aria, la melodia doveva arrivare proprio "sottovoce", così come Mozart aveva disposto nelle indicazioni del testo.
Pensavo allo splendore di questa musica capace di entrare nell'anima come un miracolo di bellezza che ti cambia dentro regalandoti uno sguardo nuovo, e avevo l'impressione che, vagando lenta nel silenzio della notte, si posasse sulle cose come una benedizione facendo affiorare il loro segreto incanto.
 
Ma al tempo stesso riflettevo su quale immenso dono sia far parte di una corale e quali risvolti di poesia abbiano talora in sè anche le fasi preparatorie di un lavoro, al di là della fatica o della stanchezza, dell'infinita pazienza o del caldo di una sera di fine giugno.

Buon ascolto!

venerdì 23 giugno 2017

Le domande traverse

(foto presa dal web)
Tempo di esami, in particolare di maturità.
Anche se manco ormai da anni dal mondo della scuola, non posso non essere toccata dall'ansia di questi giorni, un po' per la curiosità di conoscere gli argomenti delle prove, un po' per qualcosa di viscerale che mi riporta indietro di parecchio.

Sono sempre andata a scuola più che volentieri, sia da studentessa che in seguito, quando sono passata - diciamo così - dall'altra parte della barricata. 
Ma se penso agli inizi del mio percorso di allieva, oltre che dalla gioia, li vedo contrassegnati dalla paura. Paura di sbagliare, di essere impreparata, di un voto o un giudizio negativo, ma soprattutto del compito in classe di matematica che - fino alla terza media - ho vissuto con profonda ansia più di qualsiasi altra prova. Per me era il compito per eccellenza, con tutta la sua carica di oscura minaccia!

Al tempo in cui frequentavo le elementari, parafulmine contro queste paure era mia madre. Ogni mattina, infatti, il mio timore era quello di sbagliare il problema che la maestra ci assegnava quotidianamente con inflessibile puntualità ed era divenuta procedura di rito che mia madre mi rassicurasse al momento di uscire di casa.
La scena avveniva di solito quando ero ormai sulle scale. 
Abitavo allora in un vecchio stabile, terzo piano, niente ascensore. 
Ho un ricordo azzurrino di quelle mattine, forse dovuto al colore delle pareti del pianerottolo o alla luce che filtrava dal lucernario soprastante. Salutavo la mamma, scendevo ma, arrivata alla fine della prima rampa di gradini dove la scala curvava leggermente, mi giravo e, levando il viso verso di lei che dalla porta mi seguiva con lo sguardo, immancabilmente chiedevo:
"Non sbaglierò il problema???"
Lei mi tranquillizzava assicurando che no, non lo avrei sbagliato!!! 
E io mi avviavo pacificata, trattenendo in me quella certezza come un tesoro fragile e prezioso.
Guai se mi avesse detto il contrario, se avesse azzardato un dubbio o anche parlato in termini di sola speranza! Guai se la sua risposta avesse tradito la minima esitazione! La sua incertezza mi avrebbe precipitato nella disperazione o confinato nello smarrimento.
La sua sicurezza doveva essere per me totale, granitica, la recita doveva essere perfetta. E anche se, nel mio istinto di bambina, intuivo che - appunto - di recita si trattava, pure essa bastava a rassicurarmi come un rito, una sorta di atto propiziatorio al quale mai avrei rinunziato.
Del resto, per lei non era poi così difficile sostenere quella parte: le minime difficoltà della scuola elementare e i miei risultati positivi contribuivano a fondare concretamente la sua convinzione.

Ma col passare del tempo le cose erano gradatamente cambiate fin quasi a capovolgersi. A misura che una certa sicurezza si faceva strada in me dissolvendo le varie paure, quella di mia madre invece s'indeboliva sempre più, forse anche in conseguenza dei miei esiti scolastici talora un po' altalenanti.

Ero approdata nel frattempo alle medie e poi alle superiori.
Ora era lei che, accompagnandomi alla porta, con una venatura di preoccupazione nella voce soprattutto nei giorni di verifica o interrogazione, raccomandava:
"Stai attenta alle domande traverse!!!".
Nel lessico di mia madre le "domande traverse" erano certo le astuzie e i trabocchetti orditi a volte dagli insegnanti per mettere alla prova gli studenti, ma rappresentavano anche tutto ciò che richiedeva sforzo di ragionamento, là dove non fosse sufficiente il piano e immediato soccorso della memoria. 
Erano per lei il simbolo dell'intelligenza tesa a smascherare me che viaggiavo invece nella più beata e sprovveduta ingenuità.

La rivedo, mentre mi ripete la frase con occhi attenti e nello sguardo il lampo di chi sta all'erta, sporgendo il capo dal tendone che schermava la nostra porta a vetri. Era una vecchia tenda nella quale, da bambina, mi avvolgevo inventando melodrammatiche storie nei lunghi pomeriggi della mia infanzia di figlia unica. Da quella si sporgeva mia madre, mettendomi in guardia contro le domande traverse e simbolicamente contro le insidie della vita. Per lei scuola e vita infatti erano simili: entrambe partite da giocare contro un avversario pronto ad approvare, ma anche a coglierti in fallo.
E a me che rifiutavo ostinatamente questo modo d'intendere l'esistenza e più ancora m'illudevo che il mio cammino potesse essere piano e luminoso come i miei sogni di adolescente, lei ricordava che la vita è spesso anche lotta per la quale occorre addestrarsi con armi interiori.
Attenta alle domande traverse era come dire: svegliati, pensa prima di parlare, ragiona, valuta gli ostacoli e soprattutto non fermarti alla superficie delle cose ma guardaci dentro!!!
Un richiamo, insomma, ad affrontare con occho vigile quanto di obliquo l'esistenza mi potesse riservare. Un richiamo che nel tempo mi si è radicato dentro ad accompagnare la bambina ch'è in me, insieme al lampo di quello sguardo che porto annidato nel cuore.

Allora, in armonia con questi piccoli ricordi di scuola, per passare alla musica ho pensato di proporvi un pezzo nato proprio come esercizio per gli studenti, anzi per meglio dire, "per utilità e uso della gioventù musicale avida di apprendere".
Lo so che, davanti a questa citazione, avete già indovinato autore e opera da cui il mio branetto di oggi è preso! Del resto, chi potrebbe essere se non Bach e quella meraviglia del "Clavicembalo ben temperato" ?
Si tratta infatti del "Preludio n.5 in Re maggiore BWV 850" del I libro, pezzo col quale a suo tempo ho lottato non poco ma che, al di là della sua struttura da esercizio didattico, è un piccolo, incantevole gioiellino.
Ritmo e scorrevolezza sono le sue caratteristiche principali. Ritmo - come si vede dallo spartito - scandito dalla sinistra che sottolinea l'andamento armonico, mentre dalla destra si dipana una melodia di rassicurante continuità che ripete la stessa frase musicale a livelli e toni diversi in una sorta di meravigliosa altalena.
E quest'esecuzione leggera ma soprattutto, in rapporto ad altre, non troppo veloce, ci dà modo di apprezzare - come sempre in Bach - l'unione di varietà e organicità, intento didattico e valore poetico.

Buon ascolto!

 

giovedì 15 giugno 2017

Terapia d'urto

H.Matisse: "La danza" - New York, Museum of Modern Art
Mi è già capitato diverse volte di parlare del potere terapeutico che la musica esercita su di noi e che la rende efficace al pari di un vero e proprio catalizzatore.
Da sempre, del resto, essa ha avuto la capacità di placare gli animi o d'infiammarli, di esortare o di commuovere, come ci testimoniano canti patriottici, inni, preghiere, ma anche dolci e ammalianti melodie.
  
Nelle culture dell'antichità, musica e medicina erano praticamente una cosa sola: lo sciamano sapeva che la vita del cosmo - come pure quella dell'uomo - è costruita secondo principi musicali ed è governata dal ritmo e dall'armonia. Di conseguenza era affidato alla musica stessa il potere di ripristinare tale armonia perduta. Dagli studi di Pitagora al mito di Orfeo o al racconto biblico in cui il giovane Davide suona l'arpa per guarire Saul dall'ipocondria, numerosi sono infatti i riferimenti al valore terapeutico delle note.

Il discorso è vasto, affascinante e ha fondamenti che anche la scienza sta esplorando attraverso studi sull'efficacia curativa delle diverse frequenze di suono. Ma non essendo un'esperta, preferisco restarne ai margini condividendo qui solo ciò che, nella mia piccola esperienza, mi è dato di cogliere.
E la mia piccola esperienza mi suggerisce che, per essere terapeutica, non è strettamente necessario che una musica sia dolce e lenta tanto da indurre al riposo. Il web è pieno di melodie rilassanti a cominciare da quelle di Mozart, Albinoni, Pachebel e via dicendo, alle quali si aggiungono brani costruiti appositamente a questo scopo attraverso la particolare intensità delle loro vibrazioni.
Ma - senza nulla togliere all'incanto o alla funzione di certe arie - se abbiamo bisogno di ritrovare forza, grinta ed entusiasmo ci sono anche altre musiche, magari non altrettanto dolci, ma ugualmente efficaci nella loro energia. 
A restituirci il gusto della vita, può forse servire la giocosa leggerezza di una sinfonia rossiniana, o la vivace architettura di una fuga di Bach o il crescendo del Bolero di Ravel capace di rapirci nel suo vortice di ritmo e di danza. 
E mille altri pezzi di altrettanti compositori.

E certamente anche un brano di Beethoven
Attenzione, però: non tanto il Beethoven del celeberrimo primo tempo della sonata "Al chiaro di luna" davanti al quale tutti c'incantiamo a sognare, e neppure quello del pacatissimo "Adagio" del "Concerto Imperatore" o dell'ancor più famoso "Allegretto" della "Settima Sinfonia", pezzi sublimi che adoro, intendiamoci!
Ma un altro Beethoven, capace di sprigionare in note un'energia nuova, rivoluzionaria, quasi una forza primigenia che - pur nel rispetto delle strutture compositive - s'impone al di sopra di tutto per la propria vitalità. 

Mi riferisco - solo per fare qualche esempio - al tempestoso terzo tempo sempre della Sonata "Al chiaro di luna" e meglio ancora al famosissimo esordio della "Quinta Sinfonia" o al finale della "Settima".
Proprio quest'ultimo è il pezzo che oggi propongo al vostro ascolto: il quarto movimento, "Allegro con brio", della "Sinfonia n.7 in La maggiore op.92".

Se la musica è terapeutica, questa è indubbiamente una terapia d'urto. Introdotto da due fortissimi accordi orchestrali, il brano si snoda infatti come una danza sempre più accesa e trascinante, in taluni passaggi simile anche a una marcia cadenzata, un crescendo d'irrefrenabile ritmo e vitalità che sfocia in un vortice di esaltazione dionisiaca, una sorta di baccanale.

Talora mi capita di pensare a quale dev'essere stata la sorpresa dei contemporanei del musicista - abituati a tanti pezzi di puro intrattenimento, ma anche all'equilibrio e alla compostezza di Mozart o Haydn - di fronte a una musica come questa che è una sorta di forza della natura. 
E, per analogia, mi viene spontaneo associarvi i contemporanei di Michelangelo che, dopo le dolci Madonne di Raffaello e Perugino, si sono trovati di fronte al Giudizio Universale della Sistina: un impatto dirompente per novità di stile, iconografia, realismo...tutto!

Ecco, Beethoven qui mi pare il Michelangelo dei musicisti, in un brano che supera gli schemi per affondare le radici nella vita e che - come spesso accade alle novità - a suo tempo non ha trovato consenso unanime. 
Se infatti il famosissimo "Allegretto" della "Settima Sinfonia" è stato subito entusiasticamente apprezzato dal pubblico e in seguito Wagner ha definito l'intera composizione "l'apoteosi della danza", il finale al contrario ha suscitato pesanti critiche. Basti ricordare che il compositore Carl Maria von Weber l'aveva definito opera di un malato di mente ed altri ritenevano che fosse stato scritto dalla mano di un ubriaco.
Ma se - come Beethoven affermava - "la musica deve far sprizzare fuoco dallo spirito degli uomini", lo scopo è stato raggiunto. 
Io sento in essa la libertà assoluta del compositore che dà voce al proprio istinto gioioso facendolo prevalere su di una visione dolorosa e tormentata dell'esistenza che lui stesso - all'epoca già colpito dalla sordità - aveva sperimentato. Ne deriva una suprema affermazione di vita di una grandezza entusiasmante.

A renderci partecipi di tale grandezza è la prestigiosa "Simon Bolivar Symphony Orchestra of Venezuela" qui diretta da Gustavo Dudamel. 
Fondata nel 1978, essa è uno dei frutti del sistema di educazione musicale pubblica, libera e gratuita per i bambini di tutti i ceti sociali, istituito dal Maestro Josè Antonio Abreu. Buona parte dei musicisti proviene infatti da situazioni economico-sociali disagiate e l'accesso al mondo della musica diventa cosi via di fuga dalla povertà e insieme strumento di promozione non solo artistica, ma anche umana e intellettuale.
A ben guardare, un'efficace terapia anche questa, un'iniziativa che merita certamente applausi senza fine e tutto l'entusiasmo che sentirete...

Buon ascolto!

mercoledì 7 giugno 2017

Prendere il largo...

Penso che tutti noi - sia che della musica abbiamo una conoscenza approfondita, sia più limitata e occasionale - abbiamo sempre colto quanto il suo universo sia vario e multiforme. 
E non semplicemente per i tanti generi che essa ci propone, ma perchè anche all'interno di ciascun genere il talento di ogni compositore sa spaziare attingendo a fonti inesauribili di bellezza e novità.
Sono soltanto sette le note, o dodici se preferite, ma - coniugate da uno spirito infinito, da un'ispirazione originale e da una pluralita di stili e ritmi - diventano capaci di toccare ogni più piccola sfera dell'animo, ogni sfumatura di sentimento, arrivando talora ben al di là delle intenzioni del compositore.

Sta proprio qui il bello e un po' anche il mistero che sperimentiamo ogni volta che ci accostiamo ad un'opera arte, a qualunque campo essa appartenga. 
Al di là del significato attribuitole dall'autore, a volte le emozioni che essa suscita vanno oltre, come se un varco si aprisse verso orizzonti sconfinati ed essa prendesse ad interagire con noi portandoci lontano.
Ciò può accadere in modo ancor più marcato con quelle musiche non strettamente legate a dei testi i quali di solito, se da un lato lasciano una certa libertà d'interpretazione, dall'altro però la circoscrivono entro precisi limiti di parole. La musica non mediata dalle parole, infatti, arriva subito al profondo in maniera totalmente libera, andando a svegliare emozioni che vibrano in modo tutto nostro.

Ma talora ciò accade ugualmente anche con brani inseriti in un determinato contesto o all'interno di una particolare trama, e che tuttavia se ne distaccano prendendo a vivere di luce propria.
Mi pare sia così per il pezzo di oggi che ho da tempo in lista di attesa: il famoso quanto suggestivo "Intermezzo" dall'opera "Suor Angelica" di Giacomo Puccini (1858 - 1924).
Conosciamo tutti la triste vicenda che vi si dipana ambientata alla fine del Seicento. Essa ha per protagonista una fanciulla aristocratrica, costretta da sette anni in convento per scontare un peccato d'amore e la conseguente nascita di un figlio che le è stato subito tolto, così come - in seguito - lei stessa sarà esclusa dal patrimonio di famiglia. 
Una storia non infrequente nei secoli passati e che - sia pure con le dovute differenze - ha due grandi precedenti letterari: la manzoniana Monaca di Monza de "I Promessi Sposi" e Maria, protagonista del romanzo giovanile del Verga "Storia di una capinera".

Nell'opera di Puccini, l'Intermezzo interviene poco prima della conclusione della vicenda, quando Angelica ha appreso la notizia della morte del figlio e medita un suicidio del quale, ormai morente, si pentirà invocando dalla Madonna il perdono.
Il pezzo è soffuso di profonda malinconia e ben si adatta all'argomento e alla situazione. E' u
na mirabile piena di sentimenti quella che le note del compositore ci offrono, effusione dell'amore di Angelica per il figlio mai dimenticato e desiderio di ritrovarlo nella morte. Il brano è segnato infatti nella parte centrale da accenti prima drammatici, poi gradatamente più lievi, e va a concludersi con un pacatissimo accordo in tonalità maggiore: un'apertura di serenità, forse riferimento alla visione finale in cui la Madonna mostrerà il bimbo ad Angelica morente.

Tuttavia, al di là del contesto narrativo che pure le note interpretano con rara efficacia, resta comunque una musica aperta, pervasa da un'ansia d'infinito e percorsa da una ricchezza di emozioni che si allarga come un mare portandoci lontano. Una musica dai contorni sfumati e talora dissonanti come il passaggio da un mondo dai confini certi all'indeterminatezza dell'ignoto.
E quando il tema iniziale viene ripetuto con maggiore intensità - ritmato e sostenuto dagli arpeggi orchestrali a 1,09 della clip audio - sembra proprio che la melodia prenda il largo verso orizzonti sconfinati, come una barca si appresta ad affrontare il mare aperto. 
Il mare aperto della morte, ma anche della vita, delle mille suggestioni che essa ci offre e dei segreti anfratti dell'anima che queste note, mirabilmente, sanno toccare.

Buon ascolto!