martedì 30 maggio 2017

I giardini della musica

Mi diletto, ogni tanto, a sfogliare riviste di arredamento nelle quali - tra le varie immagini - mi affascinano in particolare certe case della provincia francese o altre immerse nella campagna inglese.

Si tratta di antiche dimore spesso restaurate, talora più rustiche, altrove più signorili, ma sempre circondate da splendidi giardini arricchiti da una vegetazione varia e ben curata. Così mi piace lasciarmi incantare dalle foto di tanti angoletti di verde dove immagino che sarebbe bello vivere e ristorare l'anima.

Penso - e forse m'illudo - che talora basti poco per alleggerire il respiro quando si fa affannoso, ma sono certa che un luogo intimo e accogliente in mezzo alla natura possa comunque aiutare. 
Credo che in me giochi il ricordo di giardini frequentati in passato dove l'ombra di un glicine, un cespo di ortensie o una siepe di gelsomini non erano solo indice di amore per la natura, ma espressione di un'accoglienza fatta di calore e di affetto con la quale si fondevano.
Allora, mi piacerebbe proprio possedere un angoletto di verde pieno di frescura dove invitare gli amici, un luogo piccolo e appartato, fatto per il riposo e le confidenze, ma anche soltanto così, per lasciarsi vivere in una dimensione di silenzio. Un angolo semplice: un tavolino rustico, una bibita fresca o una cioccolata calda - secondo la stagione - qualche poltroncina dove assaporare un dolce abbandono guardando il cielo tra le foglie, e una spalliera di verde a proteggere dal vento o da occhi indiscreti.

Ma non ho un giardino tutto mio, così mi diletto ad osservare le immagini di quelli degli altri e a viverne l'atmosfera attraverso la suggestione che esse mi lasciano.
E allora perchè mai oggi parlo di queste cose?
Perchè - ci pensavo nei giorni scorsi e spero non sia un atto di presunzione - forse anche questo blog può essere un po' così. Condividere la musica dei grandi, infatti, è un po' come offrire ai lettori una poltroncina nei loro giardini e dire: "Oggi andiamo a ristorarci qui". Sono tanti gli angoletti di verde che essi ci regalano, vari come varia è la loro musica: ora punteggiati di fiori variopinti o ricchi di fitta vegetazione, ora marezzati di luce o pieni di un verde ombroso e scuro in cui smarrire dolcemente lo sguardo, ma sempre accoglienti.

Allora, il giardino in cui oggi vi invito a sostare per qualche momento è quello di un musicista nuovo per questo blog e non tra i più conosciuti, anche se il suo stile ve ne ricorderà subito un altro, decisamente più famoso.
Si tratta di John Field (1782 - 1837), pianista e compositore irlandese cui spetta il merito di aver inventato il Notturno come genere melodico per pianoforte solo. E qui avrete già capito che il carattere delle sue creazioni sarà preso poi a modello da Chopin che lo renderà celebre portandolo alla massima espressione.
Il brano che vi propongo è appunto il "Notturno n.4 in La Maggiore", composizione romantica e sognante che - nonostante il nome - non evoca in modo particolare la suggestione della notte, ma si rivela ricca di luminosità e trasparenza. Una fresca trasparenza che il timbro del Bosendorfer mette particolarmente in luce, insieme all'interpretazione della pianista Giulia Rossini che mi pare sappia regalarci tutta l'anima del pezzo, fatta di affascinante delicatezza e intensa passione.
E' infatti una ricca gamma di sentimenti quella che le note esprimono nell'alternanza di tonalità maggiore e minore: dalla gioia ai passaggi più tempestosi della parte centrale del brano e infine ancora alla serenità, come nuvole che percorrono un cielo di primavera o pensieri che attraversano l'animo e vanno piano a svanire. 
O come un cuore che, dopo tanto affanno, nella contemplazione della Bellezza ritrova la propria pulsazione naturale insieme a una profonda sintonia col creato.

Buon ascolto!
 

lunedì 22 maggio 2017

Prove d'orchestra

Autografo bachiano del "Concerto BWV 1055"
Quando ci troviamo di fronte allo splendore di un'opera d'arte - in campo musicale, figurativo, letterario, teatrale e via dicendo - spesso siamo portati a pensare a tutto il lavoro che essa presuppone e a quale complessa elaborazione si renda necessaria per creare una tale meraviglia.

Incuriositi dal risultato, talora siamo anche presi dal desiderio di scoprire cosa c'è dietro e di indagare la molteplicità di strumenti, competenze, abilità, genio e fantasia che concorrono ad offrire a un pubblico un' esperienza di bellezza.
Ci accorgiamo così che quasi sempre essa è il frutto di un lavoro molto articolato e di una fatica perseverante, soprattutto se la realizzazione dell'opera - come un'esecuzione orchestrale, una creazione architettonica o un film - non è affidata a un singolo, ma a più persone che devono armonizzare talenti diversi per un fine comune.
Musicalmente parlando, sono particolarmente affascinata da tutto l'impegno preparatorio che sta dietro ad un concerto, esattamente da quando ho assistito per la prima volta ad una prova d'orchestra. Ma qui devo tornare indietro a un antico ricordo.

Le nove del mattino di un Sabato Santo, sono ad Orvieto. 
Mentre ci apprestiamo - io e i miei compagni di viaggio - a visitare il Duomo, ci accorgiamo che intorno alla chiesa c'è un movimento inconsueto per quell'ora. Entriamo e - per uno di quei colpi di fortuna che capitano di rado - ci troviamo nel bel mezzo delle prove del Concerto del Sabato Santo che si terrà poi nel pomeriggio, diretto nientemeno che da Gianandrea Gavazzeni. 
Si suona Mozart: "Vesperae solemnes de confessore K.339".  
Inutile dire che saltano i programmi della giornata e restiamo lì quasi tutta la mattina beati ad ascoltare, nel freddo di una chiesa gelida che neppure i bocchettoni di aria calda posti intorno all'orchestra riescono a mitigare. 
Ma che importa?
Siamo al cospetto della Bellezza e mentre m'innamoro del "Laudate Dominum" - tra l'altro uno dei primi pezzi pubblicati in questo blog, precisamente qui - dalle osservazioni che il maestro Gavazzeni rivolge ai musicisti e al coro, mi rendo conto di quale lavoro capillare di rifinitura, di lima, di cesello stia alla base di un'esecuzione come questa. Spesso di tratta di sottilissime sfumature, differenze poco significative per l'orecchio di profani come la sottoscritta, ma essenziali per un'interpretazione tesa non semplicemente a leggere una partitura, ma a farla parlare il più intensamente possibile scandagliandone dinamiche e possibilità espressive.

È un'esperienza cui assisterò ancora in futuro fino alla recente serie di prove d'orchestra del maestro Riccardo Muti trasmesse in tv lo scorso anno. 
Ma - sia pure a un livello diverso - non voglio passare sotto silenzio quelle del mio coretto di paese dove ritrovo pazienza e perseveranza, insieme al rigore indispensabile per far fiorire un testo musicale.

Così, oggi mi sono lasciata tentare da una clip-video che ci presenta un brano preceduto proprio da una breve prova d'orchestra.
E' il trentaseienne francese David Fray, pianista già affermato a livello internazionale, a guidare la Deutsche Kammerphilarmonie di Brema in un accattivante pezzo di Bach: il primo movimento, "Allegro", dal "Concerto in La maggiore BWV 1055".
Cultore di Bach quasi al pari di Glenn Gould al quale è stato paragonato per la sua originalità nonchè per la sua abitudine di canticchiare la melodia che suona, Fray ci offre un'interpretazione fatta di libertà creativa e al tempo stesso di rigore, di ritmo e insieme di morbidezza.

Il video - prima della registrazione che occupa gli ultimi quettro minuti - si apre con uno scorcio di prove e un paio di inserti in cui il solista illustra alcuni aspetti del testo musicale.
Anche senza traduzioni, si può cogliere il senso complessivo del discorso. 
In sintesi, Fray richiama gli orchestrali ad un'esecuzione più ricca di accenti, dalla quale le modulazioni emergano con più articolata leggerezza e il ritmo scaturisca più vivo e marcato. Spiega inoltre che la parte pianistica tende ad animare di abbellimenti la base orchestrale, quasi vi sovrapponesse un merletto di note.
Il risultato è un'interpretazione brillante e movimentata che, se da un lato fa affiorare il "legato" tra i vari passaggi melodici, dall'altro esalta lo "swing" già presente nei testi bachiani così come la modernità e la gioia che li anima.
Modernità e gioia evidentissimi anche dall'entusiasmo e - oserei dire - dal gusto fisico con cui Fray suona, benchè la sua enfasi possa apparire talora un po' spinta.
Ma - a mio modesto avviso - è un concerto di uno splendore che risolleva l'anima e ci consegna un Bach più vivo che mai.
E finalmente "on va enregistrer"!

Buona visione e buon ascolto!

domenica 14 maggio 2017

"Quando canterai, non fermare il suono..."

Henri Fantin-Latour: "Rose bianche in un vaso verde" (particolare)
Se la gioia, come recita il titolo di questo blog, vuol esserne il segno distintivo, non è detto però che essa possa sempre trasparire immediata e luminosa da tutti i brani musicali.

A volte è una conquista, una piccola luce in fondo al tunnel, una speranza nascosta nella commozione che la musica sa suscitare e che si annida tra nota e nota, aprendo il cuore e disponendolo alla serenità.
E se tante melodie riescono a sciogliere i nodi che magari ci portiamo dentro, a maggior ragione il canto, con la sua intensità ora sommessa ora potente, può avere talora un impatto catartico.

È l'effetto che mi pare possa sortire il brano di oggi, un pezzo che covavo in cuore da qualche tempo senza decidermi a pubblicarlo.
Si tratta di una composizione di Bepi de Marzi intitolata "Dormono le rose", armonizzata in modo straordinario come del resto molte delle sue creazioni, riconoscibili per la forza e al tempo stesso la delicatezza del loro afflato poetico. È infatti una luminosità pacata quasi crespuscolare, insieme a un velo di malinconia, quella che ci pervade e ci avvolge dalle prime battute, con un fascino che traspare sia dalle parole che dal testo musicale ricco dello spessore di numerose dissonanze.

"Chiudo nel silenzio questa primavera, tienimi la mano e lascia la stagione."

Non so di preciso a cosa facciano riferimento le parole iniziali del canto, forse un evento che ha segnato di dolore l'anima di chi scrive, un dolore che ricorre anche più avanti quando il testo allude a un pianto del cuore. Ma è una sofferenza che la musica attraversa con passo lieve per farne emergere poi luce e forza con accenti di una solennità quasi religiosa.
Vi si evoca un passaggio, un distacco, ma anche il conforto di una vicinanza. 
E l'immagine delle rose che "dormono" nella siepe della casa - con la sua atmosfera sfumata più autunnale che primaverile - diviene metafora di una stagione esistenziale forse conclusa e tuttavia ancora viva nel profumo dei fiori che va a confondersi col sospiro della valle....Un linguaggio poetico che resta indefinito perché lo si possa più liberamente scandagliare e interpretare.

Ma più forte e risoluto risuona poi il ritornello che, dopo la tristezza iniziale, ci indirizza verso la gioia con un crescendo di tale commossa e vibrante intensità che nell'ultima strofa mette i brividi tanto è robusto e insieme struggente. Un'intensità che ci sovrasta come un'onda dalla quale lasciarsi avvolgere a cuore aperto.
"Cerca le parole della poesia, cerca la memoria dei giorni innamorati" è infatti un'esortazione a ritrovare in se stessi l'incanto e l'espressione che dà senso al nostro vivere, nel segno di una memoria che resta e ci consegna quell'amore donato che nessuno ci potrà togliere.

Ancora più affascinante è la strofa successiva: 
"Quando canterai non fermare il suono: l'eco sa capire quando piange il cuore."
Se nulla può riecheggiare in un cuore vuoto, da un'anima sofferente può rinascere la vita in tutte le sue svariate risonanze, come un'acqua che scorre in un terreno d' inaspettata fecondità. 
"Non fermare il suono": forse esortazione a dare sfogo a un dolore, ma anche a non fermare quella linfa che in noi cova germogli di sorprendenti primavere, e a seguire quella musica interiore in cui vibra la scintilla che un giorno ha dato forma al nostro esistere.

Ma insieme a questo, la frase mi ricorda anche il gesto di alcuni musicisti - soprattutto pianisti e direttori d'orchestra - che, a conclusione di un pezzo, seguono e accompagnano con le mani l'eco dell'ultima nota, finchè il suo riverbero non va lentamente a svanire nell'aria per fondersi col silenzio ed entrarci nel cuore.
Proprio come - a conclusione delle varie strofe e alla fine del brano - si dissolvono piano le voci del coro in un miracolo di delicata bellezza.

Buon ascolto!

domenica 7 maggio 2017

L'infinito garbo della musica

"Suonatore di flauto" - Tomba dei leopardi - Tarquinia
Oggi inizio con una domanda, un interrogativo semplice semplice che tuttavia può stimolare qualche piccola riflessione.
Perchè ci avviciniamo alla musica e che cosa andiamo cercando in essa?
  
Una terapia dell'anima? 
Un coinvolgimento dello spirito capace di farci vivere ora serenità e pace, ora trascinanti passioni? 
Un ritmo che riempia di entusiasmo ed energia la nostra quotidianità? 
Una scintilla che ci apra il cuore facendo sgorgare da noi mille vite che neppure immaginavamo di possedere???

Penso tutte queste cose insieme e ancora di più. 
Talora ci si avvicina alla musica per godere del puro piacere dei suoni, talaltra in cerca di riposo o divertimento, ma spesso per appagare la nostra tensione verso un'armonia più profonda. 
A condurci verso il mondo delle note è il desiderio a volte inconscio di ritrovare un' antica, originaria sintonia con noi stessi e col creato che - lo sentiamo - è sostanziato di musica. Esiste infatti un'affinità profonda tra l'essere umano e il mondo dei suoni non solo perché tutta la natura ne è pervasa e con essi ci parla, ma perché forse il suono è addirittura all'origine del mondo. Forse l' input che ha dato - per così dire - il la all'universo è stata una nota, un'energia la cui vibrazione si è propagata come un'onda sonora che ancora non ha fine.

La cosa non è molto lontana dal vero. Recenti ricerche di un gruppo internazionale di scienziati stanno infatti scoprendo che il big bang da cui si è originato l'universo avrebbe proprio un suono, una vibrazione paragonabile a quella di un flauto. Così pure, altri studiosi hanno appurato che la realtà fisica è governata da ordini geometrici basati su frequenze di suono e che la materia probabilmente si è formata rispettando un'armonia musicale. 
E sempre a un suono primordiale fa riferimento - per esempio - San Giovanni nel prologo del suo Vangelo quando esordisce dicendo: "In principio era la Parola". Discorso affascinante e complesso che ora mi limito ad accennare, ma che meriterebbe ulteriori studi e approfondimenti.

Penso quindi che nella musica si vada cercando quella con-sonanza tra noi e il creato intero che essa ci aiuta a cogliere, come se l'ispirazione dei compositori attingesse ad una fonte viva nell'energia dell'universo e ce la regalasse nei modi e caratteri che la multiforme fantasia della musica suggerisce. Tra questi, il suo infinito garbo. 
Garbo, sì: non solo il fuoco, la tempesta o il tormento di tante mirabili opere, ma anche la brezza leggera, quella carezza che spesso agisce su di noi e sulla nostra anima con un tocco di lieve e terapeutica discrezione. 
Si tratta di un particolare sguardo sulla realtà che ce ne restituisce dolcemente lo splendore e l'incanto, simile al gesto di una persona amica che ci accompagna piano, con mano ferma e insieme leggera.

E parlando di garbo, come non pensare a Mozart
Non si tratta tuttavia - a mio modesto avviso - dell'attitudine galante e salottiera che ha reso famosi svariati suoi brani, o almeno non solo di quella. Ma il suo garbo è proprio uno sguardo tutto interiore sulla vita, una sorta di eleganza e levità del cuore che ricompone luci ed ombre dell'esistenza in una visuale di supremo equilibrio.
A questo proposito, uno dei tanti esempi mi pare possa essere rappresentato dalla "Sinfonia in La maggiore n.29 K.201" della quale oggi vi propongo l'"Allegro" iniziale.
Vi si avverte subito la freschezza del compositore appena diciottenne insieme - qua e là - all'eco dei luminosi concerti per violino scritti proprio in quegli anni. Infatti, fin dall'esordio il pezzo è venato di stupore, pervaso da un senso di attesa gioiosa che la musica dispiega poi con qualche passaggio ombroso, ma senza mai ferire. Mentre più spesso si dipana con una vivacità ricca di fremiti e una concitata leggerezza creata dalle frequenti note ribattute.

Un garbo che è misura e che si traduce anche in una mirabile chiarezza compositiva: basta osservare la partitura orchestrale che ci offre la clip-video. Sappiamo tutti quanto Mozart sia famoso per la sua scrittura musicale nata spesso di getto e già perfetta, senza necessità di correzione alcuna. Ma qui mi pare di leggervi ancora di più: non occorrono particolari competenze per notare con quale limpido ordine, nitidezza ed equilibrio sono strutturate le varie parti strumentali. 
E anche tale costruzione mi sembra specchio di uno spirito toccato dalla grazia di una suprema armonia.

Buon ascolto!