lunedì 26 gennaio 2015

Dissonanze

 Colonia: "Cattedrale dei Santi Pietro e Maria"
Sto suonando Bach. 
O meglio, ci sto provando da eterna principiante quale sono. 
Da tempo, tento di arrampicarmi sulle architetture ordinate del "Clavicembalo ben temperato", delle "Allemande" che aprono le splendide "Suites francesi" o di qualche "Sarabanda" tra le più facili.
Bach è come una rete dalla quale, se ti lasci catturare, fatichi a riemergere non solo per la necessità di superare le difficoltà del suo linguaggio, ma anche perchè è un abisso senza fondo. Vi scopri spazi, grotte, anfratti, come in un fondale marino che ti riserva fitta oscurità e colori vividi, formazioni affascinanti e una vita segreta che affiora declinandosi in mille sfumature.

Ma suonare Bach ti dà anche la sensazione di scalare una montagna. 
Dalla base, non sempre puoi renderti conto di ciò che troverai: spesso il sentiero in apparenza più facile nasconde insidie, ma allo stesso tempo apre scorci e panorami d'impensabile incanto, in un'immensa varietà di prospettive.
Così, il suo splendore ti viene incontro maestoso nella grandiosità della polifonia, ma anche in passaggi di poche battute - talora solo poche note - che nel fiume di un'inesauribile inventiva dispiegano meraviglie nascoste magari nel ritmo o nell'apertura inaspettata di un cambio di tonalità.

Bach è una cattedrale imponente dall'architettura solida e ascensionale, con navate ogivali e archi rampanti, ma non priva di qualche elemento di asimmetria; e anche questo fa parte della sua bellezza, è un tratto del suo genio e della sua modernità.
Ma parlare di bellezza qui significa dare al termine un'accezione molto ampia, facendo riferimento all'energia delle sue note, all'ordine, al rigore della loro struttura e soprattutto alla loro profondità.
La sua musica infatti rimanda sempre a un dettato interiore. Più ancora, è scavo interiore. E' un raggio laser che ti scandaglia l'anima nelle sue sfumature più riposte: le scopre e le fa esistere portandole alla luce, come del resto ogni genere di composizione capace di entrarci nel cuore.
Per questo è musica "sacra", non perchè talora viene eseguita in chiesa durante una celebrazione liturgica, ma perchè tocca il terreno dell'anima nel suo anelito d'infinito e si addentra a svegliare in noi ciò che, forse, neppure sappiamo ancora di essere.

Un tempo, ascoltando musica, ero affascinata dai suoni più netti e chiari: prima il tono maggiore con la sua sorridente solarità e poi il minore con i suoi tratti di malinconia. Ma non ero ancora in grado di apprezzare quelle sonorità che, non rientrando nello schema dei classici intervalli - ad esempio - di terza o di sesta, al mio orecchio elementare parevano stonature o poco meno.
Più avanti però, ho iniziato ad amare la bellezza di queste dissonanze: note contigue suonate contemporaneamente - un re insieme a un mi, o un sol con un la, solo per citarne alcune - e che, usate molto spesso nella musica contemporanea, ricorrono però frequenti anche in quella barocca.

E' stato proprio Bach a farmi percepire il loro fascino fatto di penombra e d'inquietudine, aiutandomi a superare l'impressione di suono aspro o stridente che ne avevo all'inizio e consentendomi di coglierne invece lo spessore.
Le dissonanze infatti, soprattutto negli autori del passato, non sono mai sonorità finite e concluse in se stesse, ma si aprono a un'attesa, una ricerca, un'esigenza di compimento. Scavano dimensioni nuove, disegnano prospettive, schiudono spiragli sopra universi ignoti fuori ma soprattutto dentro di noi. 
Ci dicono che la spiritualità bachiana, così profondamente radicata nella fede, non è tuttavia disincarnata, ma comprende in sè il nucleo profondo dell'essere umano con le sue oscurità, le sue asimmetrie, la sua sostanziale incompletezza, il suo richiamo di abisso ad abisso. E nel cammino che il compositore traccia sicuro verso l'Assoluto, le dissonanze sembrano portarsi dietro, senza eluderlo, il peso terreno dell'esistenza col suo inesausto desiderio di consonanza. 
Lo si può osservare in vari brani delle sue grandiose "Passioni", ma anche in altri pezzi più brevi e tuttavia non meno significativi.

Così, a completare questo piccolo discorso, oggi vi propongo il secondo tempo, "Adagio", del "Concerto brandeburghese n.1 in Fa maggiore BWV 1046", pezzo costruito su di un delicatissimo dialogo tra oboe e violino.
Nel suo procedere lento ma rigorosamente ritmato, Bach ci conduce per sentieri di malinconia tradotti in note, dove la presenza qua e là di accordi dissonanti non spezza, ma accresce e sottolinea l'espressività del brano insieme al suo intenso tono meditativo.
Ne deriva un discorso musicale mirabilmente fuso dove, nella luminosa trasparenza del ruscello, la dissonanza è il gorgo di acque più profonde, lo specchio scuro che riflette il cupo della foresta, lo spessore inquieto di uno sguardo in costante ricerca di armonia.

Buon ascolto!

 

lunedì 19 gennaio 2015

Angoli d'infinito

Sto riordinando in computer le foto scattate in varie occasioni, negli ultimi mesi. 
E' un lavoro che faccio volentieri, anche se mi prende parecchio tempo perchè finisco sempre per indugiare su tante immagini che si portano dietro considerazioni e ricordi.
E infatti, mentre armeggio tra le cartelle alla ricerca di un'opportuna collocazione, lo sguardo mi va alle foto degli anni scorsi e m'incanto nel ritrovare il mio villaggio di montagna proprio in pieno gennaio, sotto una spessa coltre di neve.
Lo vedete nel riquadro il mio paesetto delle vacanze, in una foto di qualche inverno fa. Qui, smessi gli abiti del turismo, sembra proprio - come dice una mia amica - "il paese delle fate": un mucchietto di case che starebbero in una mano, raccolte e vicine quasi volessero stringersi per timore del freddo, un'immagine che si ammanta di una magìa senza tempo.

La osservo e sogno: dalla prospettiva in cui mi appare, non fosse per tanti aspetti che mi sono familiari, potrebbe rappresentare un villaggio qualsiasi incastonato tra le montagne di una qualunque regione della terra. Senza un cartello, un'insegna che lo identifichi e lo circoscriva nel cerchio del nostro ricordo, resta un angolo di mondo simile a tanti altri, distinto nella sua bellezza solo dalla luce.
C'è infatti una spera di sole leggera come una carezza che ne illumina la parte alta, facendo splendere la collina innevata alle sue spalle. Così pure, a ben guardare, è sempre un timido sole a dare rilievo alla neve in primo piano, mettendo in evidenza le tracce di un piccolo sentiero.
Sulla destra invece, la montagna scura di abeti contrasta col biancore e apre una prospettiva verso altre vallate di cui però non si scorge il fondo.
Il villaggio sembra affacciarsi così su di un pianoro sospeso sul vuoto e questo - insieme all'ombra leggera che sale dal basso mentre il sole del pomeriggio invernale già declina - ne accresce il mistero.

Mi piace l'idea che, per un momento, un paesaggio possa non essere più identificato se non dalla luce e dalle ombre che lo accarezzano.
Mi affascina il pensiero che, per un istante, un luogo possa uscire dalla gabbia cieca dell'abitudine in cui lo confiniamo, dalla cornice talora circoscritta del nostro ricordo o del nostro sguardo, per assumere dimensioni infinite e vivere di vita propria. Forse solo nella freschezza della prima volta abbiamo colto una simile magìa, poi più.
Certo, se tra noi e l'ambiente circostante nasce un rapporto di familiarità, ciò crea con esso un legame profondo: le case, le rocce, i sassi, il vento, tutto diventerà vivo quasi ogni elemento avesse un'anima e si trasformasse in un sorprendente, segreto interlocutore. Così, ogni ritorno sarà una gioia e ogni distacco una sorta di "Addio monti"; ma in fondo i luoghi vivranno più che altro di vita nostra, del vissuto che su di essi avremo proiettato e dell'universo delle nostre emozioni.

Ma se - d'un tratto - la realtà che vediamo perdesse l'identità che le abbiamo assegnato, se le cose sfuggissero al limite dei nomi con i quali le abbiamo definite e le riconosciamo quotidianamente, che cosa diventerebbe questo angolo di mondo? Sotto quale prospettiva lo vedrei? A quali suggestioni mi potrebbe condurre?
Forse, di primo acchito sarei presa dallo smarrimento quasi mi aggirassi in una dimora sconosciuta, vagherei disorientata per i sentieri o sarei pervasa da un senso di desolante estraneità come quando la livida istantanea di un lampo, nel forte di un temporale, illumina gli oggetti rendendoli irriconoscibili.

O forse m'incontrerei per un attimo con lo stupore del Mistero.
Nello sgomento o nel brivido dell'emozione, tutto all'improvviso apparirebbe nuovo e potrei coglierne il soffio, il respiro sconfinato che vi aleggia e vi gioca, vi si rivela e si nasconde: respiro presente ad un tempo nel profilo delle cime alla prima luce dell'alba, così come in un cristallo di ghiaccio o nel furtivo incedere delle volpi nel soffice manto di neve. 
Un'eterna danza del creato che perdura anche non vista, troppo grande per essere compresa se non a sprazzi o per fugaci illuminazioni, come troppo grande è la Bellezza alla quale - nel corso dei secoli - abbiamo dato una miriade di definizioni, in verità sfiorandone solo un lembo del mantello senza riuscire ad abbracciarla nella sua pienezza.

E nel contemplare l'immagine del mio paesetto, mi risuona dentro Mozart in uno dei brani più sublimi che abbia mai scritto: il secondo movimento, "Andante cantabile", del "Concerto per violino e orchestra n.4 in Re maggiore K.218", composto a soli diciannove anni!
Si allarga con riposante soavità l'introduzione orchestrale per lasciare poi spazio al solista e alla sua melodia sognante, nella quale ritroviamo tutto l'incanto della giovinezza, insieme a quell'equilibrio tipicamente mozartiano capace di rasserenare l'anima e ricucirne le ferite come un balsamo.
Note da portare in cuore lasciando che rifioriscano spontanee e che - spezzato per un istante il rigido incantesimo dell'abitudine - ci predispongano a percorrere sentieri ancora più alti, ad ascoltare la più grande musica del cosmo e cogliere il suo tocco d'infinito, come il vento sul viso nel silenzio di una notte stellata.

Buon ascolto!

lunedì 12 gennaio 2015

Il rumore dell'erba che cresce

Provo qualche disagio, in queste giornate che hanno insanguinato il mondo con violenza inaudita da un continente all'altro, dai terribili fatti di Parigi all'altrettanto orrenda strage in Nigeria, provo disagio - dicevo - a scrivere in questo mio angoletto musicale dal titolo che, al contrario, parla di gioia ricordandoci quanto la musica possa consentirci di entrare in sintonia con essa.

Eppure, riflettendo più a fondo, mi rendo conto che - ora più che mai - ancorarsi saldamente a tutto ciò che, come la musica, può condurci alla Bellezza e all'universo di splendore che essa porta con sè, è irrinunciabile. 
La Bellezza salverà dunque il mondo, come affermava Dostoevskij?
Sì, se non ci si limita a una fruizione puramente esteriore, ma si tenta di cogliere anche nel piccolo frammento, il richiamo a un senso più grande, il bagliore di un Tutto. Affidarsi ad essa, infatti, non è rifugiarsi in uno spazio di evasione o nascondersi dietro uno schermo - come scrivevo giorni fa - ma cercare umilmente di scoprirne il volto, anche nel quotidiano.

Allora, ci salverà forse tentare di ascoltare il rumore dell'erba che cresce, come usava dire la mamma di una mia carissima amica.
Ricordo la sua rasserenante accoglienza, le confidenze sul divanetto di un indimenticabile salotto di casa o sulle poltroncine di vimini in veranda - secondo la stagione - mentre il suo affetto smussava gli angoli della mia giovinezza e m'insegnava lo spessore dell'ascolto e del silenzio. Un tempo che mi porto in cuore e risplende ancora a una vita di distanza, come tutti gli incontri e le esperienze che ci formano.

Così mi chiedo: che cos'è per me oggi il rumore dell'erba che cresce
Penso sia la positività, spesso sommessa e discreta, di tante piccole grandi cose che costituiscono quella ricchezza quotidiana che ci sostiene in una dimensione di reciprocità. E' la vita nostra e degli altri - talora vicini, ma a volte anche lontani o sconosciuti - che al suo passaggio lascia segni di cui, se vogliamo, possiamo nutrirci.
E', ad esempio, la significativa testimonianza - riapparsa in questi giorni sul web - del musulmano Hicham Ben'Mbarek, profondamente grato e felice, dopo un trapianto, di portare in petto un cuore italiano e cristiano.
Sono le parole della giovanissima amica blogger che, alla fine di un anno difficile, sostenuta da una speranza tenace parla delle proprie ferite come "solchi da seminare con qualcosa di buono quando verrà il momento".
E' la volontà di quanti non smettono di mettersi in gioco e anche in piena età adulta mantengono intatta la voglia d'imparare, magari a suonare uno strumento musicale come sta accadendo a una mia grande amica.
E' la mia gioia di condividere musica, qui con voi...
E' il desiderio di vita che tutti ci attraversa e smuove come un fuoco da tenere acceso, e si traduce in piccoli grandi eventi da non perdere di vista, semi che fecondano un prato nella speranza che ne nasca un tappeto di fiori, una convivenza amica, con noi stessi e con gli altri.

Ma anche la musica c'insegna l'arte del silenzio e dell'ascolto, e ci conduce ad affinare l'udito come per avvertire l'impercettibile suono dell'erba che cresce.
Così, oggi desidero proporvi un brano di Bach di particolare delicatezza: il "Larghetto" dal "Concerto n.4 in La maggiore BWV 1055", composizione forse basata su di un perduto concerto per oboe e che qui trovate nella trascrizione per pianoforte e orchestra d'archi.
Il pezzo si apre con un esordio piuttosto sostenuto che si stempera poi, all'attacco del solista, in una pacata melodia.
Affascinante - come spesso accade nelle interpretazioni bachiane - l'intreccio tra dolcezza e rigore che il pianista Murray Perahia mette splendidamente in rilievo. E trovo che la morbidezza del pianoforte - che talora contrasta con l'organico orchestrale barocco al quale di norma si addice meglio il clavicembalo - qui si integri bene con gli altri strumenti.
Basta ascoltare la levità del solista a 1,45 dall'inizio, per cogliere tutta la delicatezza sognante del brano e lasciarsene avvolgere: note intime, sussurrate come parole sommesse che si aprono poi a un'aria più nettamente ritmata, e si snodano in costante dialogo con gli archi a riempirci il cuore con il loro incanto.

Buon ascolto!

 

venerdì 9 gennaio 2015

martedì 6 gennaio 2015

Cose invisibili




















Sì, è proprio con Michelangelo che desidero inaugurare il nuovo anno e, in particolare, col famosissimo dettaglio della "Creazione di Adamo" che vedete e che tutti avrete certo ammirato nella volta della Cappella Sistina in Vaticano.
E' la bellezza di queste mani protese l'una verso l'altra a incantarmi da sempre, lontane e vicinissime ad un tempo e così splendidamente moderne nella loro diversa tensione! 
Ma è anche il piccolo spazio vuoto che le separa - vero colpo di genio dell'artista! - ad affascinarmi e a farmi pensare: spazio esiguo e insieme immenso, distanza breve eppure incommensurabile, mani staccate ma in realtà unite dalla reciprocità di quel gesto. 
Volitiva la mano di Dio, più molle e incerta quella di Adamo e, in mezzo, quel vuoto quasi a simboleggiare ricerca, desiderio, silenzio, o ancora la libertà dell'uomo di fronte alla quale il gesto di Dio si ferma, in attesa.

Mi è sempre piaciuto pensare che la Musica abbia un ruolo privilegiato nel colmare proprio quel vuoto, nel farsi tramite, porta, canale, scintilla di una comunicazione tra il divino e l'umano, nel suo essere ponte tra due abissi divenendo luogo d'incontro e di passione come tra cuori innamorati.
Straordinaria la sua capacità di parlarci al di là delle parole o di restituircene lo splendore. Se confrontate con essa infatti, le parole talora delimitano, i suoni al contrario suggeriscono e ampliano, spesso restituendo ai testi quella dimensione d'infinito che essi tentano di significare. Anche quelli della fede. 
Ne abbiamo molteplici esempi: da quei monumenti musicali che sono le Passioni di Bach, al Messiah di Haendel, al Requiem di Mozart e alle sue svariate Messe, ma le citazioni potrebbero continuare.

Devo in particolare proprio a Mozart se, nel tempo, per certi aspetti ho riscoperto il "Credo".  
Nelle sue Messe infatti, le note del Credo declinano tutte le sfumature di un discorso che non è professione di fede puramente teorica, ma vicenda ricca d'intensità, storia nelle pieghe della quale esse si addentrano fino a farne fiorire il mistero per lampi di suprema bellezza. Storia narrata ora con levità e dolcezza nei vari "Et incarnatus est...", ora con intensa drammaticità come, ad esempio, nei "Crucifixus etiam pro nobis...". 
Ma è stato anche ascoltando il "factorem caeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium" che la sua musica spesso mi ha condotto a riflettere. 

Qual è il regno delle "cose invisibili" di cui Dio è creatore?
Certo l'aldilà, la dimensione fuori dal tempo che non conosciamo ma sulla quale sempre Mozart - nel grido del Requiem "Et lux perpetua...." - ha spalancato varchi immensi, attraverso accordi simili a fiotti di luce aperti a un'attesa e a una speranza.
Ma invisibili all'uomo sono anche molteplici aspetti della nostra attuale esistenza. Penso, ad esempio, a certi profondi e inespressi moti dell'anima e a quel silenzio a monte delle parole che genera poi ogni attività artistica e ogni passione: non è forse anche questo il regno in cui si dispiega la multiforme azione di Dio?
E l'eternità, lungi dall'essere solo un lungo futuro sconosciuto, non è in realtà una dimensione già inscritta nel nostro presente come fosse il nucleo più interno di una serie di cerchi concentrici?

"L'essenziale è invisibile agli occhi" - afferma Saint-Exupéry - e non solo perchè non lo si coglie limitandosi alle apparenze, ma anche perchè è radicato nel nostro presente come un nascosto dna, sorgente misteriosa di ciò che in definitiva ci fa noi stessi.
Pensarlo - e crederlo - può regalarci lo stupore di ritrovare già ora, in noi e nelle pieghe della vita di ogni giorno, le orme di Colui che - direbbe Sant'Agostino - "è più intimo a me di me stesso".

Così, anche la musica del "Credo" mozartiano qui riportato dalla "Missa brevis K.220" o "Spatzen-Messe", col suo procedere fremente e sostenuto, nella chiara e assertiva tonalità di Do maggiore, ci conduce a cogliere una Presenza di sorprendente concretezza.
E là dove la frase del testo si conclude sul "visibilium omnium et invisibilium", scopriamo che le note - invece di salire nella scala cromatica come forse ci aspetteremmo - scendono. 
A intrecciarsi con la nostra vita, a radicarsi nel cuore della nostra umanità, a significare un'eternità già presente: l'Invisibile qui e ora.

Buon ascolto e ancora Buon Anno!!!