domenica 27 settembre 2015

Tra esotismo e antichità

A tutti sarà capitato di osservare che la prima maestra di musica intorno a noi è la natura, con la sua molteplicità di suoni, sommessi o squillanti, cupi o limpidi, rochi o melodiosi e via dicendo.
Dallo scorrere delle acque di un ruscello al fragore delle onde del mare, dai versi più vari degli animali al soffio del vento o al temporale, una musica ci avvolge in continuazione, creando in noi rispondenze e suggestioni.

Ma come è affascinante la scoperta di tali armonie in natura, lo è altrettanto la storia della nascita degli strumenti musicali con cui l'uomo ha tentato di riprodurre ritmi e timbri, esplorando le infinite possibilità espressive dei suoni.
Mosso poi dal desiderio di sperimentare tali possibilità anche attraverso la danza o le attività rituali, si è creato nel tempo strumenti più raffinati, adottando tecniche costruttive che si sono evolute dalle meccaniche più semplici a quelle più sofisticate e vagliando materiali e soluzioni creative sempre nuove. 
Basti pensare alla complessità di un organo a canne o all'importanza del tipo di legno usato per la realizzazione di un violino o alle modifiche che hanno portato dal clavicordo al clavicembalo, al fortepiano e finalmente al pianoforte. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Ci sono tuttavia strumenti che vantano un'origine antichissima e che - nonostante nel tempo siano variati nei materiali e in taluni particolari - hanno sostanzialmente mantenuto la primitiva semplicità. 
Uno di questi è il cosiddetto "flauto di Pan" che le fonti ci dicono essere nato in Cina nel III millennio a.C., comparso in Grecia nel 600 a.C., poi in Egitto e nel mondo romano dov'era conosciuto col nome di "syrinx"
Altre testimonianze lo registrano inoltre nelle Americhe precolombiane e ancora oggi è usato dai musicanti di strada peruviani.

In Italia, è possibile trovare un'antica immagine di questo tipo di flauto nei mosaici pavimentali della Basilica di Aquileia risalenti al IV secolo d.C.
Il Cristo Buon Pastore - qui raffigurato in un'iconografia che interpreta in senso cristiano elementi della precedente tradizione pagana - non ha in mano un attrezzo da lavoro, ma proprio un "flauto di Pan".
Il nome deriva dal riferimento mitologico a Pan, dio dei boschi e dei pastori (dal greco paein, cioè pascolare), ma anche dio di tutto (in greco pan), quindi della natura considerata nella sua totalità. 
La leggenda - ripresa tra l'altro da Débussy in una sua composizione intitolata appunto "Syrinx" - ci racconta che Pan, nato con busto d'uomo ma gambe e corna di capra, si era innamorato della ninfa Siringa che, per sfuggirgli, si sarebbe tramutata in un ciuffo di canne capaci di emettere al soffio del vento un dolcissimo suono. Così Pan, per ricordare la ninfa, costruì lo strumento musicale che chiamò siringa.

Si tratta di un insieme di più flauti diritti di diversa lunghezza, costruiti con materiali che andavano dalle canne palustri al legno, alla terracotta, ma in seguito anche al metallo e talora all'alabastro. Uno strumento usato ancora oggi soprattutto nella musica etnica, il cui suono ci trasporta subito in un'atmosfera esotica simile a quella dei canti andini.
Recentemente tuttavia, alcuni interpreti lo hanno fatto uscire dall'ambito specifico in cui si è affermato, contribuendo a farlo conoscere al grande pubblico. 
Fra gli altri, va ricordato il flautista rumeno Gheorghe Zamfir - forse il più famoso a questo riguardo - ma insieme a lui anche Ulrich Herkenoff che ha elevato lo strumento al rango di solista all'interno di un insieme da concerto o di un'orchestra sinfonica, ispirando vari compositori a scrivere brani per "flauto di Pan".

Ne possiamo apprezzare il suono in un famoso pezzo di Ennio Morricone: "Cockeye's Song", tratto dalla colonna sonora dell'altrettanto famoso film di Sergio Leone "C'era una volta in America".
Qui, dopo una concitata introduzione, il particolarissimo e inconfondibile timbro di questo flauto ci immerge in un'atmosfera singolare, soffusa di malinconica dolcezza e di poesia. Vi troviamo passaggi ora più mossi, ora più lenti e prolungati, note ora roche, ora squillanti soprattutto nelle ottave più alte. 
Una melodia peraltro adattissima alla pellicola di Sergio Leone che ci offre un'immagine di umanità a tutto tondo in cui s'intrecciano poesia e durezza, violenza e nostalgia come facce della stessa medaglia.
Un brano da gustare in solitudine, lasciando che il suono del "flauto di Pan" ci conduca lontano - o dentro di noi - sull'onda del suo fascino. 

Buon ascolto!
  

sabato 19 settembre 2015

Musica per le grandi occasioni

Passa il tempo, ma tenere in vita questo blog continua ad essere per me una splendida avventura ricca di interesse per svariati motivi.
Uno dei più importanti è certamente il fatto che il contatto con la musica e con voi che ascoltate, mi sollecita sempre ad imparare, consentendomi di scoprire nuovi autori e nuovi brani con tutta la ricchezza che ne consegue.

Mi ha regalato infatti l'abitudine alla ricerca e all'ascolto, un'abitudine che non stanca perchè avere a che fare con la musica significa trattare una materia viva, capace di suscitare ogni volta risonanze impensate. 
Talora si tratta dell'incontro con autori per me sconosciuti, e qui devo ringraziare alcuni di voi per i preziosi suggerimenti; altre volte si tratta del desiderio di approfondire la conoscenza del panorama compositivo di musicisti già ben noti. 
Ma, al di là di questo, periodicamente si rinnova in me il bisogno di tornare a una fonte di splendore altissimo e di bellezza inesauribile come Bach.

Così, mi sono trovata ancora una volta a navigare su youtube tra cantate e mottetti, fughe e invenzioni, presa dalla nostalgia di uno di quei brani fatti di energia pura, proprio come il pezzo che ho deciso di postare qui oggi. 
Si tratta del primo movimento della Cantata BWV 129 "Gelobet Sei der Herr, mein Gott", scritta dal compositore per la festa della SS.Trinità, un brano che - come accade in parecchie altre sue creazioni - fonde rigore e fantasia, profondità e leggerezza attraverso architetture vive, gioiose e scintillanti che ci afferrano coinvolgendoci nel loro splendore.

Certo, lo so: se si considera che Bach ha riferito le sue numerosissime Cantate sacre ai vari momenti dell'anno liturgico, questa, dedicata alla festa della SS.Trinità, risulta ora decisamente fuori tempo ed ero quasi tentata di rimandarne la pubblicazione.
Ma poi mi sono detta: "E perchè mai aspettare???...." 
Una ricorrenza non si esaurisce nel giorno preciso della sua celebrazione anche se lì ne vive il culmine, e in fondo cosa impedisce che ogni momento possa essere festa come nelle grandi occasioni, se ne coltiviamo in cuore il significato??? Secondo me anche Bach, che con le sue note ha fatto risplendere ugualmente ricorrenze importanti e giorni, diciamo così, ordinari....sarebbe d'accordo!!!
Allora, confortata da queste considerazioni, eccomi qua a proporvi proprio il brano citato.

La "Cantata BWV 129" mette in musica un testo del teologo tedesco Johannes Olearius (1611 - 1684), un inno di lode alla SS.Trinità vista come fonte di creazione, vita, luce, salvezza e conforto. Si comprende quindi come la caratteristica principale del movimento che apre la composizione sia la gioia, una gioia espressa - prima ancora che dal coro - da fiati, timpani e da un organico orchestrale particolarmente scintillante. 
Ne deriva un andamento animato e festoso, una fantasia corale dove Bach ci conduce attraverso una varietà di passaggi e costruzioni contrappuntistiche che sembrano portarci sempre più in alto, quasi volesse esortare chi ascolta a rallegrarsi proclamando con forza la propria lode.

Tutti sappiamo quanto Bach sia maestro di preghiera attraverso la sua musica che - a cominciare dalle Passioni - ne ha scandagliato di volta in volta ogni atteggiamento: dalla lode al lamento, dal giubilo all'invocazione e al grido.
E' tipico, infatti, della sensibilità bachiana leggere un testo addentrandosi in esso fino a tradurne in note lo spessore esistenziale, con una comprensione altissima sia dell'interiorità umana che dell'universo della fede.
Per questo, nel pezzo di apertura della "Cantata BWV 129" la lode - viva e reiterata - risulta al tempo stesso sorprendente, come se il progressivo salire della musica ci introducesse nel cuore di una comunicazione sempre più sublime e tuttavia non rarefatta, ma concreta fino al punto di toccarci.
Ci troviamo di fronte alla stessa grandiosità delle Suites per orchestra, ma l'aggiunta del coro ci attrae in un vortice polifonico potente come una cascata di grandi acque, dandoci proprio la percezione di essere raggiunti e toccati dalla gioia.
Particolarmente pregevole, a questo riguardo, anche la direzione di Gardiner che ho preferito ad altre interpretazioni per il suo ritmo veloce che - pur mantenendo intatto il rigore della composizione - la rende più energica, movimentata e leggera.

Un gioiello musicale di assoluto splendore, quindi, un regalo per le grandi occasioni non solo segnate sul calendario, ma nascoste nel cuore del quotidiano: note che ci prendono in una gioiosa circolarità di Amore e con le quali Bach ci conduce fino alle soglie del Mistero.

Buon ascolto!

sabato 12 settembre 2015

"Ostinato"

Lo splendore del brano di Holst che ho pubblicato la scorsa settimana, mi ha indotto ad approfondire la conoscenza del compositore, così oggi sono qui a proporvi un' altra creazione del musicista inglese.
Si tratta, stavolta, di un pezzo molto diverso dal precedente e dimostra la versatilità dell'autore, capace di regalarci con uguale efficacia musiche ricche di romanticismo ed altre la cui cifra più significativa sta nel segno della vivacità e del ritmo.

Il brano è uno dei quattro movimenti - precisamente il secondo "Ostinato: Presto" - della "St.Paul's Suite op.29, n.2", composizione originariamente per archi, scritta da Holst per la St. Paul's Girls School di Londra di cui era direttore musicale. Un'opera per certi aspetti didattica, che unisce ritmi di danza ad antiche melodie della tradizione celtica, come ci dimostra il primo tempo in forma di Giga e, nel finale, la presenza di un'aria che riprende la famosissima Greeensleeves.

Ma torno al secondo movimento: a colpirmi è stata la sua vivacità così sapientemente ritmata dalla figura musicale dell'ostinato.  
Di che si tratta? Dal significato del termine possiamo facilmente immaginare quale sia la sua applicazione in campo musicale, ma per maggiore chiarezza, vi riporto qui nientemeno che la definizione della Treccani.
E voilà:

"Ostinato. In musica, si dice di figura melodica che si ripete incessantemente, invariata e alla stessa altezza, per tutta una composizione o una parte di essa; appare di solito nel basso, che prende in tal caso il nome di basso ostinato. Più genericamente, per indicare la persistenza di un ritmo o di un effetto strumentale." 

Monotono, allora??? Niente affatto perchè, se è pur vero che tale figura musicale nasce dalla prolungata ripetizione di una breve idea ritmica, è proprio la sua ripetitività a far sì che, su questa base, si possano sovrapporre vari altri moduli compositivi.
Qualche esempio? Uno sopra tutti gli altri, chiaro e conosciutissimo: il "Bolero" di Ravel, nel quale le battute dell'ostinato vengono ripetute dal rullante per ben 169 volte, mentre su di esse s'imposta il tema, ripetuto a sua volta dai diversi strumenti in modo sempre più vario e fragoroso.

Ma per tornare a Holst, nella foto qui sopra relativa alla prima pagina del suo brano, è facile riconoscere la scrittura musicale dell'ostinato, anche se in questo caso non eseguito da un basso, ma dai secondi violini che, per tutto il pezzo, ripetono le stesse battute come leggero sottofondo.
Il tema principale è invece annunciato dal violino solista - esattamente dove compare il numero 1 - ed esordisce con intervalli di sesta e di quinta discendente che danno impulso e slancio alla musica. 
Segue un intreccio di arie e di ritmi sempre più vivaci e concitati dove il tempo iniziale di tre quarti - ma successivamente di due e infine ancora di tre - ci conduce in un clima di danza progressivamente più acceso. 
Il brano si apre infatti con un'atmosfera delicata, segnata dai pizzicati quasi fossero lievi passi saltellanti e leggeri, e si fa poi trascinante come un valzer, poi ancora travolgente come una corsa, cadenzato come una marcia per tornare infine alla levità iniziale. E si comprende bene che avesse funzione didattica, data la varietà di tempi, di ritmi e di fantasia.

Un pezzo che - seppur brevissimo - sa rapirci e portarci via con sè nel suo vortice ora ritmato e persistente, ora leggero e scintillante come una danza giocosa e spensierata.

Buon ascolto!

sabato 5 settembre 2015

Luci nella notte

Immagine presa dal web
E' per me un piccolo rito serale, quando sono in montagna, prima di chiudere affacciarmi per qualche momento al balcone e ascoltare il silenzio.
Dal mio punto di vista, infatti, posso spaziare sull'anfiteatro dei ghiacciai, vedere le vette più alte ancora lambite dai riflessi del tramonto e le ombre che salgono dalla vallata, mentre la grandiosità del paesaggio mi regala un ineffabile senso di pace.

Quando poi fa buio, se la notte è serena, stagliato contro il cielo stellato resta il profilo delle cime che coronano maestose il panorama e l'oscurità si colma di un mistero in cui le voci della natura riprendono a dominare incontrastate.
Mi arriva il canto del torrente dal fondo dei prati, come pure il soffio del vento insieme a qualche lontano latrato di cani, suoni che non spezzano l'incanto del silenzio circostante, ma - al contrario - lo sottolineano. 
Qualche volta, rassicurata dall'ombra crescente, nel vicolo sotto casa tra vecchi tronchi e ciò che resta di una baita in rovina, arriva una volpe in cerca di cibo. Non viene proprio a notte fatta, ma un po' prima. Talora, nelle ultime sere di agosto, suonano le nove al campanilino del paese e, dopo qualche istante, lei compare puntuale inerpicandosi tra le pietre e girando all'intorno i suoi occhi fosforescenti.

Se poi alzo lo sguardo, si apre davanti a me una scura vallata in direzione del Gran Paradiso. Qui, una strada si addentra nel parco raggiungendo la piccola frazione dove iniziano i sentieri: un gruppetto di case e di baite che dal mio punto di osservazione non riesco a vedere, nascoste come sono dall'incrocio di due versanti fitti di abeti. Così, ogni volta, ho la sensazione di perdermi in un buio ricco di suggestioni e nella magìa del silenzio notturno.

E ad accrescere tali suggestioni, da diversi giorni laggiù in lontananza, proprio nel cuore di quel buio, è comparso un piccolo cerchio di lumi. 
Non si tratta dei fari delle rare auto che occhieggiano qua e là in mezzo alla pineta secondo le curve della strada, ma proprio di luci fisse poco più in su. Che mai saranno?
Tutte le sere, quando prima di chiudere mi affaccio per qualche istante, controllo se per caso si vedano ancora. Non si scorgono subito, occorre aguzzare lo sguardo per vederle, ma ci sono: piccole e palpitanti nella loro distanza, troppo basse per provenire da rifugi o bivacchi e al tempo stesso troppo alte per appartenere a qualche casa o campeggio.
Ho osservato la zona anche in pieno giorno, ho percorso i sentieri vicini, ma nulla vi compare se non la montagna fitta di abeti.

Che mai saranno allora quelle luci? Segnali di un alpinista o viandante solitario? Finestre di qualche baita o tenda nascosta? 
Chi mai osa violare l'intatta solitudine notturna della mia valle? E dico mia perchè - benchè dimori qui solo d'estate - mi sento profondamente legata a questi luoghi e attenta a che non se ne disperda l'incanto.
Così, dalla mia postazione lontana, ogni sera mi affaccio come ripetendo un rito, quasi fossi Giovanni Drogo che, dagli spalti della Fortezza Bastiani ai margini del deserto, spia con ansia l'arrivo dei Tartari; o immedesimandomi nel guardaboschi Bàrnabo, altro personaggio uscito dalla fantasia di Buzzati.
Ma il mistero rimane, un mistero che l'oscurità accentua fuori e dentro di me, ammantandosi di sogno e regalandomi ogni volta lo sgomento di antiche favole.

Allora, a questa breve descrizione della mia sera in montagna, mi piace associare le note ricche di suggestione di un musicista nuovo per questo blog.
Si tratta del compositore inglese Gustav Holst (1874 - 1934), autore di numerose opere di successo tra le quali la "St.Paul's Suite" e soprattutto "The Planets".
Quello che vi regalo oggi è il brano per violino e orchestra "A Song of the Night op.19, n.1", che mi è parso particolarmente adatto all'argomento del post non solo per il titolo, ma anche perchè nella sua varietà di temi musicali, ci fa spaziare tra grandiosità e romanticismo, sgomento e delicatezza, un po' come il fascino che ci regala la notte in montagna.
Il pezzo, dolce e sognante, solenne e al tempo stesso intimo, ci accompagna riecheggiando un po' il concerto per violino di Bruch - almeno così a me pare - ma in taluni passaggi anche Wagner.
Soavissimo l'intervento graduale dell'orchestra dietro il violino solista col quale intreccia poi un dialogo di struggente bellezza.
Un'aria ricca di luminose aperture e di crescente intensità che resta nel cuore e sembra dar voce anche a ciò che è ineffabile.

Buon ascolto!