domenica 30 novembre 2014

Fascino danese

Vilhelm Hammershoi, "Interno con giovane donna vista di spalle"
Capita - credo di averlo detto più volte - che ci siano musiche capaci di prenderci al primo ascolto, o perchè ci colgono particolarmente ricettivi e sensibili, o per qualche loro meravigliosa e misteriosa alchimia.

Ma tale immediato e incantevole approccio può avvenire con ogni altra forma d'arte nella quale - invece dei suoni - possono essere parole, colori o gesti a catturare la nostra attenzione e il nostro cuore.
E' un'attrazione immediata che non nasce solo da un generico apprezzamento della bellezza, ma da una particolare comunicativa dell'opera d'arte per cui essa ci raggiunge, ci tocca e ci coinvolge prendendoci dentro e talora afferrandoci al punto che ne restiamo splendidamente irretiti.

E' l'effetto che mi ha fatto incontrare per caso sul web le opere del pittore danese Vilhelm Hammershoi (1864 - 1916) e - primo fra tutti - il dipinto intitolato "Interno con giovane donna vista di spalle", conservato presso il Kunstmuseum di Randers in Danimarca.

E' forse la più rappresentativa tra le creazioni dell'artista, famoso per aver spesso ritratto di spalle i protagonisti dei suoi quadri, ma anche per le particolari atmosfere degli interni da lui raffigurati.
Sono atmosfere di totale tranquillità, nel silenzio di stanze quasi vuote, ordinatissime e geometricamente scandite, nelle quali regna un luminoso grigiore fatto di tinte soft, di grigi e di beige, di bianchi e azzurrini, con qualche digressione verso lo scuro dei mobili o il nero degli abiti delle figure femminili.
Rappresentazioni, in realtà, un po' anacronistiche rispetto ai fermenti artistici degli anni in cui opera il pittore e tuttavia ricche di un fascino profondo.

Questo dipinto, in particolare, ci regala un senso di grande essenzialità: una parete grigia segnata da una cornice più chiara, un mobile, pochi arredi e una figuretta scura dalla sagoma semplicissima ed elegante insieme. 
Siamo presi dalla delicata bellezza del vaso di ceramica e del mobile, oggetti di pregio come certo il vassoio che la donna ha sotto il braccio e che sottolinea il fianco e la sua postura ricca di grazia.  
Ma ancor più intensamente siamo catturati da quel volto che non vediamo e che si volge lievemente altrove, celato, quasi perso nel mistero dei suoi pensieri.
 
"Donna che legge", Stoccolma. Museo Nazionale
Triste? No, pacato direi: lieve e pacato come il silenzio che promana da quasi tutti i dipinti di Hammershoi, a metà strada tra il fascino delle opere di Vermeer e di Hopper.

Un richiamo a Vermeer si può ritrovare infatti nell'attenzione ai bellissimi interni e ai singoli oggetti o in certe citazioni come, ad esempio, la donna che legge; ma anche nella costruzione di prospettive nelle quali stanze dietro stanze ci riportano al clima di tranquillità tipico, peraltro, di tanta pittura olandese del Seicento.
Penso, per esempio, a Emanuel de Witte, autore di quel magnifico "Interno con donna alla spinetta" che potete vedere qui e nel quale - tra l'altro - la protagonista è ritratta proprio di spalle, seduta allo strumento musicale.
"Raggi di sole" Copenaghen, Ordrupgaard
Ma l'atmosfera di alcuni dipinti di Hammershoi può anticipare anche Hopper: non certo per i colori o il tratto della pennellata, ma per quelle linee oblique così spesso disegnate come scorci di un scatto fotografico che rimandano a un più compiuto altrove. 
O per il silenzio talora freddo, la solitudine che vi si avverte, anche se non ancora espressa con i toni assoluti che saranno poi propri del pittore statunitense.
A volte infatti in Hammershoi, sia pure nel vuoto delle stanze, è possibile cogliere un senso di intimità creato, a mio avviso, dalla luce: morbida, pacata, sfumata, una luce che illumina quasi sempre senza contrasti netti, ma cercando di accarezzare ciò su cui si posa e creando spazi di leggera penombra.
"Riposo", Parigi. Museo d'Orsay.
Ne è un esempio il particolare della testa delle figure ritratte di spalle, dove proprio la luce conferisce rilievo alla morbida treccia di capelli raccolti sulla nuca, alle ciocche che sfuggono e all'incarnato del collo.
Ma anche il beige declinato in diverse sfumature fin quasi al bianco, nel dipinto intitolato "Una donna in un interno", ci fa respirare una pace e un silenzio, un clima di pacato distacco e insieme di familiarità in cui si vorrebbe essere immersi.

E certo a crearlo è anche il ricorrere nei diversi quadri di ambienti simili e uguali arredi: ceramiche, mobili, porte e via dicendo, insieme a quella figuretta scura - probabilmente la moglie dell'artista - più volte ritratta nelle stanze di casa.
"Una donna in un interno" Coll. privata
Sembra quasi che - di dipinto in dipinto - Hammershoi con tratti delicatissimi abbia voluto descrivere la propria vita, ritraendo un luogo che non è semplicemente la casa in cui abitava, ma prima di tutto uno spazio in cui ambiente esterno e mondo interiore si corrispondono.
E la figura di spalle, nel suo tacito dire che dà spazio al sogno e all'immaginazione come una siepe di leopardiana memoria, crea una suggestione nella quale anche a chi guarda è dato di entrare e ritrovarsi.

Ma tra i vari arredi di queste nitide e ordinatissime stanze, non è rara - altra citazione dal Seicento olandese - la presenza di qualche strumento musicale.
"Ida in un interno col piano" Coll. privata
Possiamo allora immaginare che sia il suono di un pianoforte a riempire il silenzio della casa e a rivelare al nostro cuore - talora sommessamente come parole sussurrate all'orecchio, talaltra in modo più tempestoso e irruente - il non detto, il mistero, la vita che le immagini suggeriscono. 
  
Sono proprio queste le caratteristiche del "Notturno in fa minore op.55 n.1" di Frédérick Chopin con cui mi piace commentare le opere del pittore danese.
Nel brano infatti si possono ravvisare alcune parti ben distinte: quella iniziale più lenta e malinconica, intensamente meditativa, fatta di lievi note che sembrano davvero scandire il silenzio; la parte centrale, al contrario, più movimentata e impetuosa, quasi a rappresentare un'esplosione di sentimenti che da questo silenzio scaturisce e ad esso infine ritorna.
Una musica che - come spesso accade - sa arricchire di significato e completare lo splendore delle immagini fermate sulla tela.

Buon ascolto! 

sabato 22 novembre 2014

La "Festa degli alberi"

Carlo Saraceni, "Santa Cecilia"
Oggi, giorno in cui il calendario ricorda Santa Cecilia, è una data che per me si associa anche ad un'altra ricorrenza che ha scandito la mia infanzia nel periodo delle scuole elementari. 
Parlo della "Festa degli alberi" che cade attualmente il 21 novembre ma che da noi, ai miei tempi, veniva celebrata il 22, appunto in coincidenza con la festa della Santa, patrona della musica e dei musicisti.

Che c'entrano alberi e musicisti??? 
C'entrano eccome, ma lascio questo discorso a un' eventuale prossima puntata. In realtà, le due cose camminavano insieme anche allora perchè - lo ricordo bene - nel giorno della "Festa degli alberi", si cantava in coro ed eravamo noi bambini a doverci esibire in un parchetto della città dove, alla presenza del direttore didattico e altre svariate autorità, venivano poi piantati degli alberi.
Dico la verità: a quell'epoca, l'amore per la musica in me sonnecchiava ancora sotto la cenere e di quelle mattine di novembre ho in mente solo il freddo, la nebbia e la paura di sbagliare, per cui l'uscita dalle mura scolastiche solitamente accolta con grande gioia e sollievo, in quel caso si trasformava in una sorta di incubo.

Ho frequentato le elementari in una sezione staccata della mia scuola: un tranquillo cortiletto contornato di verde, poche aule e la gioia di sentirsi in un luogo familiare, governato da maestre inflessibili ma bravissime e accoglienti. 
E lì, fin dal primo momento mi ero ambientata come fossi a casa mia.
Ma in certe occasioni dovevamo recarci nel plesso principale, e qui l'edificio molto più grande e severo mi metteva una terribile soggezione. 
Mi creavano ansia i lunghi corridoi scanditi dalle porte delle classi e dalle file ordinate di attaccapanni, ben diversi dalle nostre cinque aule al primo piano che davano sul ballatoio verso il cortile, come nelle vecchie case di ringhiera.
Non parliamo poi delle bambine che frequentavano la sede centrale: mi sembravano tutte più brave e soprattutto più disinvolte, mentre noi - a confronto - eravamo topi di campagna in mezzo a quelli di città.

Questo discorsino per dire che, il giorno della "Festa degli alberi", dopo essere rimasti impalati, al freddo del parchetto, ad ascoltare i vari discorsi celebrativi, dovevamo cantare insieme alle altre classi della sede, per di più sotto la guida non della nostra, ma della loro maestra di canto: una signora già in età, robusta, pettoruta e a detta di tutti cattivissima!!!

Non ricordo cosa si cantasse, il freddo di quelle mattine mi intirizziva anche i pensieri. Ricordo però un brano che invece la nostra maestra di canto - una dolce ragazza poco più che ventenne - ci aveva insegnato quando frequentavamo la quinta, o anche meno, per prepararci a una ricorrenza primaverile. 
Veniva in classe una volta alla settimana, ed era per noi un'ora di svago. 
Ma era brava e si faceva ascoltare: ci spiegava i testi e la musica, divideva maschietti da femminucce, ci faceva provare separatamente, infine ci metteva insieme. 
E' così che, dopo una serie di lunghe ma piacevoli prove, avevamo imparato nientemeno che un brano dalla "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni (1863 - 1945). Si trattava del famosissimo coro "Gli aranci olezzano..." : un pezzo che, nell'opera, è cantato dal popolo in festa la mattina del giorno di Pasqua e preceduto da un'ampia e luminosa introduzione orchestrale.

Naturalmente non capivo gran che di musica allora, ma mi affascinava l'alternanza di voci femminili e maschili che cantavano parti diverse e infine si fondevano in perfetta armonia.
E' un brano che non ho mai dimenticato e ve lo propongo qui oggi, nella speranza che Santa Cecilia mi perdoni se la festeggio con un ricordo del tutto personale!

Buon ascolto!

martedì 18 novembre 2014

Parole d'amore

Marc Chagall: "Gli amanti"
Ci sono musiche che abbiamo sentito in passato, che abbiamo apprezzato e consideriamo ormai un durevole patrimonio di bellezza da tenere da conto.
Tuttavia, a volte restano un po' come certi libri negli scaffali di una biblioteca: sappiamo che ci sono e hanno un valore, ma li lasciamo lì, ordinati e ben chiusi, talora anche dimenticati.

Poi un giorno ci capita di riascoltare una musica che non sentivamo da tempo e ci accorgiamo invece che non stava nello scaffale come quei libri, ma viveva da sempre in noi. 
Così le sue note - o le parole che l'accompagnano - si fanno più vere che mai e ci sorprendono, raggiungendoci di nuovo nel desiderio di essenziale che ci portiamo dentro.

E' quanto succede di frequente con i grandi della classica e chi ha una minima frequentazione con essa lo sa. Ma ciò può accadere in realtà con tutti i generi di musica, quando è lo splendore delle note o del testo a parlarci, talora quasi con prepotenza.
Quindi, oggi perdonatemi se vado a prendere una canzone, peraltro conosciutissima, sulla quale già fiumi di inchiostro sono stati versati e le mie quattro osservazioni risulteranno solo banali. Ma è quella che stamattina mi ha fatto un effetto dirompente, come quando la bellezza ci coglie all'improvviso indifesi e ci interpella a tu per tu.

"Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.

Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai...."


Avrete certo riconosciuto "La cura", forse la canzone più famosa di Franco Battiato, scritta con la collaborazione del filosofo Manlio Sgalambro per il testo e tratta dal cd "L'imboscata" (1996). 
Parole mirabili, aperte a molteplici piani di lettura ma sempre, da qualunque angolatura si vedano, una vera terapia del cuore, come se chi parla avesse una tale capacità introspettiva nei confronti della persona alla quale si rivolge, da poterla salvare anche da se stessa.
Una canzone che non è solo il toccante messaggio di un amante all'amata, o di un padre alla figlia come qualcuno ha ipotizzato, ma può richiamare l'amore di un Dio per la propria creatura.
Una promessa di protezione e di salvezza ("Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore...Ti salverò da ogni malinconia...E guarirai da tutte le malattie..."), di guida ("Conosco le leggi del mondo e te ne farò dono") e di sostegno e accompagnamento nel cammino alla ricerca del senso dell'esistenza ("Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza").
Ma troviamo anche una promessa di vita e di giovinezza ("Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare....") e il riconoscimento, al di là delle fragilità umane, del valore unico di ogni persona ("...perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te"). 

L'itinerario musicale di un artista poliedrico come Battiato che lo ha condotto ad esplorare svariati generi dalla classica al rock, si affianca al suo cammino intellettuale che, nel tempo, lo ha visto cultore dell'esoterismo e aperto a filosofie orientali.
E tuttavia, certe espressioni del testo di questa canzone non possono non ricordare i versetti biblici del profeta Isaia:

"Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele: Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare......perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo"
(Is.43, vv.1-2 e 4).

Espressioni che sono il vertice dell'amore, dell'attenzione, del prendersi cura dell'altro. E mi sembra molto bello questo sovrapporsi e convergere di temi tra il testo biblico e una semplice canzone alla ricerca di risposte che colmino il cuore dell'uomo.

Ma al di là delle parole, resta certo dentro di noi anche il fascino della musica di Battiato dove la melodia, che si dipana distesa e scorrevole, riesce a conciliarsi e a trovare un mirabile equilibrio con la concitazione del ritmo di fondo. 
Armonie diverse che s'intrecciano e camminano insieme, così come la fragilità dell'essere umano - quel tu a cui la canzone si rivolge - trova accoglienza nel significato pacificante del testo.
Parole che testimoniano un sentimento senza limiti, fatto anche di follìa, un amore che "supera le correnti gravitazionali" e governa le leggi di natura perchè è l'unica forza che - come direbbe Dante - "move il sole e l'altre stelle".

Buon ascolto!
 

mercoledì 12 novembre 2014

Preludio in blu

Il circolo delle quinte di Skrjabin
Sono tanti gli artisti che - nel tempo - hanno colto analogie e individuato corrispondenze all'interno delle diverse forme d'arte, ricercando tutti quei punti di contatto che possono esistere tra i vari tipi di percezione.
Sono legami, nessi, associazioni e intrecci che, in taluni casi, possono definirsi anche sinestesie: un sovrapporsi di sensazioni originate da campi sensoriali diversi, con la conseguente possibilità che una creazione artistica possa dare origine a suggestioni che vanno al di là di essa sconfinando in altri ambiti.
E' dai Simbolisti francesi in poi, a cominciare da Baudelaire fino - oserei dire - ai nostri spot pubblicitari, che l'uso della sinestesia è stato sempre più frequente, proprio per creare determinati effetti che dilatino la nostra percezione. Ed è in particolare il rapporto tra impressioni sonore e visive, tra il mondo dei suoni e quello dei colori, ad essere stato colto nel tempo con l'analisi di varie corrispondenze - il termine non è casuale - tra musica e pittura.
Ma tale possibilità di contaminazione tra le due arti era ben nota fin dall'antichità poichè tra esse sono sempre state individuate affinità e segrete interazioni. Si tratta infatti, in entrambi i casi, di fenomeni nei quali è in gioco una vibrazione - fisica, ma anche psichica - e così come sono stati studiati gli effetti che i colori esercitano su di noi nel produrre emozioni, ne sono stati analizzati anche i rapporti in termini di ritmo e armonie timbriche.

Klee, "Polifonia"
L'argomento è vasto e meriterebbe approfondimenti nei quali non mi addentro.
Mi limito a osservare che - tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento - pittori come Klee e Kandinsky hanno espresso la loro arte di pari passo con riflessioni sulla musica e la combinazione di determinati colori è stata spesso associata ai sentimenti e ai suoni che essi possono evocare o alla rappresentazione cromatica di scale musicali.
D'altra parte, ancor prima di loro, Wagner con l'idea di opera d'arte totale, e Debussy col suo impressionismo in note, avevano contribuito ad aprire la musica verso altri settori artistici.

Kandinsky, "Improvvisazione n.26"
Basti poi pensare a certi titoli di raccolte - peraltro comuni a numerosi compositori dell'Ottocento - come "Notturni", "Images", "Arabesques" o "Quadri..." e via dicendo, per trovare un linguaggio che, partendo dai suoni, evoca subito suggestioni visive. 
Mentre, di rimando, in alcune opere pittoriche di Kandinsky e Klee troviamo titoli come "Improvvisazioni", "Polifonie" e "Fughe".

Ma, tra gli altri, è merito del compositore russo Alexander Skrjabin (1872 - 1915) l'aver teorizzato alcune corrispondenze tra colori e suoni, come si può osservare nel riquadro in alto.
Qui, le tonalità sono distribuite nel cosiddetto circolo delle quinte - un percorso che conduce dalla tonica (la prima nota di ogni scala) alla rispettiva dominante (la quinta) e via di seguito - all'interno del quale Skrjabin, ordinando tali tonalità in riferimento allo spettro solare, ricava uno schema in cui a ciascuna di esse associa un colore.

E proprio di questo splendido autore oggi desidero regalarvi un brano: il "Preludio op.11 n.8 in fa diesis minore".
Si tratta di un pezzo che, a tutta prima, può far pensare a Chopin, sia per la dolcezza del fraseggio che per quei luminosi passaggi che - dopo un inizio in minore - si aprono, pacatissimi, in tonalità maggiore.
Ascoltandolo, mi risuonano dentro le battute iniziali del "Notturno in do minore op.48 n.1", qualche tratto del primo tempo del "Concerto n.2 in fa minore op.21", ma anche altro. Tuttavia non è importante identificare un preciso testo di Chopin a cui ricondursi, perchè non si tratta di imitazione, ma di una linfa che Skrjabin ha tanto profondamente assimilato da trasfonderla come cosa ormai sua nella propria esperienza compositiva.

Quanto alla tonalità, nel circolo delle quinte il compositore fa corrispondere il fa diesis al blu-violetto, oserei dire quasi indaco: una sfumatura delicata e insieme profonda, pervasa da una dolcezza crepuscolare. 
Certo, siamo nell'ambito di sensazioni puramente soggettive, ma è pur vero che l'essere immersi in un particolare ambiente sonoro di maggiore o minore intensità, coinvolge e sollecita la nostra percezione in modo differente.
Del resto il blu, nella gamma delle sue sfumature, è stato spesso considerato il colore dell'introspezione e dell'infinito, della calma e della spiritualità, ma anche della malinconia: basti pensare - sempre per restare in tema di musica - al carattere distintivo del blues. 

Nel preludio, Skrjabin ci introduce davvero in un clima che rispecchia un po' entrambi gli aspetti: dopo un inizio lento, il brano si fa più concitato e, se da un lato si ammanta di tristezza, dall'altro questa si stempera in luminosità. 
Vi si alternano infatti passaggi che salgono progressivamente in tensione e poi si aprono a conclusioni di ineffabile splendore.
Ma il finale resta avvolto da un'atmosfera di malinconia, mentre l'aria va ripetendosi e sembra quasi non finire, come un rivolo d'acqua che si perde piano...

Buon ascolto!

martedì 4 novembre 2014

Per sorridere un po'....

Ormai un po' mi conoscete.
Conoscete i miei gusti, i miei compositori preferiti, le mie passioncelle musicali nutrite dai sedici anni in poi e le mie fissazioni che, di tempo in tempo, avete imparato a sopportare.
Sapete quindi che, nonostante ami tanta splendida musica di ogni epoca, periodicamente sento la necessità di tornare a Bach e a Mozart, come si torna ad attingere ad acque di straordinaria purezza simili a quelle che scendono dai ruscelli di montagna.

Soprattutto a Bach, ruscello anche di nome: immenso, grandioso, versatile, multiforme, attuale, un compositore che adoro non solo nei suoi testi originali, ma - chi mi segue da un po' lo sa - anche danzato a ritmo di breakdance e negli svariati arrangiamenti jazz e rock che ne sono stati fatti, a cominciare dai miei mitici Swingle Singers già più volte citati.

"...Ancoraaaa???!!!"...mi sembra di sentire qualche velata protesta...    "Sì....cioè no". 
Sì, nel senso che è ancora Bach che oggi vi propongo; no perchè quello che vado a presentarvi è un gruppo vocale di cui finora non ho mai parlato.
Si tratta dei King's Singers, famosissimo coro inglese specializzato in un repertorio che va dalla polifonia rinascimentale fino ad arrangiamenti jazz, pop e folk, insieme a qualche piccola performance venata di umorismo.
 
E, appunto, oggi lasciatemi divertire....nella speranza che mi perdoniate se ho voglia di scherzare un po', e nessuno gridi allo scandalo fuggendo a precipizio da questo blog! Se invece il pezzo vi piacerà, sappiate che il gruppo vocale si esibirà a breve - 12 e 14 novembre - a Erba e a Verona, ma tornerà in Italia nell'aprile 2015 per un tour nelle maggiori città. Io ci farei un pensiero...

Il brano che vi propongo è tratto dalla "24 ore Bach", maratona musicale svoltasi a Lipsia nel 2000 in occasione del 250° anniversario della morte del compositore. 
Il pezzo s'intitola "Deconstructing Johann" e già questo la dice lunga sul tono giocoso dell'esibizione. I King's Singers, cantando su vari temi bachiani, immaginano infatti un Bach in piena crisi compositiva che, dopo aver scritto la sua toccata più famosa - quella in re minore, per intenderci - si blocca, totalmente privo d'ispirazione per la successiva fuga. Cercherà invano di confortarlo la moglie, e quando preso dal panico non saprà più che fare, a suggerirgli la soluzione sarà.......ma lo sentirete voi!
Una performance che - spero - vi faccia sorridere e apprezzare le magnifiche voci di questi coristi, insieme al loro stile ricco di brio e simpatica ironia.

Confesso che la prima volta che li ho ascoltati, pur avendone ammirato la bravura, non mi sono particolarmente entusiasmata. 
Poi, risentendoli, ho capito invece che il loro modo sorridente di smitizzare un mito - mi si perdoni il gioco di parole - ci poteva stare.
Giocare con un genio assoluto com' è Bach nulla toglie alla sua grandezza, al nostro stupore di fronte alla sua straordinaria inventiva e alla dimensione profondissima con cui le sue note continuano a parlarci a distanza di secoli.

Così, mi sono convinta che lo stesso Bach - che certo dalla sua nuvoletta tra le più alte in Paradiso avrà buttato l'occhio, e soprattutto l'orecchio, giù a Lipsia per seguire la 24 ore - non abbia gridato allo scandalo o alla dissacrazione. Al contrario, vedendo tanta folla riunita per lui sotto la pioggia, avrà sorriso commosso e, seguendo la performance dei King's Singers, si sarà anche schiettamente divertito. 

Ascoltando la clip-video, riconoscerete alcuni passaggi tratti, nell'ordine, dalle seguenti composizioni bachiane:

- "Toccata e fuga in re minore BWV 565"
- "Adagio ma non tanto" dal "Concerto in re minore per 2 violini BWV 1043" 
- "Badinerie" dalla "Suite per orchestra n.2 in si minore BWV 1067"
- "Aria" dalla "Suite per orchestra n.3 in Re maggiore BWV 1068"
"Allegro assai" dal "Concerto brandeburghese n.2 in Fa maggiore BWV 1047"
- e ancora "Toccata e fuga in re minore BWV 565".

Buon ascolto e buon divertimento!