giovedì 26 giugno 2014

Milano Centrale

Foto di Danilo Rainò
Sono innamorata di Milano, da sempre.
E' una città che adoro nonostante - insieme a tanto splendore artistico e ricchezza di eventi culturali - porti in sè anche problemi, disagi e alcuni aspetti di degrado come del resto altre metropoli.

Sarà perchè vi abitano molti cari amici di recente ma anche di veccha data; sarà perchè la frequento dai tempi dell'università e di anni ne sono passati; sarà che l'ho girata spesso a piedi, imparando a conoscerne gli angoli più riposti e affascinanti....
Ma so che di Milano ho respirato l'anima, cogliendo da un lato l'attitudine operosa e concreta che la contraddistingue da sempre, e dall'altro tanta bellezza viva ancora oggi, nonostante varie evidenti contraddizioni.

Ho in mente - per esempio - alcune vie del centro, a pochi passi dai luoghi più celebrati, dove il chiasso cittadino tuttavia non arriva e il verde ombroso di cortili e giardini sembra custodire il silenzio: tratti di una signorilità che Milano offre in modo non ostentato e scenografico, ma riservato e discreto.

Ma porto in cuore anche alcuni flash dei miei anni di università. Studiavo allora con un'amica che abitava in una traversa vicino ai Navigli.
Ricordo il profilo scuro e il campanile aguzzo della chiesa di San Cristoforo che - poco lontano - emergeva dalle brume nelle giornate autunnali: uno scorcio   affascinante e suggestivo della periferia di un tempo, un'immagine che cercavo ogni volta, appena scesa dall'autobus.
Verso sera poi, tornando in stazione, soprattutto d'inverno amavo restare in fondo sulla piattaforma del mezzo, e osservare da lì la città che mi scorreva accanto. Agli incroci, il giallo delle lampade al sodio si allungava su strade poco frequentate che ancora non conoscevano la movida ma, via via che ci avvicinavamo al centro, la metropoli si animava e si riempiva di luci da via Torino fino a piazza Duomo. Sprazzi di vita in cui m'immergevo e di cui mi riempivo gli occhi e il cuore.
Lì, prendevo la metropolitana per la Stazione Centrale e un altro mondo ancora mi si apriva davanti.

Si sa, sono i legami con le persone ma è anche il nostro vissuto a rendere significativi i vari luoghi, come se in ognuno dei loro angoli rimanesse una parte di noi e, ripercorrendoli, potessimo ritrovarla e in qualche modo riviverla. 
Per questo, per quanto strano possa sembrare, di una Milano così eterogenea amo particolarmente la Stazione Centrale.
Sotto quelle arcate scure risento infatti il respiro della vita nel suo farsi: le gioie dei miei anni universitari, l'ansia dei giorni d'esame, le corse serali per non perdere il treno, gli amici da accompagnare o aspettare al binario, sogni, passioni, stanchezze, ma talora anche quella solitudine amica che ci dà occhi per leggere dentro le cose.

E' pur vero che, nel tempo, la stazione ha subito diverse modifiche: anche se al suo ingresso vi sono ancora aree di profondo degrado, gli ambienti sembrano essersi dilatati e nei suoi atri luminosi dove transita un'umanità sempre più varia e colorata, si affaccia una serie di modernissimi negozi.
Tuttavia, la Centrale resta uno spazio in cui - ancora oggi - posso aggirarmi ad occhi chiusi come in una sorta di ventre materno in cui muovermi con sicurezza. E ciò non solo per quell'abitudine ormai acquisita che talora ottunde i sensi togliendo la percezione delle cose. 
Al contrario, entrare in stazione è per me coglierne il respiro e sentirmi accolta in un abbraccio familiare: quello di un classico non-luogo in realtà fortemente connotato, che mi regala una sensazione di casa allargata in cui ritrovo emozioni passate e recenti, e dove il cuore si apre a un ritmo che gli appartiene come quello del viaggio. 
Ma è anche una dimensione cosmopolita quella che percepisco, nelle mille storie che s'intrecciano mute nel viavai di tante persone e insieme nelle tracce del loro passaggio.

Bello il grande albero allestito sotto Natale, pieno di post-it dove chi passa lascia un pensiero, un ricordo, un augurio, una preghiera, un commento insomma, dai quali traspaiono scorci del vissuto di ciascuno. Al posto delle classiche decorazioni, messaggi d'amore, biglietti magari frettolosi ma colmi di vita vera che raccontano in controluce sprazzi di esistenze. Piccoli segni per significare una presenza, per dire: "Ci sono anch'io, esisto!".
E del resto, un luogo di arrivi e partenze come una grande stazione non è forse uno dei più adatti a suscitare sentimenti ed emozioni e a farci avvertire più acuto il senso della nostra provvisorietà?
 
A volte, penso a come apparirebbe se gli stati d'animo di tutti coloro che quotidianamente vi s'intrecciano in un passaggio incessante, per un attimo si potessero materializzare e diventassero visibili....quasi si riuscisse a percepire in contemporanea il respiro interiore di ciascuno fissato in una sorta di fermo-immagine.
Ne risulterebbe forse un'onda d'urto da togliere il fiato o - al contrario - un mosaico bellissimo, simile a quelle figurazioni formate a loro volta da tante minuscole foto che insieme ne compongono appunto una più grande.
Un mondo vivo insomma, fatto di amore e nostalgia, come quelle melodie intense e struggenti che arrivano a toccarci dentro. 

Per questo, per la mia Stazione Centrale ho scelto le note di un compositore poliedrico come il contemporaneo Giovanni Sollima - classe 1962 - in un brano che ha il fascino di un adagio barocco e al tempo stesso la modernità dell'oggi. 
Si tratta di "Igiul", secondo movimento di "L.B.Files" dedicato a Luigi Boccherini da cd "We were trees". 
E' il violoncello che Sollima fa cantare e che scende nelle profondità dell'anima con un suono sottile come una lama e persistente come la nostalgia.
La melodia, un tema di poche note enunciato in apertura dal solista, viene poi scandita dal meraviglioso ritmo degli archi e va progressivamente ad aprirsi e a tradursi in lenta danza, quasi il compositore si volesse soffermare su ogni singolo suono consentendoci di assaporarne il riverbero.

E mi piace commentare questa mia Milano proprio con la musica di un autore che ha invece le sue radici in Sicilia - a Palermo, per l'esattezza - quasi a significare quella dimensione di apertura che ogni grande città e in particolare ogni grande stazione ci offre, con i suoi problemi e il suo affanno, ma anche con la varietà e il fascino stesso della vita.

Buon ascolto!

venerdì 20 giugno 2014

Se da cosa nasce cosa....

Da cosa nasce cosa, è risaputo. 
Così, da ascolto nasce ascolto, spesso sull'onda del desiderio di ampliare o approfondire certe passioni musicali, di fare confronti o identificare ricordi e somiglianze che la memoria ci suggerisce.

E navigando su youtube da musicista a musicista e da un brano all'altro, a volte cercando deliberatamente un pezzo, altre volte aprendo una pagina a caso per pura curiosità, si fanno scoperte davvero interessanti.
Come la fuga per archi che vi propongo oggi: una composizione nitidissima nella sua struttura, dove le voci che s'inseguono leggere sembrano rimandarci agli artisti della più consolidata tradizione barocca.

E invece no. 
L'imprevedibile autore di questa piccola meraviglia è nientemeno che Giacomo Puccini (1858 - 1924), famosissimo per le sue opere di teatro e le sue arie immortali, ma non certo allo stesso modo per le sue fughe.
Devo confessare che è stato l'ascolto della "Messa di Gloria" - dalla quale ho pubblicato qui il "Kyrie" proprio pochi giorni fa - che mi ha indotto ad addentrarmi in altre composizioni pucciniane che non fossero le celeberrime opere teatrali. 
E a rimarcare il fatto che da cosa nasce cosa, eccomi a condividere con voi la mia nuova scoperta.

Il pezzo che vi propongo è la "Fuga n.1 in La maggiore" - qui nella versione per quartetto d'archi - e non è l'unico brano di questo tipo scritto dal compositore lucchese.
Si tratta di lavori giovanili, forse esercizi di stile come ogni buon allievo di conservatorio sa fare: una sorta di Puccini minore quindi. 
In effetti, se ascoltiamo con attenzione il pezzo, ci rendiamo conto che non ha nulla di particolarmente innovativo e alcuni passaggi della melodia risultano un po' prevedibili come lo è, del resto, l'architettura contrappuntistica in genere. 
Ma chi ha detto che non possa essere ugualmente delizioso un brano simile, per quanto non sia celebrato e famoso al pari di altre opere?  
Mi è già capitato altrove di osservare come la vera arte si profonda sia nelle grandi che nelle piccole cose e si sa che, se l'autore è geniale, anche da un esercizio a scopo didattico possono fiorire meraviglie.  

Così qui - seppure la fuga sia una forma del passato più vicina all'epoca, per esempio, di un altro famoso lucchese come Boccherini - l'inventiva di Puccini ci regala comunque un brano di grande raffinatezza.
E' una melodia serena e luminosa quella che lo contraddistingue e, man mano che l'intreccio delle quattro voci cresce d'intensità, sul rigore della sua struttura vanno a sovrapporsi e a prevalere un garbo e una delicatezza incomparabili. 
Leggerezza e complessità mi pare si fondano in modo straordinario. 
Infatti, lo stile di per sè piuttosto severo della fuga qui dà luogo invece a un pezzo di grande leggiadria nel quale l'autore, se da un lato dimostra la propria conoscenza del passato, dall'altro lo fa suo con grazia inimitabile.

Buon ascolto!

venerdì 13 giugno 2014

Verde muschio

Leggo sul "Corriere della Sera" di martedì 10 giugno una notizia davanti alla quale mi sciolgo.
Una notiziola, in fondo, che non può competere per importanza con quelle che tengono banco in questo periodo: dalla scoperta di voragini di corruzione sempre più sconcertanti dall' EXPO al MOSE, fino ai risultati dei ballottaggi elettorali, all'inizio dei mondiali di calcio e altro ancora. 
Ma vuoi mettere???....
Eppure questa notiziola mi riempie di commozione.

Non è altisonante nè clamorosa, ma lieve e dolce, discreta e leggera come quei particolari che talora ci sfuggono, ma ci sono. Come la rugiada del mattino sui fili d'erba o il muschio sulla corteccia degli alberi o su vecchie tegole: piccoli splendori nascosti.
Ci avete mai fatto caso? Avete mai toccato il muschio sulla corteccia di un albero indugiando con le dita in un gesto un po' infantile, ma vero come una carezza? E' una superficie morbida e vellutata che smussa le taglienti asperità della corteccia. Bene, la mia notiziola è così. 
Ma vengo al dunque. 

L'articoletto s'intitola "Canta il giudice, platea di carcerati" e registra l'evento che si è tenuto qualche sera fa a Milano, promosso dall'associazione Quartieri Tranquilli
La Corale Polifonica Nazariana formata da un nutrito gruppo di magistrati insieme a professionisti anche di altri settori, sotto la direzione del giudice Lucio Nardi ha tenuto un concerto nella rotonda del carcere di San Vittore, riscuotendo applausi da stadio dal pubblico di un centinaio di detenuti. Programma di tutto rispetto con autori tra i quali Mozart, Bach, Puccini e Orff.

"Che meraviglia!!!" mi dico. Mi piace che questi professionisti, tolte le toghe, vadano a rinfrescarsi l'anima con lo splendore della polifonia passando dal codice penale a uno spartito di Palestrina o di Bach. 
Ma ancor più affascinante è che non si esibiscano soltanto durante celebrazioni o rassegne musicali o in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - come già avviene - ma anche in un luogo di pena, condividendo il frutto della loro esperienza con coloro ai quali li lega un compito difficile e talora non privo di sofferenze.
So che non è la prima volta che ciò accade, ma è sempre bello che dei magistrati vogliano regalare ai detenuti lo splendore terapeutico della musica che rende liberi nell'anima, andando a toccare con la sua bellezza l'umanità profonda di ciascuno!
E mi viene in mente, a questo proposito, una famosa sequenza del film "Le ali della libertà" dove il protagonista - peraltro non giudice ma detenuto - durante l'ora d'aria, sfuggendo ai controlli riesce a trasmettere dagli altoparlanti del penitenziario un soavissimo brano di Mozart da "Le nozze di Figaro", portando per un attimo in quell'inferno una luce di paradiso. 
Una scena che ti resta dentro insieme a quelle note.

Ma tornando all'articolo, condivido in pieno anche la conclusione del giornalista Paolo Foschini: 
"Non è la soluzione dei problemi del carcere, va da sè. Ma averne." 
Averne, appunto: avere persone desiderose di comunicare davvero a tutti la propria passione, persone capaci di regalare un sogno che, per qualche momento, coinvolga e unisca nell'universale abbraccio della musica chi giudica e chi è giudicato. E costruiscano speranza.

Così, desidero commentare quest'evento con un brano di uno degli autori inseriti proprio nel programma del concerto: Giacomo Puccini (1858 - 1924) del quale ho scelto il "Kyrie" dalla "Messa di Gloria". 
Si tratta di un' opera giovanile del compositore nella quale tuttavia sono già presenti melodie che saranno riutilizzate in successive creazioni.
Un pezzo che unisce leggerezza e intensità, fatto di note che talora si ammantano di forza, ma che nel tema principale scendono lievi e dolci come la mia notiziola: morbido muschio sull'aspra corteccia delle cronache dei nostri giorni.

Buon ascolto!

giovedì 5 giugno 2014

Giovani di ieri e di oggi

Sappiamo tutti che una delle caratteristiche di chi può essere definito "genio" è la precocità, la capacità di rivelare già da giovane, se non addirittura da bambino, abilità e talento che sarebbero straordinari forse anche in un adulto. 
E mi ha sempre colpito il fatto che diversi autori - e qui parlo naturalmente di musicisti - abbiano composto veri e propri capolavori tra l'adolescenza e la giovinezza, intorno a quei vent'anni - ma talora anche prima - che sempre parlano di speranze, di passioni, di freschezza o di tempestosa irruenza.

Ciò non significa affatto che il cammino successivo verso l'età adulta non abbia valore e che l'esperienza acquisita poi nell'evoluzione  esistenziale e artistica non costituisca una ricca e sfaccettata risorsa interiore destinata ad alimentare l'ispirazione. Tant'è vero che, nel percorso di un artista, le opere della maturità sono spesso contrassegnate da profondo spessore o da nuove aperture.
Tuttavia, resta il fatto che svariati compositori hanno scritto ancora giovanissimi alcune delle loro più celebrate creazioni nelle quali hanno profuso una parte non indifferente del loro genio.
Basti pensare a Mozart e ai suoi cinque incantevoli Concerti per violino: K.207, K.211, K.216, K.218 e K.219, composti nel giro di pochi mesi nel 1775 e cioè quando l'autore aveva solo diciannove anni!
Ma talenti precoci furono anche Rossini, Paganini - solo per citarne alcuni - e numerosissimi altri grandi del mondo delle note. 

Certo, in molti casi si tratta di autori che hanno - per così dire - respirato musica già in famiglia, essendo nati da genitori musicisti e in mezzo a fratelli avviati a loro volta allo studio di uno strumento. Tuttavia, al di là di questo terreno decisamente favorevole, è fondamentale l'insopprimibile desiderio espressivo che li ha mossi spesso nell'impeto di un'età ancora adolescenziale.
Ci si rende conto di ciò se si considera, per esempio, che Bach scrisse il corale "O Gott du frommer Gott" poco più che quindicenne e, se parliamo di Chopin, scopriamo che debuttò come compositore a soli diciassette anni.

E arriviamo a Chopin, appunto. 
E' lui che oggi desidero proporre all'ascolto con il primo movimento, "Allegro maestoso", del "Concerto n.1 in mi minore op.11 per pianoforte e orchestra" qui diretto dal compositore Krzysztof Pendereckj insieme all'Orchestra Filarmonica di Varsavia.
Ho scelto proprio questa clip video perchè mi piace l'idea che sia un autore polacco a dirigere la musica di un altro autore polacco, ma anche che sia un giovane a interpretare un altro giovane.
E' infatti sulle mani del pianista che si concentra la mia attenzione: il russo Daniil Trifonov, classe 1991, esponente di quella splendida generazione di solisti che stanno emergendo come astri nascenti in taluni casi del pianoforte, in altri del violino e via dicendo.

In questo caso, il giovanissimo interprete si misura con il capolavoro di un compositore - in fondo - coetaneo, se si pensa che il concerto che propongo è stato registrato quando Trifonov stava per compiere vent'anni e Chopin ha scritto i suoi concerti per pianoforte più o meno alla stessa età.
E il genio del musicista polacco si esprime qui con freschezza e intensità senza pari, come quelle che solo la giovinezza sa regalare e che Trifonov fa sue con altrettanta passione, entrando nella partitura e rivivendola ora con decisa irruenza, ora con delicatezza e intimità.

Ma si tratta di un concerto che ha segnato anche la mia giovinezza.
La scoperta di Chopin, infatti - all'alba, questa volta, dei miei vent'anni - più che attraverso altri pezzi, coincide proprio con l'ascolto dei due concerti per pianoforte. 
A dire il vero, all'inizio la mia passione è andata tutta per il secondo, quell'incantevole op.21 di cui - se lo desiderate - potete ritrovare il Larghetto qui.  Ne ero talmente attratta che - come spesso mi capitava - lo ascoltavo in continuazione. Ma il suo splendore mi ha poi ricondotto al primo che ho cominciato ad apprezzare proprio dal movimento iniziale.

Si tratta di un brano che alterna sonorità grandiose - è giustamente un Allegro maestoso - a melodie più dolcemente cantabili. 
L'esordio è costituito da una lunga introduzione orchestrale ricca d'intensità tesa a preparare l'entrata del solista che, a sua volta, riprende il tema esposto dall'orchestra declinandolo in registri di vigoroso virtuosismo, ma anche di incantevole dolcezza espressiva. 
Uno Chopin giovanissimo, ma già intenso e compiuto nella sua profondità capace di superare il tempo, e insieme nella sua ricerca di equilibrio tra serenità e malinconia, intimità e irruente passione, così come nel suo scandagliare e restituirci ogni sfumatura dell'anima.

Buon ascolto!
(La clip video riporta solo la prima parte del brano, qui ritrovate la seconda: www.youtube.com/watch?v=NyGW7Uq0GoY. )