domenica 30 giugno 2013

Giugno: le attese di Hopper.

" Cape Cod Morning" - Washington, Smithsonian American Art Museum.
Ci sono mesi, nel corso dell'anno, che aprono a particolari stati d'animo perchè inaugurano nuove stagioni, preludono a festività o perchè iniziano o concludono un periodo di lavoro.

Soprattutto da quest'ultimo punto di vista, giugno e settembre sono sempre stati per me i più significativi perchè caratterizzati da un senso di attesa: in settembre per il desiderio di realizzare concretamente le varie attività programmate, e a fine giugno per la speranza di potermi finalmente rilassare, una volta giunta alle soglie dell'estate. E credo sia così per tanti, se non per tutti.

"Morning Sun" - Ohio, Columbus, Museum of Art
Tuttavia, ogni attesa è manifestazione di un atteggiamento esistenziale più ampio e profondo che caratterizza ciascun essere umano nella sua sostanziale incompletezza e nel suo desiderio di compimento.
Sempre si attende qualcosa, è questa la tensione che ci proietta avanti dando senso ai gesti quotidiani: piccole attese spesso proiezioni di quelle grandi, a volte realizzate e al tempo stesso mai totalmente colmate.

E' a questo proposito che oggi voglio ricordare un artista che dell'attesa mi pare abbia fatto il leit-motiv di parecchie sue opere: si tratta del pittore statunitense Edward Hopper (1882 - 1967).
Nonostante un certo clima di freddezza, i suoi dipinti mi hanno sempre attratto per la loro capacità di rendere in modo immediato alcuni aspetti della condizione esistenziale superando il puro e semplice realismo.
"Four Lane Road" - Collezione privata
Mi pare infatti che Hopper vada al di là dello sguardo per parlare subito all'anima, evocando lo sgomento e la sostanziale solitudine dell'essere umano - una sorta di straniamento dell'individuo dalla realtà circostante - in un'atmosfera metafisica che, per certi aspetti, lo avvicina a De Chirico.  

Le sue opere sono caratterizzate da figure dallo sguardo assente, assolutamente statiche, simili a oggetti tra gli oggetti. E la particolare luminosità fatta di contrasti intensi, le linee oblique che segnano nettamente il limite tra luce ed ombra, insieme ai colori distesi con uniformità, sembrano accentuare il senso di freddezza insieme al silenzio da cui ogni composizione è pervasa.

"Automat" - Iowa, Des Moines Art Center
Ma parlavo di attesa. Molti dipinti fotografano questo stato d'animo o esso vi traspare comunque declinato in svariate situazioni proprio dalla staticità delle figure.
Attesa di qualcosa o qualcuno, come potrebbe far pensare la donna protesa dietro la finestra in "Cape Cod Morning". 
O attesa forse ormai inutile, come quella della donna seduta al tavolino in "Automat" che per certi aspetti mi ricorda "L'assenzio" di Degas. 
Altro stile e in parte altro contesto, è vero, ma stessa desolazione portata qui alle estreme conseguenze in una dimensione di totale incomunicabilità, dove il vetro che riflette le luci del negozio, alle spalle della donna, diventa in realtà una galleria scura che sembra ingoiare ogni cosa.

"Western Hotel" - New Haven, Yale University Art Gallery
Tuttavia, anche quando nei dipinti compaiono più personaggi, il silenzio e il senso di solitudine restano invariati e l'individuo rimane chiuso in se stesso come l'uomo che vediamo in "Four Lane Road".

Particolarmente significativo, a mio avviso, anche "Western Hotel", dove la valigia, l'auto in secondo piano, il busto eretto della donna che tradisce una tensione ci restituiscono il senso della provvisorietà insieme a una sottile angoscia.

"South Carolina Morning" - New York, Whitney Museum of American Art
Attesa davanti a una finestra e al cielo, come in "Morning sun", a un panorama metropolitano di geometrica precisione, a tratti di strade che non si sa dove portino o a un paesaggio estivo
"Rooms by the Sea" - New Haven, Yale University Art Gallery
sostanzialmente vuoto, come in "South Carolina Morning". 
   Ma anche dove non compaiono figure umane e l'atmosfera è più serena come nel bellissimo "Rooms by the Sea", la luce, il taglio prospettico e ancora una volta le linee oblique, ci parlano ugualmente di un senso di incompiutezza e di sospensione.

Ciò che scorgiamo in ogni dipinto sembra infatti lo scorcio di una scenografia che richiama un altrove più vasto e completo capace di dar senso al reale, forse un rimando all'eternità, davvero oggetto ultimo di un'attesa o di una disincantata nostalgia.

E a commento di queste immagini, un brano di un autore contemporaneo che mi pare rispecchi la silenziosa tensione da cui esse sono pervase. 
Si tratta di "Morning Passages" di Philip Glass, compositore statunitense nato nel 1937, considerato uno degli esponenti del minimalismo musicale. La sua fama tuttavia è legata anche alla realizzazione di svariate altre opere tra le quali musiche di scena e alcune colonne sonore, come quella del famosissimo film "The hours" dalla quale è tratto il pezzo di oggi.
Trovo la musica di Glass affascinante anche se, a mio modesto avviso, talora eccessivamente ripetitiva, caratteristica peraltro comune a diversi autori della corrente minimalista. 
Tuttavia, nel brano che propongo, il ritmo e la ripetizione fin quasi ossessiva del tema con quelle note che si fanno progressivamente più ansiose, creano una suggestione straordinaria e mi pare rendano davvero con efficacia l'inquietudine di questi dipinti apparentemente muti, dando voce al grido implicito che da essi affiora.

Buon ascolto!

lunedì 24 giugno 2013

Alberi

Da tempo ormai, hanno abbattuto il filare di alberi che stava dietro casa mia e che arrivava a sovrastare i miei balconi.
Erano piante vecchie, certo, in parte malate, forse per la loro altezza anche pericolose soprattutto nei giorni di vento e di temporale. Tuttavia, quando aprivo la finestra, potevo illudermi di abitare in un bosco e tutto quel verde fresco e ombroso d'estate mi ricreava.

Poi, un giorno, è accaduto. Tornata dal lavoro, non ho trovato più nulla: nel giro di una mattinata gli alberi erano stati abbattuti e al posto del prato sottostante stava prendendo forma il cantiere di un futuro parcheggio.
Giuro: mi è parso che mi avessero stravolto metà dell'esistenza, che quella non fosse più casa mia, perchè - per quanto spirito di adattamento si possa avere - una casa non è fatta solo di muri, ma anche di tutto il paesaggio circostante, del panorama inquadrato dalle finestre che entra con i suoi colori e suoni a far parte della nostra vita e delle nostre abitudini, se non addirittura di noi stessi.

Devo confessarlo: per un po' ne ho fatto una malattia, e a tutti quelli che venivano a trovarmi, non tralasciavo di raccontare la penosa vicenda rimpiangendo i bei tempi andati.
Poi ho dovuto rassegnarmi, tanto più che mi avevano assicurato che - parcheggio a parte - alcune zone verdi sarebbero state conservate o ripristinate.
Così in effetti è accaduto, ma il vecchio filare così alto è stato sostituito da tristi pinetti cimiteriali che non arrivano neppure al piano di sotto, mentre per me non è avanzato neanche un filo d'ombra.
Però, al di là del famigerato parcheggio, è stato piantato un nuovo filare di alberelli che stanno crescendo e, se pure non raggiungeranno mai l'altezza dei precedenti, spero che col tempo possano garantire almeno un po' di frescura all'intorno.

I primi anni, erano tanto esili che, con certe angolature di luce, nemmeno li distinguevo e mi si confondevano col prato retrostante; alcuni poi hanno anche faticato a crescere forse per difetto d'irrigazione, ma pian piano, nella loro fragilità, ho cominciato ad amarli. Così, all'inizio di ogni primavera cercavo d'immaginare quale ampiezza i loro rami avrebbero raggiunto alla fine della bella stagione, un po' come si fa con dei bambini ai quali si misura l'altezza sulle tacche di un muro.

Poi il tempo è passato. Ora li guardo e ogni giorno faccio il tifo per loro: dalla finestra della cucina li coltivo con lo sguardo osservando i fusti ancora sottili ma che - lo vedo - si stanno irrobustendo, o le chiome che iniziano a resistere all'onda del vento e, come fanciulli verso la prima adolescenza, prendono forma e bellezza.

Per questo, agli alberelli ormai divenuti miei, voglio dedicare una pagina musicale di assoluta bellezza: l'ultimo movimento, Allegretto, della Sinfonia n.6 in Fa maggiore op.68 "Pastorale" di Ludwig van Beethoven.
E' un brano conosciutissimo, luminoso e danzante, che esprime il sollievo e la gioia del ritorno al sereno dopo un temporale. 
Il tema - ripetuto più volte con successive variazioni prima delicate, poi progressivamente più maestose e talora solenni - sembra celebrare lo splendore della natura, dal più tenero filo d'erba al bosco più rigoglioso.
E' un crescendo d'intensità, dove ritmo e dolcezza si sposano in passaggi ora lievi, ora grandiosi ed entusiasmanti. 
Un esaltante tripudio di note nelle quali - tra l'altro - ritrovo alcuni incanti della mia adolescenza e che, nella loro bellezza, davvero riconciliano con la vita e col mondo.

Buon ascolto!

martedì 18 giugno 2013

Un Haendel da matrimonio

Scommetto che qualcuno riderà se vi racconto come tutto - e mi riferisco all'idea di questo post - è partito da uno spunto più che banale.
Ho cambiato da pochi giorni il cellulare, usufruendo di una di quelle offerte promozionali che girano in questi ultimi tempi e ho dovuto scegliere la suoneria tra le varie opzioni - non molte per la verità - che il telefonino mi offriva.  
"Ma le puoi anche scaricare dal web!" sento già che qualcuno mi sta dicendo. 
Lo so, ma....per favore, una cosa per volta, non sono molto veloce a familiarizzarmi con le novità tecnologiche. Dicevo che ho scelto la suoneria. 
La volevo chiara, immediatamente percepibile, ma non troppo invadente. Viaggio spesso e non mi piace svegliare un intero vagone di treno con un suono aggressivo come talora mi capita di sentire. Quindi tra il Rodeo Clown e l' Ukulele, indovinate cosa sono andata a scegliermi? Il Minuetto!!!
Ovvio...no??? E per di più cantato da un gruppo vocale che - se non è proprio quello - mi ricorda da vicino les Swingle Singers. Ancora più ovvio!!!

Poi però ho scaravoltato in lungo e in largo youtube, da Mozart a Vivaldi a Bach e via dicendo per andare a scoprire di che pezzo si tratta - e perdonatemi se comincio ad avere qualche vuoto di memoria! - ma non l'ho trovato!!!
....Volete sapere come fa??? Che... ve lo canto???
Allora, per facilitare le cose immaginiamolo in do maggiore:

"do do do do - 
si la sol fa
sol fa mi re fa mi re mi do 
do do do do -
mi re do si
re do si la si sol."

Questa più o meno l'aria. Qualcuno la conosce o è un jingle di pura invenzione? Somiglia a una quantità di altri minuetti, del resto il ritmo è sempre lo stesso, ma le note, le note precise quelle no, neppure tra le incisioni dei mitici Swingle Singers.

Ma siccome le ricerche fruttano sempre qualcosa, strada facendo mi sono imbattuta nello splendido brano di Haendel che vi propongo.
E' un altro "Minuetto" - tratto in particolare dall'opera "Berenice" - e per quanto sia un pezzo di carattere profano, non so perchè, ma me lo vedo accompagnare la celebrazione di un matrimonio.
E' l'attacco che mi riempie di suggestione, così solenne e insieme pacato e, ad ogni ascolto, in testa mi parte subito un video. Mi vedo tutto, dalla chiesa all'organo, dalle persone ai fiori, potrei persino descrivervi i particolari se non fosse che vi annoio e poi non c'entra. 
Ma m'immagino l'ingresso della sposa lungo la navata, la musica che subito zittisce il brusìo di chi attende e lei che avanza lenta, rispondendo con un vivido cenno dello sguardo ai saluti e ai sorrisi che i presenti le rivolgono.
Una musica composta e serena come parecchie arie di Haendel - pensiamo al famosissimo "Largo" - e che mi pare riecheggi qua e là qualche passaggio delle suites orchestrali del contemporaneo Bach. Note che predispongono al silenzio, quello interiore, e mi sembrano particolarmente adatte ad introdurre un rito per l'atmosfera assorta che creano riconducendo all'essenziale.

....Così, per oggi vi lascio con Haendel.  
Rileggo e mi accorgo che - soprattutto nella prima parte - è un post in cui sono andata a ruota libera....e forse anche un po' fuori di testa. Vabbè...per una volta!...Ma prometto che torno a fare la persona seria.
Mi perdonate???
Intanto godetevi questo splendore.

Buon ascolto! 

giovedì 13 giugno 2013

Irrefrenabile ritmo di un "Presto"

E' ancora dall'immaginario baule in soffitta cui facevo riferimento la scorsa settimana che prendo spunto per il post di oggi.

Come alcuni di voi ricorderanno, una volta - e diciamo pure ai tempi del mio baule - non potevamo portarci dietro la musica con la facilità attuale e ascoltarla in macchina o anche semplicemente per strada. Non esistevano ancora non solo cd e ipod con relativo auricolare, ma neppure audiocassette.
Era l'epoca del giradischi e del vinile e ogni ascolto, almeno per me, si traduceva quasi in un piccolo rito. Dovevo stare attenta a come maneggiare il disco per non lasciarvi le mie ditate e poi appoggiarvi la puntina con estrema delicatezza per evitare di graffiarlo rovinandolo così irrimediabilmente.
In seguito, ero entrata in possesso di un giradischi automatico, tuttavia occorreva sempre pulire bene il 33 giri, non un granello di polvere doveva restare sulla sua superficie!  
Ma più importante ancora era il silenzio. Non tolleravo che il più piccolo rumore mi disturbasse: la mia camera diventava una sala da concerto.

Oggi, ascoltare musica per conto proprio è diverso non solo perchè  schiacciamo un tasto e via, ma perchè è possibile farlo in qualunque situazione, persino immersi nel frastuono di una città e devo riconoscere che, per certi aspetti, anche questo ha un suo fascino. Lasciarci raggiungere dalle note mentre ci troviamo per strada, infatti, o quando siamo in treno e il paesaggio ci scorre accanto, è rendere la musica vera e propria colonna sonora del nostro cammino, tradurla in un colore che la realtà assume o in uno sguardo particolare sulle cose intorno a noi.
Ma quei primi ascolti sui dischi che compravo coi miei risparmi di adolescente o poco più, hanno mantenuto il sapore di una sorta d'iniziazione.

Oltre a tanti 33 giri dedicati a singoli compositori, ricordo che prediligevo alcune compilation - come le chiameremmo ora - che riunivano pezzi di autori vari e per vari strumenti.
In una in particolare, dove Arthur Fiedler dirigeva la Boston Pops Orchestra, avevo scoperto il Largo di Haendel, il Concerto di Varsavia di Addinsell, e la Danza ungherese n.6 di Brahms e per un bel po' di tempo non ero riuscita a separarmene.

Così, è proprio dai ricordi di una di quelle antiche miscellanee che sono andata a prendere il brano che oggi desidero condividere con voi: l'"Introduzione, Aria e Presto" di Benedetto Marcello (1686 - 1739).  
La composizione si articola appunto in tre tempi che più diversi forse non potrebbero essere. A un'animata e vibrante introduzione, segue infatti una melodia più lenta che si dispiega dolce e malinconica ripetendosi con svariati abbellimenti.
Ma è l'ultimo movimento, Presto, il vero pezzo di bravura che, dal mio primo lontano ascolto, mi ha poi sempre affascinato con il suo irrefrenabile ritmo.  
Qui, attraverso la splendida coesione dell'orchestra d'archi, il brano ci regala vivacità e leggerezza, corsa e danza, gioco e brio, sottolineati dal dialogo dei violini e scanditi dai pizzicati dei violoncelli in un crescendo a mio avviso entusiasmante.
Una musica dalla quale lasciarci portar via, note che restituiscono il sorriso sull'onda della gioiosa energia e della luminosa vitalità che esprimono.

Buon ascolto!

giovedì 6 giugno 2013

Tesori in soffitta

Ho un difetto.
"Uno solo?!..." si chiederà qualcuno magari un po' dubbioso e sconcertato dalla mia presunzione. 
No, a dire il vero....ben più di uno, ma questo è un altro discorso.

Dicevo che ho un difetto, in particolare, che risale alla mia adolescenza. 
Quando mi piaceva l'opera di un autore - scrittore o musicista che fosse - ero capace di rileggerla o riascoltarla all'infinito senza preoccuparmi di andare oltre e cercare altro, tanto quel brano mi saziava, tanto mi sentivo appagata da quegli scritti o da quelle note. 
In questo modo, se pure arrivavo a conoscere certi pezzi quasi a memoria, vi restavo poi talmente legata da essere restia a staccarmene per affrontare altre opere o altri autori. Così, le mie conoscenze rischiavano di restare piuttosto limitate.
Con l'età poi, ho gradualmente imparato ad aprirmi anche a ciò che - di primo acchito - non mi esaltava, scoprendovi invece spesso elementi di attrattiva. In seguito, il tempo, le amicizie, le contingenze della vita - come capita di frequente - hanno sollecitato in me il desiderio di conoscere nuovi artisti e nuovi generi anche nel grande panorama della musica.

Tuttavia, nonostante negli anni abbia attraversato periodi diversi e passioni musicali diverse più o meno dirompenti, un certo - diciamo così - zoccolo duro di compositori e di brani è rimasto invariato. 
In fondo, se ho dato vita a questo blog, inizialmente è stato proprio perchè, a un certo punto, mi sono resa conto di possedere un piccolo bagaglio di antiche passioni che volevo condividere, come avessi avuto un vecchio baule in soffitta dal quale trarre tesori nascosti. E il bello è stato che, riaprendolo, li ho ritrovati intatti. Ho scoperto infatti che la conoscenza del nuovo non aveva offuscato in me lo splendore dei primi amori, nel senso che l'emozione suscitata un tempo da quelle musiche era ancora viva con la freschezza di una pianticella sempreverde.  

Questo discorsino per dire che oggi, dai ricordi chiusi in soffitta, vado a riprendere un autore che - per quanto sia comparso qui solo una volta - ha sempre suscitato in me una passione dirompente: Sergej Rachmaninov (1873 - 1943).
Conosciamo tutti il suo mitico Rach 3, una delle vette più impervie del virtuosismo pianistico, reso famoso anche dal film Shine. Tuttavia, ad affascinarmi per primo era stato l'altrettanto famoso secondo concerto per pianoforte e orchestra, insieme ad alcuni brevi pezzi per piano solo.

E' proprio uno di questi che sono andata a scovare oggi nel mio immaginario baule: l' "Elegia in mi bemolle minore op.3 n.1". 
Il brano è tratto dai "Cinque pezzi di fantasia per pianoforte op.3" dei quali il più eseguito in assoluto è senza dubbio il "Preludio in do diesis minore". Ma se il preludio ci afferra con forza fin dalle prime battute, l'elegia ha invece un esordio più lento fatto di affascinanti e profondissimi arpeggi. 

La composizione, a mio avviso, riflette in sè tutte le caratteristiche musicali del suo autore: delicatezza e irruenza, profondità e impeto, alternanza di toni ora sommessi, ora drammatici, ma sempre intensamente romantici. 
Tuttavia, essa ci regala anche quella vena di sotterranea malinconia tipica di tanta musica russa, che scorre spesso anche al di sotto di certe esplosioni di martellante sonorità; una vena che è quasi uno sguardo struggente e nostalgico sulla vita e che spalanca squarci di mistero.
Nel corso del pezzo, il tema principale si ripete più volte ora intimo, ora espresso da un crescendo appassionato all'interno del quale avvertiamo il tocco profondissimo di ogni singola nota insieme allo sgorgare di un'energia e una sonorità che sembrano trasformare il pianoforte in un'orchestra. Tutti elementi di una capacità espressiva straordinaria, evidente anche da semplici dissonanze o da cambi di tonalità che arrivano a toccarci dentro. 

E, ancora una volta, mi riempie di stupore il miracolo che si compie nel  passaggio che trasforma un dato fisico - i suoni in questo caso e la frequenza di ogni singola nota - in un fremito del cuore, in un impeto di commozione e una gamma di sensazioni capaci di nutrirci nel profondo.

Buon ascolto!