giovedì 30 maggio 2013

Tornare a casa

Mi piace viaggiare in treno, l'ho già detto più volte. 
Nonostante i disagi che talora questo può comportare soprattutto se si usano convogli pendolari - e se riesco a non addormentarmici sopra rischiando di non scendere alla mia fermata!... - trovo che il viaggio sia un momento di tranquillità che concilia spesso la riflessione. 
I miei, solitamente, sono spostamenti di piccolo cabotaggio, ma anche in questa dimensione ordinaria amo guardarmi intorno e cogliere il respiro di vita nella sequenza di alberi e campagna, palazzi e periferie che mi passa davanti. Mi piace, ogni volta, lasciarmi pervadere dalle immagini che mi vengono incontro o mi scorrono accanto di sfuggita o che talora sono proprio io a cercare.
In particolare, è quando il treno esce dalla stazione centrale di Milano e da quelle arcate scure si avvia lentamente nell'intersecarsi dei binari, che non posso fare a meno di guardare la città mentre, pian piano, si allontana nello splendore di uno skyline che - soprattutto negli ultimi anni - è molto cambiato. 
E' un'abitudine che mi è rimasta dai tempi dell'università, quando dalla grande metropoli tornavo alla mia piccola provincia. 
Spesso, il profilo delle case si stagliava contro il cielo del tramonto, altre volte invece era la sera ad avvolgere la città; allora il treno, nella sua corsa, passando accanto alle finestre illuminate che si affacciavano nel buio sulla ferrovia, mi regalava fuggevoli sprazzi di quotidianità che potevo soltanto intuire, ma che tuttavia mi facevano sentire dentro, nel cuore dell'esistenza. 

Quel viaggio, infatti, era per me un po' il simbolo della vita: mescolarmi alla folla e passare la giornata in quell'animazione tumultuosa - a me che venivo da una città di cortili ombrosi e silenzi assorti - pareva fosse entrare nel profondo della realtà, avvertirne finalmente il respiro dal suo interno. 
Era la sensazione che ci cattura a vent'anni, quando si pensa che vivere sia uscire dal proprio ambiente, osservare, incontrare, sperimentare, sull'onda di un desiderio di conoscenza che ci divora. 
Così il viaggio - qualunque viaggio - diventa cifra della propria sete di vita, della gioia pulsante di sentirsi in cammino verso i propri sogni. 

Più avanti poi, si comprende che si viaggia certamente per questo, ma anche per tornare, per avere una gioia da offrire, un fuoco dentro, una luce nuova in fondo allo sguardo. 
Si parte per tornare a casa più consapevoli non tanto della meta raggiunta, ma del viaggio stesso che - strada facendo - attraverso i tanti incontri che ci hanno cambiati e arricchiti, ci ha regalato il sapore dell'esistenza, come ricorda Kavafis in quella splendida poesia che è "Itaca".
E se la meta non va mai persa di vista, è perchè Itaca è simbolo di un più profondo ritorno a noi stessi, di una progressiva scoperta della nostra autenticità. E' nel cuore la meta, nella sua sete inesausta che ci conduce a un viaggio, in realtà, infinito.
    
Allora, per muoverci anche nell'infinito della musica, mi piace ritornare ancora una volta a Chopin, con lo "Studio in La bemolle maggiore n.1 op.25" interpretato dal grande talento di Valentina Lisitsa che fonde passione e scioltezza in un equilibrio davvero mirabile.
In quelle note splendidamente arpeggiate, mi pare proprio di ritrovare la freschezza e l'entusiasmo di chi si appresta ad affrontare la vita, la passione e la leggerezza dei vent'anni insieme alla variegata compagine di ciò che l'esistenza - strada facendo - può offrire.
Com'era infatti nello Studio in Do maggiore n.1 op.10 che ho postato giorni fa, troviamo anche qui una ricchezza di armonie che ci accompagnano mentre si costruisce, pian piano, la melodia di fondo. 

E dato che - tra le altre cose - ho parlato di giovinezza, desidero dedicare questo brano di Chopin all'autrice del bellissimo blog  "Vasetto di Margherite", Chiara, che dopodomani primo giugno compirà proprio vent'anni. 
Alla nostra giovanissima amica l'augurio che il mondo - per usare una sua espressione - continui a traboccare dalle sue tasche e la vita che ha davanti possa sempre parlarle come una musica!!!

Buona visione e buon ascolto! 

giovedì 23 maggio 2013

Maggio : scena di famiglia in un esterno.

Come sempre, maggio m'induce ad orientarmi verso immagini aperte e ariose, magari nella cornice di un giardino verdeggiante.
Così, facendo seguito al post dello scorso anno a quest'epoca, nel quale avevo parlato di uno splendido quadro di Amedeo Bocchi, "La colazione del mattino", oggi mi piace proporre un'opera di argomento simile, ma nell'interpretazione di un altro affascinante artista.
Si tratta del dipinto intitolato "Colazione in giardino" di Giuseppe De Nittis (1846 - 1884), conservato alla Pinacoteca De Nittis di Barletta e attualmente pezzo forte, per così dire, dell'ampia mostra dedicata al pittore che si sta concludendo proprio in questi giorni a Padova.

Anche qui, come nel quadro di Bocchi, la cornice in cui è inserita la scena è un luminoso giardino dove le figure sono in controluce.
Ma decisamente differenti gli atteggiamenti dei personaggi, lo stile della pennellata, la definizione dei particolari e l'atmosfera complessiva della rappresentazione. Se infatti Bocchi, nel tocco diverso delle campiture di colore e in una certa sintesi compositiva, è già a pieno diritto artista del Novecento, in quest'opera De Nittis ricalca le orme di quell'Impressionismo che ha conosciuto e condiviso nel clima culturale francese e nelle sue frequentazioni parigine.

A colpirci in tutto il suo fascino è la perfetta fusione tra ogni elemento che il pittore raffigura - persone, animali e cose - colte in un'istantanea nella quale ogni gesto, ogni oggetto, ogni sguardo per così dire, è al proprio posto in un clima di eleganza che traspare sia dalla visione d'insieme che dai dettagli.

E' la colazione del mattino della famiglia dell'artista: al tavolo in giardino sono rappresentati la moglie e il figlioletto, mentre della presenza del pittore che probabilmente si è appena allontanato, restano la sedia scostata e quel tovagliolo lasciato lì.
Ma al suo posto, siamo proprio noi ad entrare nel dipinto e ad accostarci alla scena per osservarne la raffinatezza e la signorilità: dall'argento delle posate alla ceramica del servizio da caffè, dal vetro lavorato della zuppiera alla bottiglia di seltz che si confonde - forse volutamente - con i vasi di fiori. 
E il raggio di sole che illumina la tavola variegandola qua e là di ombre e suscitando bagliori, fa risaltare ancor di più lo splendore dell'insieme.
Ma raffinato anche l'accostamento di stoffe diverse, dal bianco quasi serico della tovaglia alla vaporosità dell'abito - voile o chiffon? - della signora. 
Una precisione da natura morta fiamminga fusa con il tocco luminoso delle pennellate a olio che ci ricordano Monet o Dégas, restituendoci l'impressione di un momento, la vibrazione di un istante.

Tuttavia, non si può dimenticare la piccola scena nella scena: lo stuolo di anatrelle che sembrano attirare tutta l'attenzione del bambino, mentre la madre lo guarda pacatamente assorta, in un atteggiamento che fa risaltare la profonda somiglianza dei loro profili.

Un dipinto che tuttavia, pur nel suo leggiadro splendore, forse racchiude in sè un triste presagio, se consideriamo che l'opera è stata realizzata tra il 1883 e il 1884, anno in cui l'artista morirà improvvisamente a soli trentotto anni.
Alla luce di questo evento, mi sembra di leggere nella struttura della rappresentazione un che di sottinteso, come se il pittore, in quel posto vuoto accanto alla moglie e al figlio, avesse in certo modo prefigurato la propria morte, simile a un allontanamento nello scorrere dell'ordinaria quotidianità. 

E mi pare che anche la luce, che si modula diversamente sulle figure, assuma un significato simbolico, accarezzandole in quella che è la loro realtà psicologica: il bambino attratto dalle anatrelle e in fondo dal gioco; la madre rivolta a lui con lo sguardo, ma in realtà tacita e pensosa, come peraltro è tradizione rappresentare la figura materna in tanta parte della storia dell'arte italiana. 
Interessante - a mio avviso - il fatto che al centro del quadro stia proprio il figlio, incorniciato dall'intensa luminosità del mattino, simbolo della sua giornata esistenziale appena iniziata. La madre invece - che De Nittis pone un po' in ombra sullo sfondo scuro degli alberi - nel suo sguardo e nel suo silenzio porta in sè  la consapevolezza della vita che scorre, tra la sedia vuota e il bambino, tra un tempo che sta per spegnersi e un futuro che attende il proprio compimento.

E a commento di questa immagine, un brano di Frédérick Chopin che non esito a definire sublime per la sua capacità di toccare ogni sfumatura del cuore. 
Si tratta del "Notturno in La bemolle maggiore op.32 n.2", pezzo ora malinconico, ora luminoso, ma sempre dolcemente appassionato. E gli accenti di grande intimità che fioriscono nelle battute più lente e si allargano sui numerosi abbellimenti, fanno di queste note uno dei più straordinari linguaggi dell'anima.
Una musica che, come una confidenza fatta sottovoce, con il suo incanto sembra rivelarci segretamente la ricchezza e l'intensità del non detto che il dipinto lascia solo intuire.

Buon ascolto!

venerdì 17 maggio 2013

Cittadini del mondo

Ci sono luoghi - magari anche geograficamente lontani da noi - che tuttavia non ci fanno uscire dal nostro ambiente e ci lasciano l'impressione di trovarci tra mura già conosciute e forse un po' scontate, senza che nulla solleciti il nostro cuore.
E altri, invece, in cui i confini della nostra appartenenza scompaiono e per qualche momento ci regalano la percezione travolgente di essere cittadini del mondo, non più legati ad abitudini e vicende solo nostre, ma aperti al respiro e al sentire di un cammino più ampio.

E' una sensazione bellissima che si prova ogniqualvolta ci troviamo a vivere un'esperienza il cui valore - facendo emergere da ciascuno emozioni profonde - ha il potere di abbattere quella cortina che talora ci impedisce di attingere alla verità di noi stessi e condividerla.
E' ciò che accade di norma in certi momenti forti o in luoghi di particolare sacralità che sono stati caricati nel tempo dall'intensità della preghiera, come se il passaggio di tanti pellegrini coi loro fardelli avesse in qualche modo lasciato una traccia di cui ci si può nutrire.
Luoghi nei quali il solo fatto di esserci sottintende un cammino sulle tracce dell'Infinito, una ricerca comune che crea già le condizioni per una comunicazione più intensa e più vera.
Ed è come se all'improvviso potessimo ampliare i nostri confini e ci ritrovassimo a parlare e comprendere il linguaggio dell'essenziale, anche accanto a persone sconosciute che per qualche tempo divengono compagni di strada di uno stesso itinerario. 

Dico questo perchè, giorni fa, mi sono recata a Santiago de Compostela - dal Medioevo meta di pellegrinaggio e simbolo di un cammino di rinascita - e anche se (merito dell'età!....) non ci sono andata a piedi come vorrebbe la tradizione, è stato ugualmente un viaggio significativo.

Giungere in un luogo così fantasmagorico e vario non è solo trovarsi in un ambiente dove fede, arte, storia e leggenda s'intrecciano, ma incontrare anche lo sciame colorato dei pellegrini che, arrivando di tempo in tempo nella piazza dell'Obradoiro, costituiscono uno spettacolo nello spettacolo. E tuttavia, le musiche o le danze improvvisate nella loro gioia non intaccano il silenzio interiore che regala comunque una meta simile.
Varcare il portico ed entrare finalmente nella Cattedrale, anche in mezzo a una folla che mescola pellegrini a turisti un po' svagati, è un addensarsi di emozioni, col cuore in attesa sul filo di quella speranza che ci ha fatto partire.

Anche qui, come lo scorso anno sulla tomba di Bach, mi sono staccata dal gruppo. 
In certi luoghi, di primo acchito ho bisogno di essere sola, di tagliare per un momento i ponti con ciò che mi lega a un paese di origine e a una trama di rapporti, per cogliere soltanto il presente: un tempo in cui ritrovarsi a tu per tu con se stessi, con ciò che lo sguardo mostra e l'anima suggerisce, e insieme scoprirsi cittadini del mondo.
Ho bisogno di essere sola perchè l'aver comprato la conchiglia, simbolo del viaggio fin qui, non sia semplicemente folklore, ma un gesto di verità simile al rito di purificazione che compiono i pellegrini quando - giunti oltre Santiago, alle rive dell'oceano - raccolgono le conchiglie e bruciano sulla spiaggia le vesti con cui sono arrivati per indossarne di nuove.
Sola, ma al tempo stesso parte di un cuore ampio e accogliente come è la Messa del pellegrino che si celebra ogni giorno alle dodici in punto, per una folla che più cosmopolita di così non potrebbe essere. 
Allo scambio della pace, è come allargare i pioli della propria tenda.
Un'onda si propaga per la Cattedrale: sorrisi veri, sguardi veri, strette di mano vere, prima che la benedizione di Dio onnipotente -"todopoderoso" nella corposa vivacità della lingua spagnola! - scenda su ciascuno, mentre dall'altare il celebrante assicura che lì si pregherà tutti i giorni per ogni pellegrino.
E uscendo dalla Cattedrale, mi rendo conto che non c'è espressione migliore di questa per definire il cammino di ciascuno nella propria vita: pellegrini, appunto, viandanti nella fatica e nella provvisorietà, cercatori instancabili di quel luogo - o di quella dimensione prima di tutto interiore - dove il linguaggio è davvero comunione.

E a tale proposito, ho pensato che fosse bello commentare questa piccola esperienza con uno dei linguaggi più suggestivi che la musica conosca: un canto polifonico e in particolare un brano di Thomas Tallis (1505ca. - 1585), compositore inglese del periodo rinascimentale. 
Si tratta di "If ye love me", di cui riporto qui di seguito il testo, ispirato a un passo del Vangelo di Giovanni (cap.14, vv.15 - 17) che, nei suoi riferimenti alla verità e allo Spirito, mi pare anche in sintonia con la prossima festività liturgica di Pentecoste.

"If ye love me, keep my commandments.
And I will pray the Father, and he shall give you another Comforter,
that he may bide with you forever, even the Spirit of truth."


Buon ascolto!
(Nei riquadri, il profilo della Cattedrale di Santiago de Compostela e la conchiglia, logo del "Cammino").


sabato 11 maggio 2013

Fare la propria parte

In tempi difficili come quelli che stiamo attraversando, nei quali trovare accordo sia nel settore politico che in quello lavorativo - e spesso anche nel più piccolo ma non meno importante ambito familiare - pare essere sempre più problematico, mi capita ogni tanto di pensare a quale esempio di vita e collaborazione fattiva possa rappresentare una grande orchestra.

Qui, infatti, per offrire a chi ascolta un'esecuzione armonica, è necessario creare tra tutte le diverse categorie di strumenti - archi, legni, ottoni e via dicendo... - un ordine, una coesione e una sintonia che consentano a ciascuno di fare la propria parte interagendo correttamente con gli altri, come si richiede del resto in ogni tipo di attività che implichi un lavoro comune.

Suonare insieme - per quel poco che posso capire non avendo esperienza diretta sul campo - non comporta infatti solo la piena conoscenza del brano da eseguire, ma soprattutto la capacità di relazionarsi con tutte le altre componenti orchestrali nel rispetto di ciascun ruolo. Non soltanto un a tu per tu con la propria parte, ma anche intelligenza e abilità per sapersi coordinare con gli altri, seguendo le indicazioni del direttore a cui va il compito di fare di tanti cuori una cosa sola.
Scuola di passione dunque, ma anche di disciplina e umiltà, e al tempo stesso laboriosa opera di mani e di fiato, di mente e di cuore per coniugare unità ed eterogeneità in un insieme armonico nel quale la voce di ogni singolo strumento continui a vivere.
Sintonia certo non sempre facile da raggiungere, ma assolutamente necessaria perchè il grande organismo possa funzionare in pienezza verso il suo scopo: lavorare per il bene altrui, offrendo a chi ascolta gioia, entusiasmo, vita e bellezza.

Senza dubbio, direttore e solista, che rivestono i ruoli di maggiore spicco, sono le figure su cui si appunta solitamente l'attenzione del pubblico. Tuttavia, sappiamo che per la buona riuscita di un'esecuzione nessuno tra gli strumenti previsti dalla partitura va trascurato, neppure la più piccola e delicata percussione, magari chiamata in causa per un tempo brevissimo, ma capace di creare un clima senza il quale il brano non sarebbe più lo stesso.
Affascinante quindi l'insieme delle singole voci orchestrali che devono arrivare ad incastrarsi nei tempi, nei ritmi e nelle melodie disegnate dalla mente del compositore, ciascuna restando al proprio posto secondo le caratteristiche del pezzo: ora in primo piano in un breve assolo, ora duettando con un altro strumento, ora come base che dà spessore e profondità al tema enunciato dal solista.
E che bella la consapevolezza di ciascun orchestrale quando la fusione è raggiunta e può cogliere lo splendore del proprio contributo al grande insieme!

Per questo, oggi desidero pubblicare una clip video che ci mostra una grande orchestra sinfonica ricca di elementi, dove le riprese danno particolare rilievo, se non a tutti, a molti di essi.
Si tratta dell' Israel Philarmonic Orchestra che, sotto la direzione di Wolfgang Sawallisch, esegue un famoso pezzo di Antonin Dvorak (1841 - 1904), la "Danza slava n.1 in Do maggiore".
Il brano, mentre si articola con potenza e vivacità sempre crescenti, dà voce a diversi strumenti che emergono progressivamente - dal flauto ai fagotti, dai corni alle percussioni - come un'onda che davvero ci porta via con sè. E sotto il gesto ora pacato, ora pronto e vivace di Sawallisch, insieme al suo garbato sorriso, la musica fiorisce.

Consiglio di guardare il video a schermo intero: saremo così accanto a ciascun musicista ad osservarne impegno e concentrazione, scioltezza e tempismo. 
E lasceremo che Sawallisch diriga anche la nostra gioia mentre - inevitabilmente - ci ritroveremo ad accennare un ritmo di danza.

Buona visione e buon ascolto!

domenica 5 maggio 2013

Il celeste delle farfalle

Nel post della scorsa settimana, parlavo di un dipinto di Monet facendo riferimento alla particolare atmosfera di vacanza che in esso si respira e che ci regala un senso di limpida leggerezza.

Penso, tuttavia, che a creare un clima capace di illuminare la nostra quotidianità donandole il sollievo che desideriamo non siano soltanto le rappresentazioni che l'arte ci offre. E' la vita stessa infatti a presentarci continuamente immagini che ci restano dentro, si sedimentano in noi e a volte tornano alla luce anche a distanza di tempo come piccoli sogni ad occhi aperti.
Si vorrebbe sempre attraversare le giornate con levità e sorriso, quasi a passo di danza, ma se - come tutti sappiamo - ciò accade raramente, allora possono essere i ricordi che conserviamo in cuore a riaffiorare consentendoci di levarci in volo e librarci nel cielo arioso e colorato dell'anima.

Sarà per questo che oggi mi sono venute in mente le farfalle della Valnontey, quelle che popolano alcuni anfratti di un dolcissimo sentiero che conduce ai piedi del Gran Paradiso.
Non sono appariscenti nè particolarmente variopinte, non amano i fiori più rari o i punti panoramici, ma si possono trovare negli angoli più bassi e quasi nascosti della pedonale dove il terreno - soprattutto nel pieno della calura estiva - si fa quasi polveroso.
Lì, contro il colore spento della terra battuta, in un ininterrotto tripudio di gioia come piccoli inafferrabili punti luce, si librano le farfalle celesti, splendide nella loro nota di azzurro intenso e vagamente cupo ad un tempo, piccolo prodigio della natura che veste in modo smagliante anche un minuscolo essere vivente.

Mi sono venute in mente in un brevissimo flash-back della mia scorsa estate, pronte a suggerirmi che la bellezza può sorprenderci ovunque, al di là dei limiti che talora le poniamo.
Chi si aspetterebbe, infatti, un nugolo di dolci, delicatissime farfalle proprio nel punto meno attraente di un pur bellissimo cammino?
Siamo talmente abituati a stabilire cos'è bello, cos'è brutto e a collocare  paletti, che talora rischiamo di non vedere più lo splendore che si annida - sempre - anche dove non ce lo aspetteremmo.
Per questo, il celeste delle farfalle mi regala un senso di leggerezza: non è solo il ricordo di una piacevole vacanza, ma soprattutto la percezione che la vita - e con essa la bellezza - è sempre sorprendente e smisuratamente più ampia delle nostre abitudini e del nostro sguardo.

Così, oggi desidero completare queste brevi considerazioni con un incantevole brano di Chopin. Si tratta dello "Studio in Do maggiore n.1 op.10", pezzo più che famoso per la sua meravigliosa sequenza di arpeggi che qui vediamo interpretato dalla bravissima Valentina Lisitsa.
Se la parte più appariscente - come il video ci mostra - è affidata alla mano destra che sembra volare sulla tastiera, ciò tuttavia non deve distogliere l'attenzione dalla sinistra che, nella successione dei vari accordi, costruisce un canto di suggestiva profondità il cui suono è esaltato dal particolare timbro del Bosendorfer.
Un brano che attraversa tutte le sfaccettature dell'armonia coniugando virtuosismo e leggerezza, uno studio movimentato e vibrante come un volo di farfalle.

Buona visione e buon ascolto!